Contenzioso

Niente neutralizzazione dei periodi contributivi per chi soggiace alla “riforma Amato”

di Antonello Orlando


La Corte di cassazione, sezione Lavoro, ha depositato lo scorso 2 novembre la sentenza n. 28.025/18 dedicata al tema della neutralizzazione dei periodi lavorativi più recenti ai fini del calcolo pensionistico, qualora questi comportino un abbassamento definitivo dell'assegno calcolato con il metodo retributivo.
In particolare, l'assicurata convenuta in giudizio nell'appello proposto dall'Inps aveva conseguito la pensione di vecchiaia nel 2007 e maturato già al 31 dicembre 1993 il requisito minimo contributivo richiesto dal trattamento di vecchiaia.
Negli ultimi 10 anni della propria carriera lavorativa la stessa aveva registrato compensi di importo inferiore che, se esclusi dal calcolo della quota B (calcolata dal metodo retributivo quale percentuale della retribuzione media dell'ultimo decennio), avrebbero restituito un importo pensionistico più alto. La richiesta di “neutralizzazione” ai fini del metodo retributivo era stata proposta dalla lavoratrice in quanto, anche escludendo detta contribuzione, avrebbe mantenuto il requisito contributivo previsto per la pensione di vecchiaia, richiamando così per analogia il precedente della sentenza della Corte costituzionale n. 264/1994, dedicato proprio alla neutralizzazione dei periodi retributivi più sfavorevoli nell'ultimo periodo lavorativo. La sentenza richiamata, in effetti, aveva censurato l'articolo 3, comma 8, della legge 29 maggio 1982, n. 297, il quale prevedeva la liquidazione della pensione sulla base della media degli ultimi 5 anni di retribuzione nel presupposto che questi fossero i più favorevoli per il lavoratore; a seguito del disposto della Consulta, il calcolo retributivo quinquennale consente, su domanda dell'assicurato (Circolare Inps n. 133/1997) di escludere nell'ultimo quinquennio eventuali periodi di retribuzione ridotta con impatto negativo sull'assegno. Lo stesso principio in tempi recenti (sentenza n. 173/2018) è stato esteso anche alla Gestione dei Lavoratori Autonomi dell'Inps, vale a dire agli artigiani e commercianti. L'assicurata, tuttavia, ha richiamato la citata giurisprudenza costituzionale per via esclusivamente analogica, in quanto il proprio assegno pensionistico non soggiaceva alle regole della norma del 1982 modificata dalla Consulta, ma al più articolato meccanismo di calcolo del Dlgs 503/1992. La riforma “Amato”, infatti, ha ampliato la media di calcolo del metodo retributivo (che è ancora fino al 2011 applicato a chi vanta almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), portandola da 5 a 10 anni prima della cessazione in riferimento alla anzianità contributiva decorrente dal 1993. Le logiche di tale nuovo metodo di calcolo introdotto dal 1993 hanno modificato l'originale assetto normativo del legislatore del 1982, ampliando il periodo di riferimento per il calcolo della media retributiva con l'obiettivo di prevedere trattamenti pensionistici più equi e non legati soltanto all'ultimo periodo di lavoro degli assicurati. Per tale motivo la Cassazione, anche in coerenza con numerosi precedenti giurisprudenziali, ha respinto il ricorso, ritenendo inapplicabile la richiamata sentenza della Corte costituzionale del 1994 per via del mutato quadro normativo introdotto dal Dlgs 503/1992.

La sentenza n. 28025/18 della Corte di cassazione

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