La liberalizzazione delle professioni e i nodi da tagliare
Mentre il mondo appare sempre più trainato dal sapere professionale e guidato dalle sue élite, in Italia dopo le “lenzuolate” di liberalizzazione di Bersani, siamo pian piano ritornati alla realpolitik dei piccoli passi. Una realpolitik dei piccoli passi, adottata fin dai tempi (1983) del ministro Darida in tema di professioni. Siamo tornati ai tradizionali poteri corporativi e a resilienti meccanismi del consenso che legano i poteri statali a un’ampia classe media professionale. Si è ripristinato il lavorio intestino infinito dello Stato per riformare un pezzo di se stesso, corporazioni professionali cresciute e istituzionalizzate nel suo alveo, sotto il suo mantello protettivo. Lo specchio di questa istituzionalizzazione corporativa è la quota di parlamentari iscritti agli ordini (40%). Non ci sono dubbi che ci siano rendite e plusvalori di posizione in questo dispositivo. Ce li ha fugati Guido Alpa sostenendo che il 15% degli studi professionali giuridici controlla il 65% del fatturato del settore. C’è poi la conferma di networking nepotista: il 40% dei professionisti ha il papà professionista nello stesso settore. In breve, le corporazioni professionali si chiudono corporativamente a riccio nei loro privilegi.
In Italia, c’è quindi necessità di liberare il potenziale di mercato concorrenziale insito nel valore economico dell’esercizio professionale. Dopo la famosa lettera della Bce di Trichet, ce l’hanno raccomandato un po’ tutti dalla Ce all’Ocse. Il tiro alla fune tra stato e mercato, al contrario, vede ancora vincenti le vecchie corporazioni sulle nuove forme d’imprenditorialità professionale. (Tra l’altro, molte nostre eccellenze science oriented sono guidate da imprenditori che vengono dal mondo delle professioni tecno-scientifiche).
L’iter seguito dalla legge sulla concorrenza e l’apertura dei mercati ha rilanciato il dibattito sulle professioni, ma si è anche ingoiato 804 giorni di modifiche in Senato prima di tornare, perdendo pezzi, alla Camera. Anche il Jobs act del lavoro autonomo (legge 81/2017) ha sollevato il dibattito sul mondo autonomo e professionale nei termini di sua tutela, in riferimento all’articolo 36 della Costituzione, che riguarda i diritti di tutti i lavoratori, a prescindere dalla divisione sociale del lavoro, fra dipendenti e indipendenti. La legge 81 è il prodotto del fragoroso impatto della crisi economica sulle attività professionali. Pensate a quelle legate all’edilizia che ha subito un crollo del fatturato. Dal 2000, ricorda Andrea Goldstein, le professioni hanno perso un 30% di valore aggiunto per addetto. Le lenzuolate di liberalizzazione hanno creato effetti collaterali distorsivi, dovuti soprattutto all’abolizione di tariffe minime, con il risultato acuminato di un diffuso precariato professionale tra i giovani professionisti. Senza un riferimento di prezzo, anche il cliente, il più delle volte, non è in grado di apprezzare la qualità delle prestazioni e la congruità dei compensi. Ecco come si è fatta largo l’idea di equo compenso per autonomi e professionisti, riconoscendo loro una garanzia costituzionale.
Seguire un percorso di radicale liberalizzazione delle nostre professioni lascia senza fiato perché implica lo smantellamento dell’attuale assetto corporativo di controllo sulla formazione e l’aggiornamento continuo, sui tirocini e gli esami di Stato. La forza degli Ordini appare ancora abnorme, con oltre due milioni di iscritti e una pletora di casse previdenziali autonome e privilegiate da gestire. Almeno il numero di servizi professionali gestiti sotto il mantello degli Ordini dovrebbe essere ridotto e rivisti gli esami di stato prescritti per l’accesso.
C’è quindi da chiedersi quali siano le regole funzionali da adottare per una liberalizzazione, seppur graduale, delle professioni, nell’ottica di bilanciare interessi socialmente rilevanti con quelli del mercato, il Beruf e la concorrenza. Secondo gli Ordini professionali, la concorrenza, in presenza di interessi sociali rilevanti, dovrebbe riguardare di più la qualità della prestazione, del servizio che non il suo prezzo. Nella realtà, la qualità non è sempre un driver in settori professionali in cui il merito (che ha tra i principali ingredienti la competizione) non sempre è riconosciuto.
In conclusione, la lotta ai corporativismi, al pari di quella contro gli eccessi campanilistici e particolaristici, in Italia richiede decisioni importanti che riguardano delicati gangli statali e assetti di consenso duri da modificare. Per questo resta difficile contemperare istanze professionali e mercato come avviene nei paesi del nord-Europa dove le professioni sono da tempo liberalizzate. C’è dunque un software mentale e culturale di cui i nostri giovani dovranno sbarazzarsi se vogliono nuotare nel mondo globale.