Contenzioso

Il cambio appalto e il licenziamento illegittimo

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Cambio appalto e licenziamento illegittimo
Licenziamento disciplinare
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Lavoro giornalistico
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cambio appalto e licenziamento illegittimo

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2018, n. 29922

Pres. Napoletano; Rel. Leone; P.M. Fresa; Ric. S.I. S.p.a.; Controric. C.L. + 4.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Cessazione dell'appalto - Passaggio diretto dei lavoratori licenziati alle dipendenze di altra impresa subentrante - Costituzione di nuovo rapporto - Effetto - Rinuncia al diritto di impugnazione del licenziamento collettivo intimato dal precedente datore di lavoro - Esclusione - Fondamento - Fattispecie.

Ove il contratto collettivo preveda, per l'ipotesi di cessazione dell'appalto cui sono adibiti i dipendenti, un sistema di procedure idonee a consentire l'assunzione degli stessi alle dipendenze dell'impresa subentrante nell'appalto, a seguito della cessazione del rapporto instaurato con l'originario datore di lavoro e mediante la costituzione “ex novo” di un rapporto di lavoro con un diverso soggetto, detta tutela non esclude, ma si aggiunge, a quella apprestata a favore del lavoratore nei confronti del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento, con i limiti posti dalla legge all'esercizio del suo potere di recesso, non incidendo sul diritto del lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli per ottenere il riconoscimento della continuità giuridica del rapporto originario.
NOTA
La sentenza in esame riguarda il caso di quattro lavoratrici, prima licenziate per giustificato motivo oggettivo dalla propria datrice di lavoro - società che gestiva un appalto - e successivamente assunte ex novo dalla società subentrante nell'appalto medesimo.
Le lavoratrici licenziate adivano il Tribunale di Roma affinché venisse accertata l'illegittimità del licenziamento intimato.
Il Giudice di prime cure accoglieva tale domanda e dichiarava illegittimo il licenziamento, per violazione dell'obbligo di repêchage. Tale decisione veniva confermata dalla Corte d'Appello di Roma.
Contro tale decisione la società proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l'inapplicabilità nel caso di specie della tutela per il licenziamento illegittimo.
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, rilevando, innanzitutto, che è principio ormai consolidato che la tutela prevista dal contratto collettivo per i lavoratori, in caso di c.d. cambio appalto, non esclude, ma anzi si somma a quella prevista dalla legge per il licenziamento individuale. Al riguardo, infatti, le procedure fissate dalla contrattazione collettiva per l'assunzione dei dipendenti presso l'impresa subentrante nell'appalto prevedono la conclusione di un nuovo contratto di lavoro, aggiungendo un'ulteriore e diversa tutela a quella prevista per il lavoratore licenziato illegittimamente; tuttavia, ciò non incide in alcun modo sul diritto di quest'ultimo di impugnare il licenziamento intimatogli.
Inoltre, prosegue la Corte, la scelta effettuata dal lavoratore in merito alla costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con la società subentrante nell'appalto di servizi non implica, di per sé, rinuncia all'impugnazione dell'atto di recesso, dovendo escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento, o l'acquiescenza al medesimo, dal mero reperimento di una nuova occupazione.
In ultimo, la Corte di Cassazione ha sottolineato come il recesso del datore di lavoro, da una parte, e la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, dall'altra, costituiscano differenti situazioni di fatto, in quanto la garanzia del passaggio dal datore di lavoro originario all'impresa subentrante, di natura contrattual-collettiva, mira ad assicurare la stabilità e continuità dell'occupazione, ma lascia distinti i rapporti lavorativi (non a caso si costituisce un rapporto ex novo con l'impresa subentrante), sicché non solo una regola contrattuale non potrebbe mai escludere la tutela legale che sanziona il recesso illegittimo, ma neppure sarebbe invocabile, trattandosi di distinti rapporti contrattuali, rispetto ai quali differenti sono le obbligazioni e responsabilità datoriali. Pertanto, anche in ipotesi di passaggio da un appalto all'altro, l'originario datore di lavoro sarà tenuto a dimostrare, ove necessario, le ragioni del recesso e l'impossibilità di reimpiegare il lavoratore in altre posizioni lavorative compatibili.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 27 novembre 2018, n. 30680

