Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sull'unicità del centro di imputazione del rapporto di lavoro
Licenziamento collettivo e comunicazione di avvio della procedura

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 26 marzo 2018, n. 7424

Pres. Manna; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. R.F.; Controric. S.F.S. S.p.A.;

Licenziamento per giusta causa - Contestazione disciplinare - Tempestività - Decorrenza dall’avvenuta conoscenza dei fatti posti a fondamento del recesso - Sussiste 

Il principio dell’immediatezza della contestazione  dell'addebito e  della tempestività del recesso datoriale deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando  la complessità  della struttura organizzativa dell'impresa possa far  ritardare il provvedimento di recesso. Inoltre, il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini  della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere  dall'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro  della situazione contestata e non  dall'astratta percettibilità o conoscibilità  dei fatti stessi. 

Nota

La Corte di Appello di Napoli, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento irrogato al dipendente, addetto alla consegna della merce, per aver incassato l’importo di sei fatture nel periodo gennaio - aprile 2008, sulle quali peraltro era apposta la sottoscrizione per quietanza del dipendente medesimo,   senza aver proceduto al successivo versamento di tali somme nelle casse aziendali. 

La Corte territoriale riteneva che, alla luce del quadro istruttorio delineato in prime cure, i fatti posti a fondamento del recesso dovessero ritenersi fondati e che l’irrogazione della massima sanzione disciplinare fosse da considerarsi proporzionata rispetto alle mancanze accertate, tenuto anche conto del carattere non episodico delle violazioni contestate e dell’oggettiva gravità della condotta posta in essere dal lavoratore. 

Con specifico riferimento all’eccepita intempestività della contestazione disciplinare, inoltrata nell’agosto del 2008, la Corte territoriale, riformando sul punto la pronuncia del precedente grado, osservava che la medesima contestazione doveva ritenersi tempestiva atteso che la società datrice aveva acquisito conoscenza dei fatti posti a fondamento del recesso soltanto nel luglio dello stesso anno. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su tre motivi. 

In particolare, il dipendente lamentava che la Corte territoriale avesse erroneamente omesso di considerare talune deposizioni testimoniali dalle quali poteva evincersi che, per prassi aziendale, all’atto della consegna del denaro al personale a ciò deputato dall’azienda da parte degli autisti che avevano provveduto alla consegna della merce, non veniva rilasciata alcuna ricevuta attestante l’avvenuto versamento. 

Il ricorrente denunciava, altresì, che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto sussistente nella specie il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare, benchè la stessa si riferisse ad incassi avvenuti sino a sette mesi prima. 

La Suprema Corte rigettava il ricorso. 

La Cassazione osservava che la Corte territoriale, sulla base del complessivo tenore delle dichiarazioni rese dai testimoni escussi, aveva correttamente ritenuto che, in occasione del versamento degli importi riscossi dagli autisti addetti alla consegna della merce veniva rilasciata ricevuta attestante l’avvenuto versamento. Considerato, pertanto, che il dipendente non aveva prodotto alcuna ricevuta di pagamento, doveva ritenersi ragionevolmente dimostrato il mancato versamento da parte dello stesso degli importi incassati.

Con riferimento all’ulteriore motivo di ricorso concernente la tempestività della contestazione disciplinare, la Suprema Corte ha innanzitutto richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, ai sensi del quale il principio  dell’immediatezza della contestazione  dell'addebito e  della tempestività del recesso datoriale, deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando  la complessità  della struttura organizzativa dell'impresa possa far  ritardare il provvedimento di recesso (cfr. Cass. 17 dicembre 2008, n. 29480).

Inoltre, la Cassazione ha ribadito che il lasso temporale tra i  fatti e la contestazione, ai fini  della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo,  deve decorrere  dall'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro  della situazione contestata e non  dall'astratta percettibilità o conoscibilità  dei fatti stessi (vedi Cass. 15 ottobre 2007, n.21546).

Dunque, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente attenuta ai summenzionati principi, avendo affermato che il  lasso temporale intercorso fra l'accertamento delle violazioni, risalente al luglio 2008, e l'invio della lettera  di contestazione, avvenuto il 1° agosto 2008, era sicuramente idoneo a qualificare la contestazione come tempestiva, tenuto conto della particolare gravità dei  fatti e del tempo necessario a verificarli e ad  accertarli. 

 

Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta 

Cass. Sez. Lav. 30 marzo 2018, n. 7986

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.S.p.A.; Controric. A.C.;

Licenziamento collettivo - Accordo sindacale - Criterio di scelta del possesso dei requisiti pensionistici - Legittimità - Contestazione della non corretta applicazione del criterio di scelta - Mancata allegazione dell’effettivo pregiudizio subito da tale violazione - Carenza di interesse ad agire

Si verifica una violazione dell'art. 5 legge n. 223 del 1991 (sui criteri di scelta) quando la comparazione fra i lavoratori astrattamente licenziabili sia stata viziata dall'adozione di criteri generici, non verificabili e comunque lasciati alla mera discrezione del datore di lavoro, oppure sia avvenuta alla stregua  di criteri astrattamente oggettivi e verificabili, ma in concreto malamente applicati.

