Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Illegittimità della CIGS per genericità dei criteri di scelta e dei criteri di rotazione

Licenziamento e affissione del codice disciplinare

Assenza ingiustificata dal lavoro per più di tre giorni consecutivi e licenziamento

Le condizioni di validità del patto di prolungamento del preavviso di dimissioni

Dimissioni del dirigente con diritto al preavviso

Illegittimità della CIGS per genericità dei criteri di scelta e dei criteri di rotazione

Cass. Sez. Lav. 18 settembre 2015, n. 18425

Pres. Roselli; Rel. Maisano; P.M. Servello; Ric. S. S.p.A.; Controric. T.D.F.;

Lavoro subordinato - Cassa Integrazioni Guadagni Straordinaria -Comunicazione di apertura della procedura - Mancata specificazione dei criteri di scelta per individuare i dipendenti interessati dalla sospensione e dei criteri di rotazione - Conseguenza - Illegittimità CIGS - Riammissione in servizio - Condanna a differenze retributive - Sanatoria per intervenuto accordo sindacale - Esclusione - Genericità dell’accordo

Il provvedimento di sospensione dell’attività lavorativa, derivante dalla procedura di CIGS, è illegittimo qualora il datore di lavoro (sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione, sia in caso contrario) ometta di comunicare alle organizzazioni sindacali, ai fini dell'esame congiunto, ovvero di concordare con le stesse, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che devono essere sospesi, ed ai quali criteri la scelta dei lavoratori deve poi effettivamente corrispondere. E’ pacifico che siano da considerare generici i criteri di scelta che facciano riferimento esclusivamente alle "esigenze tecnico-organizzative", senza ulteriori indicazioni precise delle posizioni lavorative sulle quali la scelta dovrà essere concretamente operata in base alla formazione di una graduatoria, alla quale il datore di lavoro deve fare riferimento, senza alcun margine di discrezionalità, così da consentire anche al singolo lavoratore di verificare la coerenza tra il criterio indicato e la selezione dei lavoratori da sospendere.

Gli accordi sindacali possono porre rimedio alla mancata ottemperanza degli oneri di comunicazioni previsti all'inizio della procedura di CIGS, esclusivamente quando detti accordi, per il loro contenuto, facciano ritenere raggiunti i fini sottesi alla comunicazione di apertura della procedura, sia per quanto attiene la specificazione dei criteri di scelta da adottare sia per le modalità della loro concreta applicazione.

Nota

La Corte d’Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che, in accoglimento del ricorso di un lavoratore, aveva dichiarato l’illegittimità della CIGS disposta nei suoi confronti, con conseguente ordine di riammissione in servizio e condanna al pagamento delle differenze retributive.

La Corte territoriale motivava l'illegittimità della procedura per violazione dell’art. 1, comma 7, L. 223/1991, per mancata specificazione, nella comunicazione di apertura della procedura, dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in CIGS e dei criteri di rotazione. La Corte di merito precisava altresì che tale illegittimità non era stata comunque sanata dai successivi accordi sindacali, per l’estrema genericità degli stessi.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il datore di lavoro; il lavoratore resisteva con controricorso.

Con due motivi di ricorso, l’azienda lamentava falsa applicazione dell’art. 1, commi 7 e 8 L. 223/1991 nonché vizio di motivazione, sostenendo che i criteri di rotazione al fine del collocamento dei lavoratori in CIGS sarebbero stati sufficientemente delineati nei successivi accordi sindacali con riferimento alle esigenze tecnico-produttive. Nel caso di specie, avrebbe quindi dovuto considerarsi che nel settore a cui era stato assegnato il lavoratore l’attività produttiva era del tutto ferma per l’assenza di ordini, con conseguente impossibilità di disporre una rotazione dei lavoratori in CIGS.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, richiamando il principio (già espresso da Cass. S.U. 11 maggio 2000, n. 302, nonché da Cass. 23 aprile 2004, n. 7720; Cass. 4 maggio 2009, n. 10236; Cass. 1 luglio 2009, n. 15393 e Cass. 21 settembre 201l, n. 19235) secondo cui in caso d’intervento straordinario di integrazione salariale (per l'attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale) il provvedimento di sospensione dall'attività lavorativa è illegittimo qualora il datore di lavoro (sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione, sia nel caso contrario) ometta di comunicare alle organizzazioni sindacati, ai fini dell'esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi. Criteri, ai quali, deve poi effettivamente corrispondere la scelta dei lavoratori da porre in CIGS.

