Contenzioso

Così i giudici restringono l’applicazione della riforma

di Giampiero Falasca

A tre anni dall’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, il primo bilancio dei criteri seguiti dalla giurisprudenza fa emergere un dato abbastanza evidente: nelle aule di giustizia sta prevalendo una lettura molto restrittiva della riforma.

Questo approccio si manifesta, in primo luogo, rispetto ai licenziamenti disciplinari.

Secondo il Dlgs 23/2015, la reintegrazione sul posto di lavoro spetta solo quando il licenziamento disciplinare è basato su un fatto “materiale” inesistente; negli altri casi, la sanzione è limitata al risarcimento del danno.

Applicando in senso stretto questo principio, la reintegra spetterebbe solo qualora il licenziamento fosse basato su un fatto mai avvenuto; negli altri casi, il licenziamento, una volta annullato, dovrebbe essere punito solo con il risarcimento del danno.

Così, per fare un esempio, se un datore di lavoro licenziasse un dipendente per essere arrivato in ritardo di pochi minuti, e il giudice considerasse eccessiva questa misura, il licenziamento invalido non sarebbe punito con la reintegrazione, ma solo con il risarcimento.

La giurisprudenza non ha sposato questa lettura ma, anzi, ha rivisto il significato di “fatto materiale”, dando continuità all’orientamento già formatosi sul tema dopo la riforma dell’articolo 18 approvata nel 2012.

Nella grande maggioranza dei casi, i giudici hanno ritenuto che se un fatto esiste nella realtà storica, ma non si concretizza in una condotta illecita particolarmente rilevante, deve considerarsi “giuridicamente” inesistente, con la conseguenza che si applica la sanzione della reintegrazione.

Utilizzando l’esempio fatto in precedenza, qualora il giudice considerasse sproporzionato il licenziamento del dipendente ritardatario, non spetterebbe il semplice risarcimento del danno, ma dovrebbe applicarsi la sanzione più grave della reintegrazione sul posto di lavoro.

Questa lettura è ben spiegata dalla pronuncia della Corte d'Appello dell’Aquila del 14 dicembre 2017, nella quale si legge che l’insussistenza del fatto materiale contestato «…deve essere intesa non solo nel senso di non esistenza del comportamento contestato, nella sua materialità, ma anche in quello di irrilevanza disciplinare dello stesso, sotto il profilo giuridico…».

Un’interpretazione ragionevole ma, certamente, lontana dal testo letterale della norma.

Un altro tema sul quale si registra un approccio restrittivo della giurisprudenza è l’onere della prova. L’articolo 3 del Dlgs 23/2015 precisa che l’inesistenza del fatto materiale deve essere “direttamente dimostrata in giudizio” dal lavoratore. I giudici di merito hanno sostenuto che la norma non cancella il principio generale (contenuto nella legge 604/66 e mai abrogato) che assegna al datore di lavoro l’onere di provare la giustificatezza del licenziamento. Pertanto, il datore di lavoro deve fornire la prova positiva della sussistenza del fatto materiale contestato (e della sua rilevanza giuridica); in difetto di tale prova, il fatto viene considerato insussistente e si applica la reintegrazione.

Queste interpretazioni assottigliano molto le differenze tra l’articolo 18 e il contratto a tutele crescenti: se la disciplina del fatto materiale e quella dell’onere della prova restano sostanzialmente identiche, il principale elemento distintivo tra i due regimi finisce per essere il meccanismo di computo dell’indennità risarcitoria.

Questo meccanismo, infatti, nel Dlgs 23/2015 è sottratto a ogni discrezionalità, essendo di importo predefinito e crescente nel tempo (2 mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità).

Si tratta di una differenza comunque rilevante, perché consente comunque di prevedere in anticipo i costi e i rischi di un licenziamento.

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