Contenzioso

Appalto e responsabilità solidale del committente

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e obbligo di repêchage
Appalto e responsabilità solidale del committente
Nozione di mobbing
Lavoro giornalistico
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Licenziamento e obbligo di repêchage

Cass. Sez. Lav. 5 dicembre 2018, n. 31495

Pres. Nobile; Rel. Patti; Ric. G.F.; Controric. I.S. S.p.A. e I.S.H. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo obiettivo - Impossibilità di adibire utilmente il lavoratore licenziato in mansioni diverse - Onere probatorio del datore di lavoro - Oggetto - Limiti.

Ai fini della legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo, anche con riferimento ad un congruo lasso temporale successivo al recesso.

NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce l'ambito di operatività dell'obbligo di repêchage.
Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato per motivo oggettivo, consistente nella soppressione della relativa posizione lavorativa, avvenuta in relazione ad una «criticità del mercato nazionale» che aveva comportato un «documentato calo di vendite».
Il dipendente impugnava il recesso, dolendosi, tra il resto, del mancato assolvimento da parte dell'impresa dell'obbligo di repêchage. In dettaglio, il prestatore deduceva che il datore fosse a conoscenza, al momento del licenziamento, della «disponibilità imminente di due posizioni di capo area dimissionari, comportanti mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore nella posizione soppressa», coperte «poco tempo dopo con due nuove assunzioni», formalmente effettuate da un'altra società, appartenente al medesimo gruppo industriale. In sede istruttoria, emergeva, altresì, che era la prima volta che quest'ultima società effettuasse assunzioni nel settore commerciale: prima di allora, era sempre ed esclusivamente stata, difatti, la società che aveva comunicato il licenziamento ad assumere il personale dell'area commerciale. Se ciò non bastasse, tale cambio nelle modalità di gestione dei rapporti di lavoro appariva - secondo le allegazioni del dipendente - strumentale ed elusiva, anche perché effettuata in stretta connessione con la comunicazione del licenziamento contestato.
Entrambi i Giudici del merito respingevano il ricorso del dipendente.
Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, violazione e falsa applicazione degli articoli 5, L. 604/1966, 1375 e 2697 cod. civ., per la «deliberata inosservanza dell'obbligo datoriale di repêchage».
Il Supremo Collegio accoglie il ricorso, rammentando, anzitutto, che il datore «ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo». Soggiungono i Giudici di legittimità che tale vaglio deve necessariamente ricomprendere le assunzioni effettuate entro un congruo lasso di tempo successivo al licenziamento, essendo giuridicamente errata una «valutazione, per così dire, “istantanea” della possibilità di collocazione del predetto, anziché in riferimento ad un congruo arco temporale successivo».
La Cassazione sancisce, infine, l'irrilevanza del fatto che le due nuove assunzioni successive al licenziamento in contesa fossero state effettuate, formalmente, da una società diversa dal datore. Ciò - argomenta la Corte - anche a prescindere dalla configurabilità di una “codatorialità” ovvero di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, rilevando «piuttosto alla stregua di elemento indiziario da apprezzare nell'ambito di una valutazione globale (insieme con la conoscenza datoriale, al momento del licenziamento, di posizioni lavorative comportanti mansioni equivalenti e con le assunzioni avvenute in epoca immediatamente successiva proprio a loro copertura) della corretta applicazione del principio di buona fede nell'assoluzione dell'obbligo di repêchage, in coerenza con i suenunciati principi».

Appalto e responsabilità solidale del committente

Cass. Sez. Lav. 14 dicembre 2018, n. 32504

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Mastroberardino; Ric. A. S.p.A.; Controric. C.F.+1;

Appalto - Responsabilità solidale del committente ex art. 29 D.Lgs. 276/2003 – Concetto di “trattamento retributivo” in senso stretto – Indennità sostitutiva delle ferie non godute – Esclusione

