Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Ripetizione del patto di prova

Infortunio sul lavoro e risarcimento danni

Conseguenze della mancata articolazione dell'orario di lavoro nel contratto part-time

Rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa e licenziamento per giusta causa

Cessione di ramo d'azienda e sua autonomia funzionale

Ripetizione del patto di prova

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2016, n. 4635

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Mastroberardino; Ric P.I. S.p.A.; Controric. E.C.;

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione in prova - Patto di prova - Ripetizione in sequenza di contratti - Possibilità - Condizioni - Fattispecie - Illegittimità

Nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l'interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicché è illegittimamente stipulato ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo. Pertanto, la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti è ammissibile solo se, in base all'apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento intimato a causa del mancato superamento del periodo di prova previsto nel contratto di assunzione a tempo indeterminato di una lavoratrice, già precedentemente assunta con più contratti a termine dalla medesima società, sempre per lo svolgimento delle stesse mansioni. La Corte d'Appello di Brescia, confermando la pronuncia di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il patto di prova, ritenendo che la società aveva già avuto modo di verificare, nel corso dei precedenti rapporti a termine, le capacità professionali della lavoratrice, e che pertanto non era necessario un nuovo periodo di prova. Conseguentemente, la Corte di merito aveva dichiarato inefficace il licenziamento intimato alla lavoratrice. Contro la sentenza di secondo grado ricorreva per Cassazione la società, deducendo che la Corte di merito non aveva considerato che lo scopo del patto di prova è anche la valutazione del comportamento e della personalità del lavoratore, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l'intervento di molteplici fattori, attinenti anche alle abitudini di vita o a problemi di salute. In particolare, a detta della società, la lavoratrice si era assentata, durante il periodo di prova, per un periodo superiore a 30 giorni a causa di motivi di salute. La società aveva quindi valutato tale circostanza una causa idonea a consentire il licenziamento della lavoratrice per mancato superamento del periodo di prova, poiché il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro prevedeva espressamente, quale ipotesi di non superamento della prova, la "eccessiva morbilità".

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, ricordando che, per giurisprudenza costante, la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest'ultimo, a sua volta, l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto, sicché il patto medesimo deve considerarsi invalido ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni, in virtù di prestazione resa dallo stesso lavoratore per un congruo lasso di tempo a favore del medesimo datore di lavoro. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in occasione di un successivo contratto di lavoro tra le stesse parti è ammissibile solo se essa, in base all'apprezzamento del giudice di merito, risponda alla suddetta causa, permettendo all'imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione (cfr. da ultimo Cass. n. 15960/2015).

Ciò premesso, nel caso di specie la Corte di merito aveva rilevato che non era necessario verificare le qualità professionali e la personalità complessiva della lavoratrice, atteso che tali qualità erano state già accertate dalla società nei precedenti contratti a termine. Poiché la valutazione compiuta dal giudice di merito costituisce un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ove, come nel caso di specie, congruamente motivato, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.




Infortunio sul lavoro e risarcimento danni

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2016, n. 4498

Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. D.E.; Controric. D. S.R.L. in liquidazione nonché M.A. S.P.A.;

Art. 2087 c.c. - Infortunio sul lavoro - Risarcimento danni - Giudicato penale di assoluzione - Efficacia preclusiva nel giudizio civile - Sussiste - Condizioni

In tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile l'azione civile per danni è preclusa dal giudicato penale formatosi su di uno specifico ed effettivo accertamento relativo all'insussistenza dei medesimi fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria.