Nel caso di specie, l’accordo sindacale prevedeva che l’individuazione dei lavoratori da sospendere "avrà luogo sulla base delle effettive esigenze tecnico-produttive derivanti dalle attività eseguibili, e la rotazione non interesserà le unità sospese aderenti al provvedimento o in possesso dei requisiti di età o di contribuzione per raggiungere nel corso od al termine del periodo di CIGS e/o mobilità il diritto a pensione". L’eccessiva genericità del criterio di scelta concordato con i sindacati - consistente sostanzialmente nelle esigenze tecnico-produttive, senza alcun riferimento alla situazione concreta - comportava quindi un eccessivo margine di discrezionalità del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori da sospendere, impedendo la possibilità di verificare eventuali violazioni del principio di non discriminazione, la corretta applicazione dei criteri di scelta e, più in generale, che tutta la procedura sia stata gestita in modo trasparente.

La genericità del criterio di scelta indicato nell’accordo sindacale ne ha quindi comportato l’inidoneità a legittimare il collocamento del lavoratore in CIGS.

Infine la Corte di Cassazione ha chiarito che la violazione dell'obbligo di comunicazione di cui all’art. 1, comma 7 L. 223/1991 (per genericità dei criteri di scelta e di rotazione indicati nella lettera di apertura della procedura) può essere sanata dalla sottoscrizione di un accordo sindacale, purché il contenuto di tale accordo sia idoneo a soddisfare le stesse finalità conoscitive cui è preordinata la lettera di apertura della procedura con riguardo alla specificazione dei criteri di scelta e alle modalità della loro concreta applicazione. Nel caso di specie, tale condizione non era stata rispettata in quanto, nelle premesse dell’accordo sindacale, non veniva menzionata alcuna informazione preventiva fornita alle OOSS e alla RSU e, comunque, non erano stati indicati in modo sufficientemente specifico i criteri di scelta, né le modalità della loro concreta applicazione.




Licenziamento e affissione del codice disciplinare

Cass. Sez. Lav. 1 settembre 2015, n. 17366

Pres. Stile; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric. E.E.; Controric. U.S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Grave violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro - Legittimità del licenziamento - Irrilevanza dell’affissione del codice disciplinare

Il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato per il caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge, e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento illecito integrante il suddetto requisito. Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso del datore di lavoro le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quei doveri, cioè, che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono i doveri imposti dagli art. 2104 e 2105 c.c., e, specificamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Napoli che, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Napoli, aveva rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società.

In particolare, la Corte territoriale, tenuto conto del ruolo ricoperto dal lavoratore (ovvero di Direttore di filiale dell’Istituto di credito), aveva dato rilievo ai vari episodi consistiti nel non avere quest’ultimo ottemperato alle procedure interne regolanti il processo di erogazione del credito e ritenuto che la condotta del lavoratore fosse gravemente negligente, inadempiente, e contraria agli interessi datoriali; pertanto, la sanzione espulsiva doveva ritenersi proporzionata alla gravità degli illeciti disciplinari contestati. Il ricorrente ha presentato ricorso per cassazione contestando la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto irrilevante l’affissione nella sede lavorativa del codice disciplinare, in considerazione del fatto che il licenziamento "de quo" faceva riferimento a violazioni di doveri fondamentali.

Sostiene, invece, il ricorrente che nella fattispecie una tale affissione si rendeva necessaria, trattandosi di irregolarità nella gestione ed istruzione di operazioni bancarie, la cui sussistenza derivava esclusivamente dalla normativa aziendale concernente particolari procedure.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, non è rilevante l’affissione del codice disciplinare laddove i comportamenti contestati al lavoratore consistano in gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro - quali sono quelli imposti dagli art. 2104 e 2105 cod. civ. e, specificamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali; inoltre, sempre ai fini della legittimità del licenziamento, è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la violazione di tali doveri, anche in difetto di una esplicita specificazione delle norme violate. Ebbene, nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che "comportamenti come quelli contestati al ricorrente appaiono chiaramente di notevole gravità e si rivelano lesivi dell'elemento fiduciario nell'ambito del rapporto di lavoro bancario" poiché "evidentemente "contra legem" e contrastanti con lo stesso interesse obiettivo dell'istituto di credito"; pertanto, la Corte d’Appello di Napoli ha correttamente ritenuto irrilevante l’affissione del codice disciplinare e concluso per la legittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore.

Per tale motivo, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.