In tema di responsabilità solidale del committente, la locuzione “trattamenti retributivi” di cui all'art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003, deve essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti, dovendosi escludere da tale nozione le somme dovute dall'appaltatore per indennità sostitutiva delle ferie non godute, in ragione della natura “mista” di tale emolumento.
NOTA
Un'azienda committente proponeva opposizione al decreto ingiuntivo con cui le era stato ingiunto il pagamento di retribuzioni di varia natura (tra cui l'indennità sostitutiva per ferie non godute e TFR) dovute in favore di un lavoratore dipendente della società cui aveva appaltato i servizi di pulizia su una tratta autostradale.
In particolare, per quanto di interesse nel caso in esame, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d'Appello dell'Aquila, avevano ritenuto che la società committente fosse solidalmente responsabile anche in relazione all'indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Avverso tale pronuncia la società committente propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della stessa nella parte in cui aveva ritenuto di comprendere l'indennità sostitutiva delle ferie non godute nel concetto di “trattamenti retributivi” di cui all'art. 29 D.Lgs. 276/2003.
La Corte di Cassazione, accogliendo il predetto motivo di ricorso, ha cassato la sentenza impugnata in relazione all'estensione del regime di solidarietà, essendo il committente tenuto a rispondere, in via solidale, unicamente per quanto concerne i trattamenti retributivi in senso stretto, limitatamente al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
In particolare, la Corte ha ricordato che, con riguardo all'art. 29 del D.Lgs. 276/2003, il committente «presta una garanzia in favore del datore di lavoro ed a vantaggio del lavoratore, adempiendo alla quale assolve ad un'obbligazione propria, istituita ex lege». Per quanto concerne l'indennità sostitutiva delle ferie non godute, ha poi precisato che, avendo tale emolumento natura mista (sia di carattere risarcitorio, compensando un danno derivante dalla mancata fruizione del riposo, sia di carattere retributivo, attendendo al sinallagma contrattuale), esso vada escluso dal concetto di “trattamenti retributivi”, «da interpretarsi in senso restrittivo, posto che il committente rimane estraneo alle vicende relative al rapporto tra lavoratore e appaltatore» (in questo senso, anche Cass. n. 10354 del 2016).
Con riferimento al TFR, la Suprema Corte ha ricordato, infine, che, poiché la responsabilità solidale riguarda solo i crediti maturati nel periodo di durata del contratto di appalto, il committente risponde esclusivamente della quota parte di TFR maturato dal lavoratore durante l'esecuzione del contratto di appalto.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. 27 novembre 2018, n. 30673

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; Ric. S.A.; Controric. P.D.G.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Mobbing - Configurabilità - Legittimità o illegittimità delle condotte - Irrilevanza - Intento persecutorio unificante - Necessità - Accertamento - Criteri

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro lamentando di essere stato mobbizzato, avendo subito: «mutamenti dell'orario di lavoro, ritardati e anche mancati pagamenti di alcuni stipendi, mancata consegna di numerose buste paga, sorveglianza indebita sul posto di lavoro, applicazione di sanzioni disciplinari pretestuose, comportamenti vessatori da parte dell'amministratore della società alla presenza di dipendenti e clienti, sistematicità delle condotte vessatorie attuate nel corso del tempo con intento persecutorio, finalizzate ad ottenere le dimissioni del dipendete non gradito, con conseguenti pregiudizi psicofisici da costui lamentati, però non riscontrati a causa della mancata ammissione di apposita c.t.u.». Da tali condotte, secondo il lavoratore, erano derivate numerose patologie aggravatesi a seguito del succedersi di una serie di infortuni sul lavoro nonché l'insorgenza di nuovi stati morbosi.
Entrambi i giudici di merito rigettavano la domanda del ricorrente per non aver assolto l'onere della prova su di lui incombente.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione in particolare per aver, i giudici di merito, erroneamente e/o illegittimamente sminuito la portata di tutte quelle circostanze emerse dall'istruttoria e dalla non specifica contestazione di alcuni passaggi del ricorso introduttivo, in grado di configurare comportamenti rientranti nella fattispecie del mobbing.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso affermando che la Corte distrettuale ha esaminato e valutato tutte le risultanze istruttorie acquisite, nei limiti di quanto devolutole con l'appello, concludendo motivatamente, in base ad un lineare percorso argomentativo, per l'insussistenza del mobbing lamentato dal ricorrente, nell'ambito del proprio esclusivo potere di apprezzamento degli elementi probatori raccolti, perciò insindacabile in sede di legittimità. In particolare la Corte di legittimità ha concluso per il rigetto del ricorso ribadendo il principio secondo cui «ai fini della configurabilità del mobbing, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì nell'intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti, la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore».

Lavoro giornalistico

Cass. Sez. Lav. 27 novembre 2018, n. 30684

Pres. Bronzini; Rel. Marotta; Ric. A.N.S.A. s.c.; Contr. G.B.;

Lavoro giornalistico – Corrispondente estero e redattore corrispondente – Differenze – Trattamento economico previsto per il capo servizio – Applicazione al redattore corrispondente – Legittimità.