Nota

Con ricorso al Tribunale di Nicosia il lavoratore, con qualifica di operaio, esponeva di essere stato vittima di un grave infortunio sul lavoro (amputazione traumatica della mano dx) occorsogli allorchè, mentre eseguiva la manutenzione straordinaria del macchinario, metteva la mano destra sulla macchina, consapevole dell'automatico bloccaggio del motore che, invece, non si bloccava risucchiandogli la mano all'interno di alcuni ingranaggi. Il dipendente, sostenendo che l'infortunio fosse ascrivibile alla mancata adozione nel luogo di lavoro di tutte le cautele necessarie ed opportune ai sensi dell'art. 2087 c.c., richiedeva il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, compreso il danno biologico, il danno morale, il danno da incidenza sulla specifica capacità lavorativa ed il danno esistenziale. Si costituiva in giudizio la società datrice di lavoro la quale eccepiva che l'infortunio fosse invece interamente ascrivibile al lavoratore per "difetto di diligenza" in quanto quest'ultimo, con imprudenza ed imperizia, manometteva i dispositivi di sicurezza ed effettuava operazioni di pulizia su un macchinario in moto, come acclarato, del resto, in sede penale, con sentenza del medesimo Tribunale, che assolveva l'amministratore delegato della società in quanto "il fatto non sussiste". Si costituivano in giudizio altresì il legale rappresentante dell'azienda, il responsabile della sicurezza e la Compagnia di assicurazione, quest'ultima chiamata in causa dalle parti convenute al fine di essere manlevate da ogni responsabilità. L'adito Tribunale accoglieva la domanda, dichiarando la responsabilità concorrente nella causazione dell'infortunio del dipendente, nella misura del 20%, nonchè dell'azienda datrice e del responsabile della sicurezza, nella restante misura dell'80%, e dichiarava altresì la compagnia di assicurazione obbligata a tenere indenni i resistenti nei limiti del massimale di polizza; rigettava invece la domanda nei confronti dell'amministratore delegato dell'azienda. Avverso tale sentenza proponevano distinti ricorsi la società datrice di lavoro e la società di assicurazione. Resistevano le altre parti. La Corte di appello di Caltanissetta, riuniti gli appelli, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande del lavoratore, rilevando che, essendo stato l'amministratore delegato della società assolto in sede penale perché il fatto (vale a dire violazione di norme antinfortunistiche e di sicurezza) non sussiste, con sentenza passata in giudicato, la medesima questione non poteva essere riesaminata nei confronti del responsabile della sicurezza della società datrice.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso il dipendente affidato a due motivi. Resistevano la società datrice di lavoro nonché la società di assicurazione. Il dipendente eccepiva, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 652 e 654 del c.p.p., nonché omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la Corte di merito avesse errato nel ritenere precluso dal giudicato penale l'accertamento di responsabilità da parte del responsabile della sicurezza della società, in quanto le indicate norme del codice di procedura penale prevedevano l'efficacia vincolante del giudicato penale solo tra le stesse parti nei cui confronti il processo si era svolto, mentre, nel caso in oggetto, il lavoratore infortunato non aveva partecipato al processo penale come parte civile ed in esso non era neppure presente il responsabile della sicurezza per la società. La Suprema Corte rigettava il ricorso. La Suprema Corte ha osservato che, in tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, l'azione civile per danni è preclusa dal giudicato penale che rechi uno specifico ed effettivo accertamento circa l'insussistenza del fatto posto a fondamento della domanda risarcitoria. Inoltre, tenuto conto che l'autorità del giudicato (anche penale) copre sia il dedotto che il deducibile, il giudicato penale di assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" preclude la proposizione nel giudizio civile di risarcimento del danno derivante dal medesimo fatto-reato, di una ricostruzione della vicenda che postuli, sotto altra prospettazione, l'esistenza di elementi di fatto che risultino esclusi - sia pure implicitamente - dal giudicato penale (in tal senso cfr. Cass. 13 settembre 2006, n. 19559, nonché Cass. 20 aprile 1996, n. 9235). Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito avesse correttamente osservato che, a fronte del giudicato penale di assoluzione perché "il fatto non sussiste" nei confronti dell'amministratore delegato della società per il reato di lesioni gravissime e per la commissione di esso in violazione delle norme antinfortunistiche sul lavoro, non potevano valutarsi successivamente le responsabilità della datrice di lavoro come ascrivibili ad un soggetto diverso, controvertendosi intorno ad un diritto il cui riconoscimento dipende dagli stessi fatti materiali accertati in sede penale (violazione di norme antinfortunistiche e di sicurezza e/o manomissione dei dispositivi di sicurezza) (cfr. in tal senso anche Cass. 23 aprile 2015, n. 8303). Ciò tenuto conto, peraltro, che il Tribunale aveva escluso la responsabilità della datrice di lavoro anche per essere risultata la condotta del lavoratore imprudente ed abnorme rispetto all'ordinario svolgimento delle mansioni, tale da escludere ogni apporto causale del datore di lavoro e causa di per sé sufficiente a cagionare la lesione riportata dalla persona offesa.