Assenza ingiustificata dal lavoro per più di tre giorni consecutivi e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 11 settembre 2015, n. 17987

Pres. Rel. Roselli; P.M. Servello; Ric. A.S. S.p.A.; Controric. L.M.;

Licenziamento - Assenza ingiustificata per più di tre giorni consecutivi - Previsione del CCNL di settore - Proporzionalità - Valutazione discrezionale del giudice - Necessità - Non sussiste

La clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento non esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all’incolpato. La necessità di questa valutazione discrezionale tuttavia non sussiste quando si tratti di fattispecie di illecito disciplinare formulata non già con espressioni elastiche ma rigidamente predeterminata e non sussistano circostanze attenuanti.

Nota

La Corte di appello di Potenza, in integrale riforma della sentenza resa dal Tribunale, dichiarava l’illegittimità del licenziamento irrogato al dipendente per assenza ingiustificata dal lavoro protrattasi per più di tre giorni consecutivi, ai sensi dell’art. 70 del CCNL di settore. Nel caso di specie la sequenza temporale dei fatti come pacificamente ricostruita dalla Corte territoriale è la seguente. A seguito della declaratoria di illegittimità di un precedente licenziamento, l’azienda nel dare esecuzione all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, invece di riammettere il lavoratore effettivamente in servizio, lo collocava in ferie fino al 31 ottobre 2012. Il 1° novembre successivo il lavoratore avrebbe dovuto perciò presentarsi al lavoro. Il dipendente, ritenendo illegittimo il suo collocamento in ferie, adiva il Tribunale di Melfi al fine di ottenere l’effettiva attuazione del diritto di riammissione in servizio. All’esito di tale giudizio il Tribunale ordinò la ripresa dell’attività lavorativa in azienda mentre il lavoratore riprese effettivamente servizio solo il 16 novembre successivo. La società pertanto intimava al lavoratore un nuovo licenziamento - rispetto al quale si è pronunciata la Suprema Corte -, per assenza ingiustificata per più di tre giorni consecutivi, in virtù delle previsioni contenute nel CCNL di settore. La Corte di appello, pur ritenendo effettivamente realizzato il fatto, ossia la detta assenza protrattasi per più di tre giorni consecutivi, riteneva sproporzionata la sanzione del licenziamento rispetto all’addebito contestato tenuto conto della "grossa conflittualità" venutasi a creare tra le parti del rapporto di lavoro. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su una pluralità di motivi. La Suprema Corte accoglieva il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni. In particolare, la Suprema Corte dopo aver rilevato che, alla stregua del pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, la clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento non esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all’incolpato (cfr. Cass. 2 febbraio 1990, n. 690; Cass. 4 febbraio 1983, n. 939), ha tuttavia precisato che la necessità di questa valutazione discrezionale non sussiste quando si tratti di fattispecie di illecito disciplinare formulata non già con espressioni elastiche ma rigidamente predeterminata e qualora non sussistano circostanze attenuanti. Sulla base di tali premesse la Suprema Corte, ritenendo palesemente realizzata nella specie la fattispecie contrattuale di cui all’art. 70 del CCNL di settore atteso che il lavoratore, richiamato in servizio, fu assente per più di tre giorni consecutivi, e non rinvenendo alcuna circostanza attenuante che potesse giustificare tale ritardo nella ripresa dell’attività lavorativa da parte del medesimo, accoglieva il ricorso cassando la sentenza impugnata.




Le condizioni di validità del patto di prolungamento del preavviso di dimissioni

Cass. Sez. Lav. 6 agosto 2015, n. 16527

Pres. Macioce; Rel. D’Antonio; P.M. Mastroberardino; Ric. F.I.; Controric. C.E. S.p.A.;

Dimissioni - Preavviso - Accordo individuale di prolungamento del preavviso - Condizioni di validità - Facoltà di deroga prevista dal contratto collettivo - Corrispettivo economico - Necessità - Validità del patto

In materia di recesso dal rapporto di lavoro, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva un compenso economico in funzione corrispettiva del vincolo assunto.

Nota

Nel caso di specie la Corte di Cassazione conferma la decisione del giudice del merito, che, sia in primo che in secondo grado, aveva rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere la declaratoria della nullità del patto individuale di prolungamento del preavviso dovuto in caso di dimissioni. Nel corso del rapporto di lavoro de quo, infatti, le parti avevano sottoscritto un accordo individuale secondo il quale, in caso di dimissioni volontarie, il lavoratore avrebbe dovuto concedere al datore di lavoro un preavviso di dodici mesi ulteriori rispetto al periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo applicato (pari a un mese); quale corrispettivo di tale obbligo, le parti avevano pattuito che al lavoratore fosse corrisposto - per tutta la durata del rapporto di lavoro - un assegno ad personam di 300.000 lire lorde per tredici mensilità.