In ogni caso, vi è carenza di interesse ad agire - rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto condizione dell’azione - in capo al lavoratore che impugna il licenziamento per violazione dei criteri di scelta, qualora non risulti che dal tale violazione sia derivato un effettivo pregiudizio per il lavoratore ricorrente.

Nota

Un gruppo bancario concordava in sede sindacale un programma di esodo volontario  a favore di un determinato numero di dipendenti in possesso dei requisiti per conseguire il trattamento pensionistico. Era poi stata pattuita, quale disposizione transitoria, la possibilità per le società del gruppo di posticipare, per massimo 9 mesi, la data di cessazione del rapporto dei lavoratori aderenti al piano, limitatamente ad un numero marginale di dipendenti con mansioni specialistiche e/o commerciali di particolare rilevanza, al fine di salvaguardare le funzionalità delle funzioni strategiche.

Nell’accordo veniva altresì pattuito che, qualora il numero di adesioni all’esodo incentivato fosse stato inferiore agli esuberi, si sarebbe fatto seguito al licenziamento dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici.

Al verificarsi di tale situazione, una società del gruppo avviava la procedura di licenziamento collettivo, successivamente alla risoluzione consensuale dei rapporti con i dipendenti aderenti al programma di esodo volontario. In applicazione dell’accordo sindacale, i lavoratori da licenziare venivano selezionati tra quelli in possesso dei requisiti pensionistici ad una determinata data, che non avevano aderito al suddetto piano.

Uno dei dipendenti licenziati ricorreva avanti al Tribunale di Frosinone che, sia nella fase a cognizione sommaria, sia in quella di opposizione, dichiarava illegittimo il recesso, con conseguente condanna alla reintegrazione.

La Corte d’Appello di Roma, in sede di reclamo, confermava tale statuizione. Avverso tale sentenza il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

La società lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 5 L. 223/1991 in relazione alla ritenuta illegittimità del criterio della prossimità alla pensione adottato in base all’accordo sindacale.

La Suprema Corte, anzitutto, ha dato atto che sulla procedura collettiva oggetto di causa risultano precedenti sentenze di legittimità non coincidenti. Infatti, alcune pronunce (come Cass. 23100/2016) hanno ravvisato la violazione del citato art. 5 perché la società, riservandosi la possibilità di posticipare la data di risoluzione del rapporto di lavoro di taluni aderenti all'esodo incentivato per un periodo massimo di 9 mesi, avrebbe finito con il sottrarre tali dipendenti al licenziamento, utilizzando un criterio del tutto generico, indeterminato e non obiettivo, in quanto riferito a funzioni di particolare rilevanza rivestite da taluni aderenti al piano di esodo incentivato, sulla base di una valutazione rimessa alla mera discrezionalità datoriale.

Altre sentenze (Cass. 13803/2017; Cass. 12814/2017; Cass. 22789/2016 nonché Cass. 20063/2016), invece, hanno ritenuto legittima e non discriminatoria la suddetta disposizione transitoria non avendo in alcun modo condizionato i licenziamenti, poiché il numero delle uscite incentivate è stato considerato al fine di ridurre il numero dei lavoratori in esubero. In altre parole, l'esercizio di tale facoltà non ha influito sul criterio di scelta della pensionabilità, così come concordato in sede sindacale, essendo stati licenziati soltanto i lavoratori che non avevano aderito alla proposta di esodo incentivato e che, alla data pattuita nell'ambito della procedura di mobilità, avevano maturato i requisiti pensionistici.

La Corte di Cassazione ha condiviso quest’ultimo orientamento ribadendo che si verifica una violazione dell'art. 5 L. 223/1991 solo quando la comparazione fra i lavoratori astrattamente licenziabili sia stata viziata dall'adozione di criteri generici, non verificabili e comunque lasciati alla mera discrezione del datore di lavoro, oppure sia avvenuta alla stregua  di criteri astrattamente oggettivi e verificabili, ma in concreto malamente applicati. A tal fine, è in ogni caso necessario che risulti che il lavoratore che lamenti essere avvenuta a proprio danno una violazione dei criteri di scelta si sia visto inserire nel novero degli esuberi per far posto ad altri dipendenti che, pur appartenendo alla medesima platea di lavoratori potenzialmente licenziabili, abbiano invece beneficiato di un'erronea applicazione dei criteri di scelta adoperati dal datore di lavoro (principio già affermato in Cass. 24558/2016).