Conseguenze della mancata articolazione dell'orario di lavoro nel contratto part-time

Cass. Sez. Lav. 3 marzo 2016, n. 4229

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.C.; Controric. SIB S.p.A.;

Contratto di lavoro a tempo parziale (Legge 863/1984) - Mancata indicazione della collocazione temporale dell'orario di lavoro - Conseguenze - Nullità - Esclusione - Risarcimento del danno - Retribuzione per le ore di disponibilità in attesa della fissazione dei turni - Esclusione - Risarcimento del danno per perdita di chances - Eventuale

Nel contratto a tempo parziale stipulato ai sensi della L. 863/1984, la mancata indicazione dell'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno non comporta l'automatica trasformazione del rapporto part time in rapporto a tempo pieno, né il diritto alla retribuzione per le ore di disponibilità del lavoratore in attesa della fissazione dei turni di lavoro, ma solo il risarcimento di eventuali danni (es. per perdita di chances) in ragioni di comportamenti abusivi del datore di lavoro nell'articolazione in concreto degli orari ovvero per lavoro supplementare qualora venga provato lo svolgimento dell'attività lavorativa in eccesso rispetto all'orario ridotto concordato.

Nota

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, rigettava le domande promosse da una dipendente al fine di ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo pieno e la condanna del proprio datore di lavoro al pagamento delle conseguenti differenze retributive.

La Corte partenopea riteneva non dimostrato lo svolgimento sistematico di attività lavorativa in eccesso rispetto alle 20 ore settimanali pattuite nel contratto e considerava irrilevante, ai fini della costituzione di un rapporto di lavoro full-time, la mancata indicazione nel contratto della collocazione temporale dell'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno. Dall'istruttoria era emerso che la dipendente lavorava secondo turni variabili, di volta in volta, comunicati preventivamente dal datore di lavoro. Avverso tale sentenza la lavoratrice ricorreva in Cassazione; il datore resisteva con controricorso.

La Corte di Cassazione, in via preliminare, ha ripercorso il quadro normativo del contratto di lavoro part-time ai sensi della Legge 863/1984 (applicabile alla fattispecie, in quanto il contratto a tempo parziale era stato stipulato prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 61/2000, poi sostituito, a decorrere dal 25 giugno 2015, dagli artt. da 4 a 12 del D.Lgs. 81/2015), ricordando che ai sensi dell'art. 5 della Legge 863/1984 il contratto doveva stipularsi per iscritto e prevedere la distribuzione dell'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno. Tale norma, tuttavia, non chiariva quali fossero le conseguenze in caso di mancata indicazione della collocazione temporale dell'orario di lavoro, a differenza dell'art. 8, comma 2 del successivo D.Lgs. 61/2000 che prevedeva esplicitamente che tale carenza non comportasse la nullità del contratto ma solo la determinazione dell'orario di lavoro da parte del giudice sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o, in mancanza, con valutazione equitativa, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro (oggi, l'art. 10, comma 2 del D.Lgs. 81/2015 prevede una disciplina sostanzialmente identica ad eccezione del riferimento alla contrattazione collettiva e dell'esplicita previsione che, per il periodo antecedente la pronuncia, il lavoratore, in aggiunta alla retribuzione per le prestazioni effettivamente rese, ha diritto a un'ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno).