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Matera; Ric. P.I.; Controric. G.M.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Previsione dei contratti collettivi - Vincolatività - Esclusione - Limiti - Fondamento - Valutazione del giudice di merito - Sindacabilità - Limiti

In tema di licenziamento disciplinare, rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del c.c.n.l., le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo.
NOTA
La Corte d'appello in accoglimento del reclamo proposto, condannava la società alla reintegra del lavoratore licenziato all'esito di un procedimento disciplinare. Ed infatti, per la Corte territoriale la condotta del lavoratore, accertata nel corso del giudizio, non aveva cagionato alla società un “danno grave” ai sensi del CCNL applicato, con la conseguenza che il fatto contestato doveva ritenersi insussistente.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso in Cassazione la società contestando alla Corte territoriale, da una parte, di aver erroneamente considerato l'inesistenza di un “grave danno” e dall'altra che, in ogni caso, la condotta del lavoratore non poteva essere punita con una mera sanzione conservativa.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Per la Cassazione la scala valoriale recepita dai contratti collettivi, che esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti, costituisce solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo senza che queste ultime possano coincidere completamente ed esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva. Ciò anche in coerenza col disposto della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, secondo cui «il giudice, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (...)».
Il catalogo contrattuale delle giuste cause o dei giustificati motivi può, a seconda dei casi, essere esteso oltre le ipotesi esemplificative del c.c.n.l. oppure essere ridotto.
Nel caso di specie, per la Cassazione la Corte di merito avrebbe errato nel valutare la condotta contestata avendo unicamente in mente la fattispecie astratta descritta dal CCNL, senza in alcun modo verificare se la condotta concreta del lavoratore, pur non esattamente corrispondente alla previsione del contratto collettivo (non essendo stato provato ed accertato il “grave danno”), integrasse comunque un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2018, n. 29764

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Celeste; Ric. L.C.; Controric. F.J. S.a.s..

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Motivo illecito – Esclusività del motivo illecito – Necessità – Anticipazione da parte del lavoratore di adire l'autorità giudiziaria a tutela dei propri diritti – Onere della prova – Mancato assolvimento.