In altri termini, l'annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'art. 5 L. 223/1991 può essere chiesto soltanto dai lavoratori che, in concreto, abbiano subito un pregiudizio per effetto di tale violazione.

Situazione che non ricorreva nel caso di specie, in quanto il rapporto di lavoro dei dipendenti aderenti al piano di esodo incentivato era già cessato al momento dell’applicazione dei criteri di scelta, con la conseguenza che quest’ultimi non potevano più essere comparati con il controricorrente.

Tale circostanza, ad avviso della Suprema Corte, rileva preliminarmente sotto il profilo della carenza di interesse ad agire, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto condizione dell’azione. Per tale ragione, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio. 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 12 aprile 2018, n. 9127

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. P.P.; Controric. F.D.C.;

Lavoro subordinato - Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Andamento economico negativo dell'impresa - Irrilevanza - Ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro - Sufficienza

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non deve necessariamente essere fondato su un andamento economico negativo dell'impresa, essendo invece sufficiente l'esistenza di ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, incluse quelle dirette a una migliore efficienza gestionale o ad incrementare la redditività, ferma l'effettività della riorganizzazione addotta e la necessità che il recesso sia riferibile e coerente con l'operata ristrutturazione.

Nota

Nel caso in esame, il lavoratore proponeva ricorso con rito Fornero avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato dalla società. 

Il Tribunale, pur riconoscendo la sussistenza dei motivi sottesi al licenziamento, accoglieva il ricorso limitatamente al motivo inerente l'omesso espletamento della procedura prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 7, condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria. Il provvedimento veniva confermato anche all’esito della fase di opposizione. 

Contro la sentenza del Tribunale il lavoratore e la società proponevano reclamo e la Corte in parziale modifica della sentenza impugnata, dichiarava il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità risarcitoria pari a 18 mensilità della retribuzione globale di fatto. Per la Corte, disattesi i motivi del reclamo circa la nullità del licenziamento per ritorsività e discriminatorietà, pur ritenendo sussistente l'effettività della soppressione della posizione organizzativa e l'affidamento di parte delle mansioni ad altro dipendente già in forze, riteneva che le “situazioni sfavorevoli” dedotte dalla società, pur esistenti, “non risultavano tali da influire in modo decisivo sulla normale attività produttiva del settore di inquadramento”, per cui il licenziamento era illegittimo.

Avverso la sentenza della Corte ha proposto ricorso principale in Cassazione il lavoratore denunciando violazione e/o erronea e/o falsa applicazione di norme di diritto per non avere la Corte di Appello ravvisato nel licenziamento impugnato la sussistenza di motivi illeciti di tipo discriminatorio e/o ritorsivi determinanti il recesso. 

D’altra parte, la società ha proposto ricorso incidentale per la riforma della sentenza della Corte nella parte in cui è stato ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Per la società, com’era stato accertato dal Tribunale, era stata confermata l'effettività della soppressione della posizione e l'affidamento di parte delle mansioni ad una risorsa interna.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore ed accolto il ricorso incidentale della società.

Ed infatti, per la Cassazione, la legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo, non rinviene nell'andamento economico negativo dell'azienda un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare ed il giudice accertare, tale da assurgere a requisito di legittimità. È sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa; tra le anzidette ragioni, in ogni caso, non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva, ovvero anche quelle dirette ad un incremento della redditività d'impresa, giacché la scelta imprenditoriale determinante la soppressione del posto di lavoro non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost. 

 

Sull’unicità del centro di imputazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 22 marzo 2018, n. 7221

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. C.M.R. S.p.A. + 1; Controric. G.C.I.;

Lavoro subordinato - Collegamento economico funzionale tra imprese - Unicità del centro di imputazione dei rapporti di lavoro - Presupposti - Fattispecie

L’unicità del centro di imputazione dei rapporti di lavoro con i dipendenti ricorre ogni qual volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività imprenditoriale fra vari soggetti, tra i quali vi sia un collegamento economico - funzionale, e ciò venga rivelato da una serie di indici sintomatici. 

Nota

Il caso di specie riguarda il licenziamento di una lavoratrice per giustificato motivo oggettivo. 

Il licenziamento veniva dichiarato illegittimo sia in primo che secondo grado. In particolare, per quanto qui rileva, la Corte d’Appello di Napoli evidenziava che le due società appellanti costituivano un unico centro di imputazione giuridica del rapporto con la lavoratrice, avendo le stesse un’unica struttura organizzativa, produttiva ed amministrativa ed utilizzando contemporaneamente le prestazioni lavorative dei reciproci dipendenti. Conseguentemente, mediante computo di tutti i dipendenti delle due società, le stesse superavano la soglia dei 15 dipendenti, con conseguente applicabilità delle conseguenze di cui all’art. 18 St. Lav. 