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio (già affermato, tra le altre, in Cass. 6226/2009) secondo cui in tema di lavoro a tempo parziale stipulato ai sensi della Legge 863/1984, la mancata predeterminazione di un orario rigido non comporta l'automatica trasformazione del rapporto part-time in rapporto a tempo pieno, né la nullità della clausola relativa all'orario si estende all'intero contratto, a meno che non si provi che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità. Di conseguenza, in tale ipotesi, deve ritenersi perdurante il rapporto di lavoro part time, sia pure senza specificazione dell'orario rigido. La violazione dell'obbligo di indicare la collocazione temporale dell'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno può quindi comportare solo conseguenze patrimoniali connesse ai maggiori oneri per il lavoratore, sia in termini di mera attesa in disponibilità alla "chiamata" al lavoro da parte del datore, sia in termini di effettiva prestazione lavorativa espletata oltre l'orario contrattuale (ridotto) pattuito. Peraltro, la Corte di Cassazione ha chiarito che l'essere a disposizione del datore in attesa che lo stessi fissi o modifichi i turni di lavoro non equivale a prestazione di lavoro (non essendovi alcuna equiparabilità tra disponibilità potenziale e prestazione reale di lavoro), con la conseguenza che al lavoratore non è dovuta la retribuzione.

Ne consegue che il lavoratore può aver solo diritto al risarcimento di eventuali danni, ad esempio, per perdita di chances, dimostrando comportamenti abusivi del datore di lavoro nell'articolazione in concreto dell'orario di lavoro ovvero per lavoro supplementare, dimostrando di aver lavorato più ore di quelle pattuite.




Rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2016, n. 4502

Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Matera Ghersi; Ric S.L.; Controric. B.

Rapporto di lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa - Adempimento degli obblighi contrattuali - Sicurezza sul lavoro - Correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto - Misure alternative al licenziamento

Gli obblighi di sicurezza, correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, impongono al datore di lavoro, informato dell'incompatibilità o seria difficoltà del lavoratore di svolgere le nuove mansioni assegnate, di verificare la sussistenza di misure alternative al licenziamento.

Nota

Il Tribunale di Firenze rigettava il ricorso della lavoratrice che richiedeva l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato in conseguenza del suo reiterato rifiuto di eseguire le disposizioni aziendali impartite, come contestatole disciplinarmente in più occasioni. Nella fattispecie in esame la lavoratrice si era rifiutata di svolgere le mansioni (equivalenti) di addetta al reparto pescheria, adducendo quale motivazione del rifiuto la sua personale impossibilità di svolgere le nuove mansioni assegnate. Il Giudice di primo grado riteneva sussistenti i fatti oggetto delle contestazioni e ingiustificato il rifiuto della lavoratrice. Avverso la sentenza proponeva appello la lavoratrice.

La Corte di Appello di Firenze, accoglieva l'impugnazione dichiarando l'illegittimità del licenziamento per giusta causa, con ordine di reintegra nel posto di lavoro e condanna della Società al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite dal momento del recesso sino all'effettiva reintegra.

Contro la sentenza della Corte di Appello di Firenze ricorreva per Cassazione la Società lamentando, tra gli altri motivi, che la sentenza impugnata avesse ritenuto certa la conoscenza dell'azienda in ordine ai dedotti problemi di salute e di incompatibilità con le nuove mansioni. Evidenzia la Società che la lavoratrice non aveva prodotto alcun certificato medico attestante tale incompatibilità, sicché l'azienda provvide legittimamente allo spostamento presso il reparto pescheria ed, altrettanto legittimamente, a sanzionare il relativo rifiuto della lavoratrice.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Infatti, secondo la Cassazione, i motivi di ricorso presentati dalla Società sono infondati, poiché basati sull'inesistente obbligo della lavoratrice di documentare sanitariamente l'impossibilità (o estrema difficoltà), di svolgere le nuove mansioni di addetta al reparto pescheria cui era stata adibita. Come correttamente evidenzia la Corte di Appello di Firenze, gli obblighi di sicurezza, correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, avrebbero dovuto imporre alla Società, una volta informata dell'incompatibilità o seria difficoltà da parte della lavoratrice di svolgere le nuove mansioni assegnate, di verificare la sussistenza di posizioni che costituissero un'alternativa al licenziamento; o comunque di sottoporre la lavoratrice a visita del medico competente, a seguito dell'avvenuto mutamento di mansioni al fine di far valutare l'idoneità alle nuove mansioni affidate alla lavoratrice ex art. 41, comma 2 lett. b) e d) del D.Lgs. n. 81/2008. In tal senso, la Suprema Corte, a conferma della ricostruzione operata dalla Corte di Appello, ha rilevato che la Società non aveva provveduto né a far visitare la dipendente, né a dimostrare, in conformità all'obbligo di correttezza nell'esecuzione del contratto, di non poter adibire la lavoratrice ad altre mansioni se non a quelle proposte.




