Rapporti di lavoro

Nelle Stp contano le «teste»

di Angelo Busani

Nelle società tra professionisti (Stp) il numero dei soci professionisti (intesi come “teste”) deve essere pari almeno ai due terzi del numero totale dei soci; le quote di partecipazione al capitale sociale di titolarità dei soci professionisti devono essere di entità complessiva tale da raggiungere almeno i due terzi del capitale. Lo afferma il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti in una nota del 30 aprile 2018 (prot. PO 319/2017), così nuovamente replicando quanto il Cndcec aveva espresso nella Nota prot. PO 150/2014.

La questione, estremamente controversa, si pone a causa dell’assai imperfetto testo dell’articolo 10, comma 4, lettera b), della legge 183/2011, per il quale «In ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci». In sostanza non si capisce se la congiunzione «e» tra i professionisti considerati come “teste” (i due terzi rispetto al numero complessivo dei soci) e i professionisti considerati come “quote” (i due terzi del capitale sociale) sia da intendere nel senso che entrambe queste caratteristiche devono ricorrere oppure una sola di esse sia sufficiente per costituire una Stp.

È evidente che il legislatore ha inteso emanare un’unica norma, valevole sia per le società dove i soci pesano in quanto “teste” sia per società in cui valgono per le quote di capitale: ma con il risultato che non è poi chiaro se qualsiasi tipo di Stp deve essere organizzato sia per “teste” che per “quote”. Ebbene, i commercialisti si schierano, dunque, nel senso più conservativo possibile.

Una interpretazione meno rigorosa era stata invece formulata nel mondo notarile: in particolare, i notai del Triveneto (massime Q.A.9, Q.A.10 e Q.A.19) e il Consiglio nazionale del notariato (Studio n. 224-2014/I) si erano espressi a favore di una lettura “sostanzialistica” della norma e cioè nel senso di ritenere legittima qualsiasi conformazione statutaria dalla quale, in concreto, discendesse un’incidenza dei soci professionisti per almeno i 2/3 dei voti esprimibili nelle decisioni dei soci.

Per esempio, in una Stp di nove soci, ove le decisioni dei soci si adottano – di regola – con l’unanimità dei consensi dei soci (articolo 2252 del Codice civile), secondo i commercialisti occorre che almeno sei dei nove soci siano professionisti, mentre secondo i notai sarebbe legittimo anche un numero di soci professionisti inferiore a sei.

Allo stesso modo, in una Srl ove a un socio professionista fosse attribuito un “diritto particolare” di voto (in base all’articolo 2468, comma 3 del Codice civile: il cosiddetto voto pesante), nel senso che al medesimo spetti un diritto “di veto” su qualsiasi decisione i soci assumano oppure un diritto di “voto determinante”, nel senso che le decisioni dei soci non si assumono se ad esse non concorra il voto favorevole del socio dotato del voto pesante, allora ben potrebbero i professionisti essere meno dei due terzi per teste ed essere titolari di una quota di capitale sociale inferiore ai due terzi del capitale stesso.

L’interpretazione del Cndec, leggendo letteralmente la norma in questione, evidentemente va nel segno di preservare le Stp dall’essere “popolate” di non professionisti. Per la cronaca, va rammentato che la situazione è stata ulteriormente complicata – se possibile – dal fatto che la legge sulla società tra avvocati - la 247/2012, articolo 4, comma 2, lettera a) - ha introdotto in questa materia, chissà perché, un’espressione normativa analoga, ma non identica, prevedendo che «i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, devono essere avvocati» (o professionisti iscritti in altro Albo): in sostanza, agli avvocati non importano le “teste”, ma l’entità delle quote di capitale e dei diritti di voto.

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