Le regole per le trasferte di lavoro all’estero per lunghi periodi
Si premette che l’art. 51, comma 8-bis, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che disciplina l’aspetto fiscale della materia, non è applicabile se il lavoratore presta la propria attività in uno Stato con il quale l'Italia ha stipulato un accordo contro le doppie imposizioni e lo stesso prevede, per il reddito di lavoro dipendente, la tassazione esclusivamente nel Paese estero. In questa circostanza, la normativa della convenzione prevale sulle disposizioni fiscali nazionali. Ciò posto, affinché possa applicarsi la retribuzione convenzionale occorre che il lavoro prestato all’estero avvenga in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro. A tal proposito, afferma la Circolare Ministeriale 16 novembre 2000, n. 207, paragrafo 1.5.7, che condizione necessaria affinché operi la disciplina delle retribuzioni convenzionali è la stipula di uno specifico contratto che preveda l’esecuzione della prestazione in via esclusiva all’estero e che il dipendente venga collocato in uno speciale “ruolo estero”. Nel quesito posto trattasi invece di lavoratore all’estero in ”trasferta”, per cui la normativa in questione non si applica, proprio perché manca il requisito della continuità ed esclusività dell'attività lavorativa all'estero, derivante da un contratto specifico. La trasferta, infatti, è prestazione accessoria o strumentale rispetto allo svolgimento di altre mansioni. Pertanto, non potendosi applicare le retribuzioni convenzionali al caso di specie, la tassazione avverrà sul reddito estero effettivamente percepito. Fermo restando quanto precede, nel caso opposto, al quesito avrei risposto positivamente, in quanto per verificare la condizione normativa, il soggiorno all’estero è previsto per un periodo superiore a 183 giorni anche non consecutivi, ma non ritengo esclusivo con un solo Stato, potendo quindi la permanenza lavorativa, a mio sommesso, avvenire anche in più Stati esteri.