Contenzioso

È legittimo il licenziamento di chi attesta falsamente le proprie presenze

di Vittorio De Luca e Antonella Iacobellis

Il Tribunale di Padova, sezione Lavoro, con l'ordinanza del 4 ottobre 2019 ha stabilito che è consentito – e dunque legittimo - il licenziamento per giusta causa del dipendente che attesta falsamente la propria presenza in ufficio, anche se la condotta è accertata dalle agenzie investigative.

Il caso sul quale è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale di merito si riferisce ad un dipendente assunto con mansioni di tecnico sviluppatore nell'ambito del processo di apertura dei nuovi punti vendita. Il dipendente fruiva di un ufficio con ingresso autonomo sito a Bologna, adiacente ad uno dei punti vendita della società ma del tutto indipendente da quest'ultimo in quanto separato da un muro. Il dipendente era tenuto a registrare il proprio orario di ingresso e di uscita tramite il sistema di timbratura badge o in caso di sua dimenticanza, tramite inserimento manuale degli orari in un apposito tabulato fornito dalla società (metodo ritenuto suppletivo e non alternativo rispetto al primo).

Ciò precisato, un addetto all'Ufficio di sicurezza della società si recava per effettuare delle verifiche sull'impianto di allarme presso il punto vendita di Bologna e nell'occasione faceva visita presso l'ufficio adiacente del lavoratore che, in quella giornata, non era in sede.

L'addetto all'Ufficio sicurezza avvertiva la società, che avviava una serie di controlli sulle registrazioni presenze del lavoratore, notando che quest'ultimo era solito registrare le proprie presenze tramite inserimento manuale del tabulato.

A fronte di ciò, la società riteneva opportuno avviare una serie di controlli tramite un'agenzia investigativa sulle attività svolte dal ricorrente.

Dall'indagine emergeva che durante l'orario di lavoro, pur diversamente attestando sui tabulati presenze, il dipendente era solito portare a termine questioni personali anziché svolgere la propria attività in favore della società, ciò anche per lungo tempo, che ovviamente veniva regolarmente retributivo.

Tale condotte erano oggetto di un procedimento disciplinare che si concludeva con il licenziamento per giusta causa del dipendente.

Quest'ultimo, dunque, a seguito dell'impugnazione del licenziamento, depositava ricorso presso il Tribunale di Padova con cui chiedeva all'ill.mo Giudice di accertare e dichiarare la nullità e/o annullabilità e/o l'inefficacia e/o l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società perché privo di giusta causa e in ogni caso inerente ad una condotta punibile con una sanzione conservativa.

Si costitutiva regolarmente in giudizio la società contestando ogni addebito e richiedendo altresì la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese legali.

Il Tribunale adito ha ritenuto in primo luogo che la contestazione disciplinare non riguardava tanto la gestione arbitraria e particolarmente flessibile delle modalità di rendicontazione delle proprie presenze da parte del lavoratore ma piuttosto "fatti attestabili alla stregua di falsa attestazione della propria presenza in ufficio in periodi temporali in cui, durante l'orario di lavoro, egli invece si trovava al di fuori della sede di lavoro in Bologna presso cui era stato assegnato".

Inoltre, il giudice di prime cure ha considerato come "controlli difensivi" (ossia accertamenti che abitualmente vengono realizzati mediante l'installazione di impianti di videosorveglianza e/o di strumenti che possono comportare anche il controllo a distanza dei lavoratori) anche le attività svolte, nel caso di specie, dagli investigatori in quanto volte ad accertare non il corretto adempimento dell'obbligazione lavorativa e/o i meri effetti lesivi del comportamento del lavoratore ma "la commissione di fatti costituenti reato ai sensi dell'art. 640 c.p.c.".

In effetti, a parere del Giudice unico di Padova, la condotta del lavoratore integra gli estremi del reato della truffa, mentre a nulla rileva - come invece avrebbe preteso il lavoratore - la circostanza che nella contestazione disciplinare non fosse stato formalmente rilevato alcun illecito penale.

In particolare, la sussistenza dei presupposti del reato viene desunta dal comportamento del dipendente il quale - avendo fatto ricorso alla annotazione manuale delle presenze, in luogo della timbratura a mezzo badge elettronico – ha potuto attestare falsamente la propria presenza in ufficio, mentre invece era dedito allo svolgimento di attività extra-lavorative e contemporaneamente ottenere il pagamento della retribuzione piena, come se avesse lavorato per l'intero orario fatto risultare al datore di lavoro.

Mette conto aggiungere che il Giudice adito ha ritenuto che il materiale fotografico prodotto a corredo della relazione investigativa fosse ammissibile, in quanto le riprese effettuate dagli agenti non possono considerarsi rientranti nell'ambito applicativo dell'art. 4, co. 1, Stat. Lav. atteso che la norma de qua fa riferimento a strumenti di controllo stabilmente installati (che consentono quindi al datore di lavoro un controllo costante e indiscriminato sui luoghi in cui abitualmente si svolge la prestazione lavorativa).

Se ciò non bastasse, il Tribunale di merito ha anche precisato che - ai sensi dell'articolo 8 Cedu - nel caso di specie l'incarico ad un investigatore privato da parte di un datore di lavoro risultava proporzionato rispetto all'esigenza di bilanciare da un lato, la tutela dell'interesse del datore di lavoro a prevenire e a reprimere condotte illecite lesive del patrimonio aziendale da parte di chi lavora per l'impresa, dall'altro lato, l'interesse del lavoratore alla tutela della propria privacy. Ciò in quanto la verifica della proporzionalità dell'atto di controllo sull'attività lavorativa rispetto al fine perseguito non deve essere intesa in termini tassativi, bensì "alla stregua di elenco di indici sintomatici della proporzione dell'atto di controllo, la cui ponderazione è rimessa al giudice di merito per mezzo di un complessivo giudizio di bilanciamento che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto".

A fronte di tutto quanto sopra, ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa, le domande del ricorrente - che aveva commesso un fatto tanto grave da incidere, in modo definitivo, sul rapporto di fiducia con l'azienda - sono state rigettate, con conseguente condanna dello stesso della rifusione delle spese legali di lite in favore della società resistente.

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