Datore unico, serve la prova
Non basta il collegamento economico-funzionale tra imprese dello stesso gruppo per farle ritenere co-datrici di lavoro dello stesso dipendente, essendo al contrario richiesta la prova di circostanze molteplici e più incisive. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 160 di ieri.
Il ricorrente, nel corso di quarant’anni di attività, aveva lavorato per varie imprese fra di esse collegate, nel settore delle infrastrutture e delle opere edilizie. Lamentando il mancato pagamento di varie spettanze, dopo il licenziamento, egli conveniva in giudizio un consorzio e la società che di esso possedeva una quota pari all'80%, sostenendo che essi costituissero un unico centro di imputazione del suo rapporto di lavoro. Anche se dalla decisione della corte non emerge con chiarezza, è probabile che il ricorrente sperasse così di avere un interlocutore patrimonialmente più solido, di semplificare lo svolgimento di pretese altrimenti dirette a controparti diverse e di contestare al preteso unico datore la violazione di criteri di scelta ed oneri di repechage in un ambito più ampio. Già il Tribunale rigettava la pretesa del ricorrente ritenendo che questi non avesse dimostrato circostanze tali da far ritenere che soggetti giuridicamente autonomi dovessero ritenersi un unico datore di lavoro. Il ricorrente non trovava miglior fortuna in sede d’appello.
La questione affrontata dalla Cassazione non è nuova. Negli ultimi due decenni, vari giudici si sono trovati a dover soppesare, da un lato, l'autonomia riconosciuta dalla legge a soggetti giuridici diversi (quali sono anche le società di uno stesso gruppo) e, dall'altro, le esigenze sostanziali denunciate da dipendenti che si trovavano a fare i conti con soggetti insolventi (pur avendo lavorato anche per altre imprese collegate) oppure che lamentavano l'artificiosa inapplicabilità di tutele (ad esempio, reintegra o procedure di licenziamento collettivo) che la legge riconosce solo con la fatidica soglia dei quindici dipendenti.
Con la sentenza in commento la Corte sintetizza il punto d'arrivo delle decisioni più recenti. Non basta che più imprese siano gestite in stretto coordinamento (il collegamento “economico-funzionale”) perché questo è il modo in cui i gruppi di imprese vengono normalmente gestiti e sarebbe contraddittorio farne derivare conseguenze negative per le imprese che ne fanno parte. Affinché l'autonomia giuridica riconosciuta dall'ordinamento a soggetti distinti venga disconosciuta, occorrono la simulazione o la frode e, siccome non si tratta di situazioni facili da dimostrare, i giudici pragmaticamente ci ricordano quali siano gli indici rivelatori che occorre dimostrare.
Con le parole della Corte: «… l'esame delle attività di ciascuna delle imprese … deve rivelare l'esistenza di una serie di requisiti quali l'unicità della struttura organizzativa e produttiva; l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; il coordinamento tecnico e amministrativo – finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo; l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori …».
Si noti l'espressa necessità che ricorrano più circostanze, dal momento che, prese una per una, esse probabilmente sarebbero presenti in molte situazioni del tutto lecite e rischierebbero di far censurare giudizialmente situazioni spesso ricorrenti nella realtà dei gruppi di imprese. Significativa è altresì la precisazione che l'attività lavorativa di uno stesso lavoratore a favore di imprese distinte deve essere svolta in modo “indifferenziato” e “contemporaneo” perché se così non fosse, si metterebbero a rischio i frequenti casi di distacchi infragruppo (al contrario valorizzati da interpretazioni ministeriali recenti).
Il rigore nella tutela delle esigenze sostanziali passa anche dal rigore del vaglio probatorio.
La sentenza 160/17 della Corte di cassazione