Non licenziabile chi nasconde hashish nella tuta da lavoro
È illegittimo il licenziamento del dipendente che viene sorpreso in possesso di hashish mentre entra in azienda, secondo quanto deciso dalla Corte di cassazione con la sentenza 21679/2018 depositata ieri.
Il dipendente di una nota società del settore automobilistico, con mansioni di magazziniere, è stato licenziato in tronco per «essere stato sorpreso dai carabinieri, durante la pausa di lavoro, in possesso di 25 grammi di hashish, al fine di spaccio, custoditi nella tuta di lavoro, mentre stava rientrando in azienda, tanto è che era stato arrestato con grave discredito del nome commerciale della società per l'eco della notizia che vi era stato, anche in ambiente extra-lavorativo».
Impugnato il licenziamento, nel primo grado di giudizio la fattispecie è stata oggetto di valutazioni contrastanti. Infatti, mentre all'esito della fase sommaria del rito Fornero il giudice ha ritenuto pienamente legittimo il provvedimento, in sede di opposizione lo stesso tribunale ha dichiarato il recesso illegittimo in base all'articolo 18, comma 5, dello statuto dei lavoratori con la conseguenza che al dipendente è stata accordata una mera tutela indennitaria, pari a 20 mensilità.
La Corte d'appello ha confermato la sentenza, ritenendo il fatto disciplinarmente rilevante ma la sanzione espulsiva sproporzionata in quanto si trattava di condotta extra-lavorativa. Secondo i giudici di secondo grado, correttamente il tribunale aveva escluso la reintegrazione del lavoratore, stabilita per il licenziamento disciplinare dal comma 4 dell'articolo 18 – giova ricordarlo – solo nel caso di «insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili».
Ad avviso della Corte territoriale, infatti, il comportamento – pur disciplinarmente rilevante - non poteva essere ricondotto all'articolo 32 del Ccnl applicabile (nel caso di specie quello metalmeccanico), che prevede una sanzione conservativa per il lavoratore che commetta «qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene e alla sicurezza dello stabilimento». Secondo la Corte d'appello «potenzialmente, in caso di consumo di gruppo della sostanza, sarebbero state pregiudicate l'igiene e la sicurezza dell'intera azienda e non» - invero - «dello stabilimento», vista la possibile «condivisione del “fumo” con altri colleghi di lavoro, essendo notorio il c.d. passaggio di sigaretta da un soggetto ad altro nei fenomeni di consumo di gruppo», nell'ambito dell'intera «azienda».
Inoltre, ad avviso della Corte d'appello «la società aveva ricevuto un oggettivo discredito, essendo stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio» della casa automobilistica, con la sostanza custodita nella tasca della tuta, durante la pausa pranzo e durante il rientro in azienda.
La Cassazione ha tuttavia cassato la sentenza della Corte d'appello proprio in relazione alle argomentazioni sopracitate ritenute carenti e insussistenti sotto il profilo motivazionale. Nello specifico – con riferimento alla mancata sussunzione della fattispecie nell'articolo 32 del Ccnl - erroneamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l'intera azienda – e non il solo stabilimento cui era addetto il dipendente – avrebbe potuto essere in ipotesi coinvolta da un «fenomeno di consumo di gruppo» della sostanza stupefacente. Ed in effetti la “forzatura” nella motivazione della Corte d'appello risulta abbastanza evidente.
Pertanto, la Cassazione ha rinviato la sentenza alla Corte d'appello chiedendo di esaminare nuovamente la fattispecie al fine di valutare se la condotta possa rientrare nella previsione contrattuale sopracitata e se, pertanto, il dipendente abbia o meno diritto alla reintegrazione.