Contenzioso

Risarcimento per straining anche se la causa è per mobbing

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Pur costituendo due categorie medico-legali indipendenti, lo straining e il mobbing non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici. Infatti, entrambi si sostanziano in condotte ostili poste in essere dal datore di lavoro e idonee a incidere sul diritto alla salute del dipendente, differenziandosi per la sola assenza del carattere di continuità di tali condotte nel caso dello straining.
Ha quindi diritto a vedere accolta la propria domanda di risarcimento il lavoratore che, pur lamentando nel ricorso di avere subito mobbing, vede qualificata in giudizio la condotta come straining. In casi simili, infatti, non trattandosi di fattispecie giuridicamente autonome non si può parlare di violazione della norma del codice di procedura civile che impone la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l'ordinanza 18164/2018, decidendo sul ricorso di una lavoratrice che, adito il tribunale di Roma per vedere accertato il mobbing perpetrato ai suoi danni e vedersi risarcito il conseguente danno alla salute patito, ha visto rigettare la sua domanda. Anche la Corte d'appello ha respinto le richieste constatando come in sede di primo grado fossero emerse circostanze che, seppure idonee a integrare condotte vessatorie, risultavano sprovviste del carattere di continuità necessario ai fini della qualificazione del mobbing. E, avendo la lavoratrice richiesto l'accertamento del solo mobbing in primo grado, prospettando l'ipotesi dello straining soltanto in secondo grado, per la Corte di appello la domanda era inammissibile in quanto nuova.

Nell'accogliere l'istanza della ricorrente, la Corte di cassazione ha confermato il proprio orientamento espresso nella decisione 3977/2018, secondo cui lo straining è una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psicofisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'articolo 2087 del codice civile (e, cioè, sulla norma che impone al datore di lavoro la tutela dei diritti fondamentali dei propri dipendenti, tra cui quello alla salute).
Pertanto non è idonea a qualificare una domanda nuova quella proposta in secondo grado con cui un lavoratore definisca come straining condotte che nel ricorso di primo grado sono state identificate come mobbing. Questa decisione, coerentemente con le più recenti pronunce rese dai giudici di Cassazione, conferma l'orientamento già cristallizzato dalla Corte nella sentenza 3291/2016 secondo cui «le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici. In sostanza servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'articolo 2087 del codice civile e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro».

Nessuna preclusione, dunque, può essere opposta in questo senso al lavoratore che lamenti, e sia in grado di provare, di avere subito condotte ostili e idonee a ledere il proprio diritto alla salute da parte del datore: spetterà al giudice la qualificazione della fattispecie come mobbing o straining, in relazione all'esistenza o meno di un carattere continuativo di tali comportamenti.
È utile a questo proposito ricordare gli insegnamenti della Corte di cassazione in tema di risarcimento del danno alla salute in casi di mobbing o straining. Infatti, come puntualmente chiarito dalle pronunce di legittimità (non da ultimo, le sentenze 18927/2012 e 2920/2016), non è in ogni caso sufficiente la dimostrazione delle condotte datoriali affinché possa compiutamente parlarsi dell'esistenza di una fattispecie di mobbing o di straining: spetta in ogni caso al dipendente la dimostrazione della volontà datoriale di vessarlo, nonché la prova di una lesione subita e del nesso causale esistente tra la stessa lesione e i comportamenti del datore di lavoro.

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