In particolare, la Corte territoriale, nel motivare la propria decisione di rigetto della domanda di nullità del patto formulata dal lavoratore, aveva rilevato che l'art. 2118 cod. civ. non stabilisce il termine congruo di durata del preavviso e che, pertanto, nessun limite è previsto per le parti collettive, con la conseguenza che queste ben possono rimettere alle parti individuali la determinazione della durata del preavviso, fatti salvi i limiti derivanti da norme inderogabili e dalla finalitaÌ di realizzare interessi meritevoli di tutela. Inoltre, il Giudice di secondo grado aveva osservato come il contratto collettivo applicato al caso di specie consentisse alle parti private di determinare la durata del preavviso in caso di dimissioni in misura diversa da quella prevista dalla norma collettiva.

La Suprema Corte con la sentenza in commento, condividendo l’orientamento espresso dal giudice del merito, osserva che il nucleo di inderogabilità della norma codicistica (l’art. 2118 cod. civ.) riguarda solo l'obbligatorietà del preavviso e non anche la sua durata, la cui disciplina è stata rimessa alle fonti subordinate. Una volta ammessa la possibilità che la contrattazione collettiva stabilisca la durata del preavviso, non puoÌ che affermarsi la legittimitaÌ della disciplina individuale alla quale la contrattazione collettiva (come nella specie) fa rinvio per la regolamentazione della durata del preavviso (cfr. nello stesso senso Cass. n. 4991/2015).

Ciò posto, la Corte di Cassazione afferma che nel rapporto di lavoro subordinato il preavviso si pone come condizione di liceitaÌ del recesso, la cui inosservanza eÌsanzionata dall'obbligo di corrispondere da parte del recedente una indennitaÌ sostitutiva; pertanto esso non puoÌ essere preventivamente escluso dalla volontaÌ delle parti, neÌ essere limitato nella sua durata rispetto a quello fissato dalla contrattazione collettiva; eÌ lecito invece, mediante accordo individuale, pattuirne una maggior durata giaccheÌ tale pattuizione puoÌ giovare al datore di lavoro, come avviene nel caso in cui non eÌ agevole la sostituzione del lavoratore recedente, ed eÌ sicuramente favorevole a quest'ultimo che resta avvantaggiato dal computo dell'intero periodo agli effetti della indennitaÌ di anzianitaÌ, dei miglioramenti retributivi e di carriera e dal regime di tutela della salute, (v. Cass. n. 3741/81 e Cass. n. 5929/79). Nel medesimo senso si eÌ ritenuto (cfr. Cass. n. 18547/09 e n. 17817/05) che il lavoratore subordinato possa liberamente disporre della propria facoltaÌ di recesso dal rapporto di lavoro, come nell'ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, e che non contrasta pertanto con alcuna norma o principio dell'ordinamento giuridico la clausola con cui si prevedano limiti all'esercizio di detta facoltaÌ, stabilendosi a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio per l'ipotesi di dimissioni anticipate rispetto ad un periodo di durata minima. Tale principio eÌ stato ribadito ancor piuÌ di recente (cfr. Cass. n. 17010/14) essendosi affermato che il lavoratore subordinato puoÌliberamente disporre della propria facoltaÌ di recesso dal rapporto, come nell'ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, che comporti, fuori dell'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto; neÌ puoÌ prospettarsi, in relazione alle clausole pattizie che regolano l'esercizio della facoltaÌ di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, una limitazione della libertaÌ contrattuale del lavoratore, in violazione della tutela assicurata dai principi dell'ordinamento.

In ragione di quanto precede, la Corte di Cassazione afferma con la sentenza in esame che l'ordinamento rimette alle parti sociali ovvero alle stesse parti del rapporto la facoltà di disciplinare la durata del preavviso in relazione alle proprie valutazioni di convenienza, rendendo essenzialmente le parti arbitre del giudizio di maggior favore della disciplina concordata. Nel descritto contesto, la durata legale o contrattuale del preavviso è dunque derogabile dall'autonomia individuale in relazione a finalità meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, quale quella per il datore di garantirsi nel tempo la collaborazione di un lavoratore particolarmente qualificato, sottraendolo alle lusinghe della concorrenza, mediante l'attribuzione al dipendente di ulteriori benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto dal dipendente circa la limitazione della facoltà di recesso ancorandone l'esercizio ad un più lungo periodo di preavviso. Pertanto, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni piuÌ lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove, come accaduto nel caso di specie, tale facoltaÌ di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso in denaro.