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, costituisce ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunate nella reazione, che ne comporta la nullità a condizione che il motivo ritorsivo sia stato il solo a determinare la volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro e che il lavoratore abbia fornito prova di ciò, anche mediante presunzioni.
NOTA
Una dipendente di una società in accomandita semplice, licenziata per giustificato motivo oggettivo, agiva in giudizio al fine di sentir accertare, tra l'altro, la decorrenza del rapporto di lavoro in data antecedente a quella della formale assunzione, il risarcimento del danno da demansionamento e mobbing nonché la nullità del recesso in quanto ritorsivo. A supporto di tali domande, la lavoratrice deduceva che la convenuta facesse capo al proprio coniuge e ai due cognati e che il licenziamento le fosse stato intimato quale reazione alla sua comunicazione di voler adire l'autorità giudiziaria a tutela dei propri diritti.
Il Tribunale, con sentenza confermata anche dalla Corte d'appello di Trento, dichiarava illegittimo il licenziamento in ragione dell'assenza di un'effettiva ragione organizzativa integrante il giustificato motivo oggettivo formalmente addotto a fondamento del recesso e, di conseguenza, condannava l'impresa alla riassunzione in servizio ovvero al pagamento di un'indennità pari a quattro mensilità della retribuzione globale di fatto.
Le altre domande venivano respinte ed esclusa la natura ritorsiva del licenziamento per carenza di prova in merito alla relativa portata determinante. La Corte territoriale riteneva comunque inammissibile, perché svolta solamente in grado d'appello, l'allegazione della dipendente in merito alla situazione di aperto conflitto tra il marito e gli altri due fratelli, causata dalla denuncia, da parte del primo, di irregolarità contabili nella gestione aziendale.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione la dipendente; la società resisteva con controricorso.
Per quel che più interessa ai fini della presente, la ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 1345 c.c. per aver i giudici di merito escluso la natura ritorsiva del recesso, in realtà intimato per la sua manifestazione di volontà di adire le vie legali a tutela dei propri diritti nonché in conseguenza dei contrasti tra il coniuge e gli altri fratelli.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso principale, ritenendo infondato anche tale motivo. Sul punto, è stato ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 24648/2015) secondo cui il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, costituisce ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunate nella reazione), che ne comporta la nullità quando il motivo ritorsivo sia stato il solo a determinare la volontà datoriale di recedere dal rapporto. L'onere di dimostrare la sussistenza di un motivo ritorsivo, nonché la portata determinante dello stesso, ricade interamente sul lavoratore ricorrente che può fornirne prova anche mediante presunzioni.
Nel caso di specie, come già rilevato dai giudici di appello, la ricorrente non aveva dato prova della determinazione del licenziamento esclusivamente per effetto della sua comunicazione di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e ciò, anche in ragione dell'impossibilità di astrarre tale circostanza dalla situazione di conflitto tra il proprio marito e gli altri soci della convenuta. Tensione familiare che, di per sé, non poteva integrare un motivo illecito, non essendo stato allegato, né dimostrato, che il recesso fosse da ricondurre esclusivamente alla reazione vendicativa del datore di lavoro nei confronti della dipendente in immediata e diretta conseguenza della denunciata, da parte del coniuge, di irregolarità contabili nella gestione aziendale.

Lavoro giornalistico

Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2018, n. 29368

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. T.A.; Controric. R.R.I. S.p.a.

Lavoro giornalistico – Autonomia/Subordinazione – Qualificazione – Criteri

In materia di attività giornalistica, nella qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti come autonomo o subordinato si deve considerare che, in tale ambito, il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa. Con la conseguenza che assume decisivo rilievo, ai fini dell'individuazione del vincolo, l'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa, così da assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale, attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche: nella permanenza, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, della disponibilità del lavoratore rispetto alle esigenze del datore di lavoro.
NOTA
La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la società datrice al pagamento in favore del lavoratore della somma di € 975,00 a titolo di compenso professionale dovuto in relazione a tredici puntate di trasmissioni svolte dallo stesso.
La Corte territoriale confermava per il resto la sentenza di primo grado, che aveva escluso la sussistenza nella specie di un rapporto di lavoro subordinato, ritenendo il carattere autonomo dell'attività giornalistica - consistente nella redazione di schede e di testi autorali per trasmissioni sportive -, dedotta nei plurimi contratti a termine stipulati tra le parti.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso il lavoratore, fondato su quattro motivi.
In particolare, il ricorrente riteneva che la Corte territoriale, tenendo conto soltanto della formale qualificazione del rapporto, e senza procedere all'effettivo accertamento dell'attività svolta in concreto - omettendo tra l'altro di pronunciarsi sulle istanze di prova orale articolate, per ravvisata inutilità -, avesse erroneamente escluso l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, valorizzando indici sintomatici non rispondenti alla realtà fattuale.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva esattamente applicato i principi regolanti l'individuazione del lavoro subordinato giornalistico, alla stregua dei quali, in materia di attività giornalistica, nella qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti come autonomo o subordinato va considerato che, in tale ambito, il carattere della subordinazione risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa. Con la conseguenza che assume decisivo rilievo, ai fini dell'individuazione del vincolo, l'inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell'organizzazione d'impresa, così da assicurare, quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di un'esigenza informativa del giornale, attraverso la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche: nella permanenza, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, della disponibilità del lavoratore rispetto alle esigenze del datore di lavoro.
La Suprema Corte ha altresì chiarito che non può tuttavia negarsi la natura subordinata della prestazione per il godimento da parte del lavoratore di una certa libertà di movimento ovvero per la mancanza di un obbligo di osservanza di un orario predeterminato o di una continua permanenza sul luogo di lavoro, né per la commisurazione della retribuzione alle singole prestazioni; costituendo, per contro, indici negativi rispetto alla ravvisabilità di un vincolo di subordinazione, la pattuizione di prestazioni singolarmente convenute e retribuite, ancorché continuative, secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali.
La Suprema Corte ha conclusivamente ribadito la sindacabilità nel giudizio di cassazione della sola determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, consistendo invece la relativa valutazione in un accertamento di fatto incensurabile in tale sede, ove congruamente motivata (Cass. 7 ottobre 2013, n. 22785; Cass. 2 aprile 2009, n. 8068).