La Corte di Cassazione, adita dalle due società, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che si ha unicità del rapporto di lavoro qualora uno stesso lavoratore presti contemporaneamente servizio per due datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta nell'interesse di un datore di lavoro e quale nell'interesse dell'altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di siffatta attività lavorativa devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che ne scaturiscono (cfr. Cass. n. 1346/2015). 

Lo stesso dicasi qualora tra più società vi sia un collegamento economico - funzionale (da non confondersi con quello di cui all'art. 2359 cod. civ.), tale da far ravvisare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro con i dipendenti. Tale unicità di imputazione, prosegue la Corte, ricorre ogni qual volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività imprenditoriale fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga rivelato dai seguenti indici sintomatici: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) contemporaneo utilizzo della prestazione lavorativa da parte delle varie società, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (cfr. Cass. n. 19023/2017).

Ciò premesso, la Corte ha affermato che, nel caso di specie, tutti i principi sopra richiamati sono stati correttamente applicati dalla Corte d’appello, che, con accertamento in fatto congruamente motivato - e, come tale, insindacabile in sede di legittimità - aveva accertato la sussistenza di tutti gli indici sintomatici della suddetta simulazione, i.e. il carattere fittizio del frazionamento in due società di un’unica realtà aziendale e imprenditoriale. Pertanto, correttamente, il giudice di merito aveva emesso l’ordine di reintegra della lavoratrice nei confronti di entrambe le società, essendovi le stesse tenute in solido. 

Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha respinto il ricorso. 

 

Licenziamento collettivo e comunicazione di avvio della procedura

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2018, n. 7837

Pres. Bronzini; Rel. Marchese; P.M. Servello; Ric. G.V.; Controric. R.G.C. s.p.a.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione di avvio della procedura - Finalità - Completezza - Valore sanante successivo accordo sindacale - Insussistenza 

In tema di procedure di mobilità e di licenziamento collettivo, la comunicazione alle r.s.a. di inizio della procedura ha la duplice finalità di approntare un adeguato supporto informativo per le organizzazioni sindacali, onde favorire la gestione concordata della riduzione di personale, e di rendere trasparente il processo decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall'azienda. 

Nota

La Corte d’Appello di Bologna ha riformato la sentenza del Tribunale di Rimini  rigettando l’impugnativa del licenziamento intimato ad un lavoratore a seguito di una procedura di riduzione del personale ex art. 223/91. In particolare la Corte territoriale ha escluso che la comunicazione di avvio della procedura ex art. 4, comma 3 L. 223/91 fosse generica, avendo la società motivato l’impossibilità di riassorbimento dei lavoratori eccedentari facendo riferimento, da una parte, allo “squilibrio sussistente tra entrate e costi fissi” e, dall’altro, alla inevitabilità della riduzione in ragione di “costi divenuti insostenibili in rapporto al fatturato” con conseguente esigenza di esternalizzazione di alcuni servizi.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando, tra l’altro, tale parte della statuizione, a suo dire erronea a cagione della non completezza della citata comunicazione.

La Suprema Corte respinge la censura affermando i principio di cui alla massima, già sancito in analogo precedente richiamato in motivazione (Cass. 11 luglio 2007, n. 15479). La Cassazione sottolinea che la norma, imponendo una comunicazione completa ed esaustiva, tutela un duplice interesse: quello collettivo, di cui è portatore il sindacato, finalizzato ad una gestione concordata degli esuberi, e quello individuale dei singoli lavoratori, i quali, pur non essendo destinatari della comunicazione di avvio della procedura, possono così contare sul fatto che il processo decisionale, che potrebbe condurre alla loro estromissione, ha momenti di esternazione - e, quindi, di oggettiva conoscibilità - di dati fattuali rilevanti per la valutazione della fattispecie.

Ribadendo quanto già affermato nel precedente già citato (Cass. 11 luglio 2007, n. 15479) la Suprema Corte ricorda, poi, che la mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi previsti dall'art. 4 comma 3 L. 223/91 invalida la procedura e determina l'inefficacia dei licenziamenti, e tale vizio non è ex se sanato dalla successiva stipulazione di accordo sindacale. Tale stipulazione, infatti, sebbene “significativa” per valutare la completezza della comunicazione, non è decisiva, dovendo comunque il giudice del merito verificare in concreto l'adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura, analizzando se il sindacato è stato effettivamente messo in condizione di conoscere tutti i dati fattuali rilevanti ovvero se vi sia stato un deficit informativo con conseguente lesione dell’esigenza di oggettiva trasparenza del processo decisionale del datore di lavoro. A giudizio della Cassazione la valutazione di adeguatezza compiuta nella fattispecie in esame dalla Corte territoriale - che ha reputato completa ed esaustiva la comunicazione di avvio della procedura - è sufficientemente e coerentemente motivata, pertanto il ricorso viene rigettato.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©