Dimissioni del dirigente con diritto al preavviso

Cass. Sez. Lav. 11 settembre 2015, n. 17990

Pres. Macioce; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. L.S.; Controric. G.S.R. s.p.a.;

Dirigente - Mutamento mansioni - Art. 16 Contatto Collettivo Dirigenti Industria - Presupposti - Necessità che la modifica determini demansionamento - Insussistenza - Autonomia dell’ipotesi collettiva rispetto alla giusta causa di dimissioni

L'art. 16 CCNL Dirigenti Industria 23 maggio 2000 (che riconosce il diritto del dirigente, il quale, a seguito di mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulla sua posizione, risolva entro 60 giorni il rapporto dì lavoro, oltre che al TFR, anche ad un trattamento pari alla indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento) integra un’autonoma e diversa ipotesi di recesso per il solo effetto del "mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulle sue posizioni" nella sua giuridica ricorrenza obiettiva, rispetto alla giusta causa di recesso eventualmente integrata dal demansionamento vietato del dirigente.

Nota

Nella fattispecie in esame il giudice di primo grado ha respinto la domanda risarcitoria formulata da un dirigente che assumeva di essere stato demansionato, accogliendo, invece, quella concernente il diritto alla corresponsione dell’indennità di preavviso in ragione delle dimissioni rassegnate a seguito del mutamento dell’attività ai sensi dell’art. 16 CCNL Dirigenti Industria (del 13 maggio 2000, rimasto invariato nei successivi rinnovi ed attualmente in vigore negli stessi termini).

La Corte d’Appello di Bologna ha riformato la decisione in ordine a tale ultimo aspetto, ritenendo che l’accertata inesistenza del demansionamento implicasse insussistenza del diritto del dirigente ad ottenere l’indennità di preavviso ai sensi della citata norma collettiva.

Avverso tale decisione il dirigente ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi, lamentando con il primo vizio di omessa pronuncia sulla pretesa relativa alla corresponsione dell’indennità di preavviso ex art. 16 CCNL Dirigenti Industria, con la seconda censura violazione e falsa applicazione della stessa norma per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto coincidenti l’ipotesi di mutamento dell’attività incidente sulla posizione del dirigente con la giusta causa di recesso, e con il terzo motivo vizio di motivazione per avere erroneamente il giudice del merito reputato le dimissioni del dirigente fondate su una giusta causa piuttosto che sull’art. 16 CCNL Dirigenti Industria.

La Cassazione esamina per connessione congiuntamente i tre motivi, ritenendoli fondati. In particolare, nell’affermare il principio di cui alla massima, la Suprema Corte rileva l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale laddove ha sovrapposto e confuso due ipotesi del tutto diverse per presupposti ed effetti, ovvero il demansionamento illegittimo, che rappresenta una giusta causa di dimissioni, ed il mero "mutamento delle mansioni del dirigente incidente sulla sua posizione", che, pur potendo esser pienamente legittimo, determina, ex art. 16 CCNL Dirigenti Industria, il diritto del lavoratore a dimettersi ottenendo l’erogazione dell’indennità di preavviso. La Cassazione sottolinea, infatti, che l’art. 16 in esame ancora il diritto del dirigente alle dimissioni - ed al conseguenziale specifico trattamento ivi previsto - al semplice "mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulle sue posizioni" senza alcuna ulteriore connotazione e/o valutazione di merito della modifica, pertanto ciò che conta al fine dell’insorgenza del diritto di matrice collettiva è esclusivamente il mutamento nell’organizzazione aziendale, di per sé ritenuto sufficiente a costituire quella situazione di pregiudizio per la quale la norma contrattuale collettiva appresta la tutela (Cass. 5 aprile 1993, n. 4097). La Cassazione sottolinea, inoltre, che tale distinzione era stata con chiarezza colta dal Tribunale che aveva affermato nella sentenza poi riformata che "risulta indifferente (...) al fine dell'applicazione dell'art. 16 CCNL Dirigenti Industria se tale ridimensionamento abbia o meno integrato gli estremi del demansionamento e della dequalificazione professionale. La norma consente al dirigente di dimettersi beneficiando dell’indennità ivi prevista a seguito di mutamenti organizzativi che incidono sulla sua posizione, seppur legittimamente assunti nell'ambito del potere di libertà organizzativa dall’imprenditore".

Alla stregua del principio enunciato nella massima la Suprema Corte cassa la sentenza di merito con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione per l’esame della questione erroneamente ritenuta assorbita dalla Corte territoriale.

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