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2018, n. 29377

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Celeste; Ric. O.G.B.; Controric. I. s.p.a..

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Prossimità a pensione - Carattere discriminatorio - Esclusione - Sindacato giurisdizionale sulle motivazioni del licenziamento - Insussistenza

Nei licenziamenti collettivi non ha carattere discriminatorio il criterio rappresentato dal conseguimento, nell'ambito temporale del periodo di mobilita, dei requisiti per l'accesso al trattamento pensionistico, in quanto criterio razionale e oggettivo, rispondente alla finalità di ridurre al minimo il cosiddetto “impatto sociale”, consentendo, nei limiti delle esigenze oggettive a fondamento della riduzione del personale, di espellere i lavoratori che, per vari motivi, anche personali, subiscono ragionevolmente un danno comparativamente minore.
NOTA
La Corte di appello di Torino, pronunziando in sede di reclamo, ha confermato la pronunzia di rigetto della domanda di un dipendente volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli all'esito di procedura di mobilità. In particolare la Corte territoriale: a) ha escluso il carattere discriminatorio del criterio di scelta del personale eccedentario rappresentato dal raggiungimento dei requisiti, nel termine massimo di fruizione della mobilità, per l'accesso al trattamento pensionistico, in quanto criterio razionale ed oggettivo; b) ha ritenuto insussistente il vizio procedurale prospettato con riferimento alla violazione dell'onere di specificazione delle modalità applicative del criterio prescelto evidenziando la natura oggettiva di detto criterio, tale da escludere margini di discrezionalità nella scelta datoriale e rendere superflua la comparazione dei lavoratori individuati con quelli privi dei requisiti.
Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi e la società ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte, dopo aver dichiarato inammissibile il primo motivo, rigetta il secondo, affermando, tra l'altro, il principio di cui alla massima, già sancito in termini similari in precedenti analoghi (Cass. 20 marzo 2013, n. 6959; Cass. 28 marzo 2018, n. 7710; Cass. 20 febbraio 2013, n. 4186). Riprendendo la decisione di appello, la Cassazione respinge anche le censure aventi ad oggetto la completezza della comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/1991 prospettato con riguardo al profilo della specificazione delle modalità di applicazione del criterio del raggiungimento del requisito per l'accesso al trattamento pensionistico, chiarendo che, quando tale criterio di scelta sia unico, può essere idonea anche la comunicazione dell'elenco dei lavoratori licenziati e del criterio del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o di vecchiaia, in quanto la natura oggettiva del criterio rende superflua la comparazione con i lavoratori privi di detto requisito (Cass. 26 agosto 2013, n. 19576). In continuità con il consolidato orientamento sul punto, la Cassazione ricorda, poi, che la L. 223/91, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione, riservando al giudice in sede contenziosa la verifica della correttezza procedurale dell'operazione (Cass. 7 febbraio 2017, n. 3176; Cass. 3 marzo 2009, n. 5089; Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 12 ottobre 1999, n. 11455). Ciò rende del tutto superflue le censure concernenti il mancato esame di circostanze quali la sussistenza di contratti di collaborazione ovvero dimostrative di risultati positivi in termini economici nel periodo di riferimento.
Il ricorso viene, quindi, rigettato.

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