Cessione di ramo d'azienda e sua autonomia funzionale

Cass. Sez. Lav. 8 marzo 2016, n. 4500

Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. E.S. s.p.a. e T.I. s.p.a.; Controric. M.M.+ A.A.;

Cessione di ramo d'azienda - Autonomia funzionale del ramo ceduto - Ristrutturazione integrale del ramo immediatamente successiva alla cessione - Indice dell'inesistenza dell'autonomia funzionale

Il fatto che nell'arco temporale immediatamente successivo alla cessione il ramo ceduto sia stato completamente ristrutturato e suddiviso in più unità a loro volta oggetto di ulteriore cessione, non permette di affermare l'esistenza di un'autonomia funzionale del ramo. Anzi proprio la necessità di ristrutturazione radicale effettuata dalla cessionaria attesta la disomogeneità e disorganicità delle funzioni.

Nota

La Corte d'Appello di Roma rigettava il ricorso di due società, cedente e cessionaria, confermando la sentenza del Tribunale di Roma dichiarativa della illegittimità della cessione di ramo d'azienda con diritto dei lavoratori alla prosecuzione dei rapporti di lavoro con la società cedente. Avverso tale decisione le due società hanno proposto distinti ricorsi per Cassazione. La Suprema Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. La Corte, dopo aver inizialmente ripercorso i principi in tema di cessione di ramo d'azienda, con particolare riferimento all'evoluzione normativa della nozione ed all'interpretazione della Corte di Giustizia, con specifico riferimento al requisito dell'autonomia funzionale del ramo, osserva come il criterio selettivo dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto consenta di scongiurare ipotesi in cui le operazioni di trasferimento si traducano in forme incontrollate di espulsione di personale. Al termine di tale analisi e passando all'esame della specifica questione sottoposta al suo esame, la Corte dà atto della correttezza della sentenza impugnata, rilevando che la Corte territoriale, con una motivazione sufficiente e non contraddittoria - e come tale sottratta al sindacato di legittimità - ha escluso che, nella specie, fossero emerse circostanze tali da far ritenere che fosse stata trasferita un'attività organizzata funzionalmente autonoma. Ciò in quanto i giudici d'appello hanno confermato il giudizio del Tribunale rilevando che era risultato pacifico che "nell'arco di tre mesi dalla cessione, il ramo servizi generali ceduto sia stato a sua volta ristrutturato completamente, suddiviso in tre centri servizi che sono stati immediatamente ceduti ad una terza società per cui, di fatto, non avendo operato il ramo ceduto in modo unitario sin praticamente dal momento della cessione, non può condividersi la tesi dell'azienda cedente volta a far discendere dallo svolgimento di attività successiva alla cessione la esistenza di una autonomia del ramo". Ed ancora che "proprio la necessità di ristrutturazione radicale effettuata dalla cessionaria attesta la disomogeneità delle funzioni e la disorganicità del ramo".

Aggiunge la Corte che incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'articolo 2112 c.c., quale eccezione al principio del necessario consenso del lavoratore creditore ceduto, fornire la prova dell'esistenza di tutti requisiti che ne condizionano l'operatività: grava, cioè, sulla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d'azienda (cfr., in motivazione, Cass. n. 206 del 2004). Prova che nella fattispecie non era stata fornita.

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