Nell'ambito del lavoro giornalistico, secondo il contratto nazionale lavoro giornalistico, il corrispondente estero - disciplinato dall'art. 5 - che opera al di fuori di qualsiasi struttura redazionale, provvede alla raccolta e al coordinamento del materiale trasmesso dai vari corrispondenti, godendo di un proprio specifico trattamento economico; mentre, il redattore corrispondente - disciplinato dall'art. 11 - che opera da una redazione estera, se lavora ed è residente in determinate capitali (Parigi, Londra, Bruxelles, Washington, Mosca, Pechino, Tokyo, New York, Berlino e Ginevra) gode del trattamento economico previsto per i capi servizio, pur senza il conferimento della relativa qualifica.
NOTA
La Corte di appello di Roma, confermando la decisione di primo grado, riconosceva in favore di una lavoratrice (giornalista) il trattamento economico previsto per il capo servizio ai sensi dell'art. 11 CNLG, condannando l'Agenzia di stampa convenuta anche al risarcimento del danno conseguente all'omissione contributiva. La Corte di merito pur negando - come il Tribunale di primo grado - che la giornalista avesse rivestito la qualifica di corrispondente estero, riteneva che la stessa avesse, di fatto, svolto mansioni di redattore presso la sede estera di Parigi e, quindi, avesse diritto a percepire il trattamento economico previsto per i capi servizio.
Avverso tale pronuncia l'Agenzia di stampa propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della stessa nella parte in cui, pur avendo negato la qualifica di corrispondente estero pure rivendicata dalla giornalista, le aveva riconosciuto il trattamento retributivo previsto per i capi servizio.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso, rilevando che la differenza tra la figura del corrispondente estero e quella di redattore si rinviene dalla lettura combinata degli artt. 5 e 11 del CNLG, secondo cui, da un lato vi è il redattore corrispondente - art. 11 CNLG - ovvero colui che opera da una redazione estera, al quale è riconosciuto, al ricorrere di determinate condizioni, l'equiparazione alla posizione di capo servizio; dall'altro, vi è il corrispondente estero tout court - art. 5 CNLG - che opera al di fuori di qualsiasi struttura redazionale e provvede alla raccolta e al coordinamento del materiale trasmesso dai vari corrispondenti alla redazione centrale, godendo di uno specifico trattamento economico.
Non è quindi, contraddittorio, secondo la Cassazione, escludere la sussistenza della figura di corrispondente estero e riconoscere quella di redattore corrispondente, come ha fatto la Corte di appello. Ciò in quanto la disciplina contrattuale richiede, ai fini dell'attribuzione del trattamento economico di capo servizio, che il redattore corrispondente operi e sia residente presso una delle seguenti città: Parigi, Londra, Bruxelles, Washington, Mosca, Pechino, Tokyo, New York, Berlino e Ginevra. Condizioni nel caso di specie sussistenti, considerato che la giornalista era redattrice presso la sede estera di Parigi, città in cui risultava anche risiedere.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2018, n. 31755

Pres. Nobile; Rel. Leone; Ric. U.A. S.p.A.; Controric. B.S.+1;

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Criterio di scelta della prossimità al pensionamento – Liceità – Situazione di eccedenza in uno specifico settore aziendale – Applicazione del criterio di scelta all'intero comparto aziendale – Legittimità

In tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l'organico al fine di diminuire il costo del lavoro, il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento, adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione, in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla l. n. 223 del 1991 e codificata nell'art. 27 della Carta di Nizza, il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva, a vantaggio dei lavoratori che non godono neppure della minima protezione della prossimità al trattamento pensionistico.
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Firenze aveva accolto il reclamo presentato dai lavoratori contro la decisione di primo grado, dichiarando l'illegittimità del recesso intimato nei confronti di questi ultimi all'esito di una procedura di licenziamento collettivo e condannando la società alla reintegra dei lavoratori ed al risarcimento del danno.
In particolare, il licenziamento dei lavoratori era stato ritenuto discriminatorio in quanto la scelta dei lavoratori era stata determinata dall'applicazione del criterio della prossimità al pensionamento che, secondo la Corte territoriale, seppur legittimo in linea teorica nel caso di specie era stato applicato, in assenza di una accertata fungibilità dei singoli lavoratori, con riferimento all'intero personale aziendale e non alla sola area aziendale in cui – nella lettera di apertura della procedura – era stato individuato l'esubero di personale.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro sulla base di vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa la società sosteneva che la Corte territoriale avesse errato sia nel ritenere che la situazione di esubero rappresentata nella comunicazione di avvio del procedimento vincolasse la scelta dei lavoratori da licenziare al solo settore in crisi di eccedenza, sia nel ritenere che la sussistenza del criterio della fungibilità delle mansioni fosse necessaria per l'applicazione dei criteri selettivi a tutto il personale aziendale.
La Suprema Corte ha ritenuto l'impugnazione fondata e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Firenze in diversa composizione.
In particolare la Suprema Corte ha chiarito che il ruolo della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo consiste nel garantire la trasparenza sul procedimento e sulle regioni dello stesso. Pertanto, pur nel caso in cui la stessa individui una situazione di eccedenza in uno specifico settore aziendale, sono comunque legittimi gli accordi che individuino criteri di scelta diversi (come la prossimità all'accesso al trattamento pensionistico) e in base ai quali questi ultimi siano applicati all'intera platea aziendale. E, infatti, la Cassazione ha ribadito un suo consolidato orientamento sul punto secondo il quale «in tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l'organico al fine di diminuire il costo del lavoro, il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento, adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione, in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla l. n. 223 del 1991 e codificata nell'art. 27 della Carta di Nizza, il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva, a vantaggio dei lavoratori che non godono neppure della minima protezione della prossimità al trattamento pensionistico.».
In aggiunta, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che, in linea generale, i criteri di scelta vanno applicati all'intero complesso aziendale, con la conseguenza che il datore di lavoro deve dimostrare la non fungibilità dei lavoratori laddove ritenga di dover applicare i criteri di scelta soltanto ad uno o più settori aziendali, e non viceversa. Anche rispetto all'accertamento della fungibilità dei lavoratori, secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha errato, realizzando un vero e proprio ribaltamento dei principi in materia.

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