Diritto di critica e licenziamento: quando il lavoratore è giustificato
La Sezione Lavoro della Corte di cassazione, con sentenza n. 11645/18, ha avuto modo di tornare a pronunciarsi sulla relazione tra il diritto - costituzionalmente garantito - di critica e il dovere civilistico di fedeltà e lealtà nel rapporto del lavoratore subordinato nei confronti del proprio datore di lavoro.
Nel caso di specie, una dipendente di una nota compagnia telefonica era stata licenziata per avere inviato diverse e-mail ai propri superiori, esponendo alcune rimostranze riguardo alla propria posizione lavorativa, contenenti frasi ed espressioni ritenute offensive e denigratorie da parte del datore di lavoro. Il ricorso veniva accolto in primo grado e il licenziamento veniva così annullato, dando luogo alla tutela reintegratoria a favore della lavoratrice. La declaratoria di illegittimità del licenziamento veniva confermata in grado d'appello, giustificando il contenuto pur aspramente critico delle e-mail contestate in base alla situazione di «tensione individuale» scaturente da un precedente contenzioso tra la dipendente e la società datrice, che aveva avuto ad oggetto le mansioni attribuite e le maggiorazioni retributive spettanti.
Sebbene il giudizio di legittimità dinanzi alla Cassazione non abbia avuto esito favorevole per il datore di lavoro ricorrente, la pronuncia offre lo spunto per riepilogare in estrema sintesi lo stato dell'interpretazione giurisprudenziale in materia di diritto di critica del prestatore di lavoro e i relativi confini con l'insubordinazione.
Già in diverse occasioni, in particolare, la Corte di legittimità (in linea con la giurisprudenza di merito predominante) ha sancito che le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datore di lavoro, non possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto proiezione della libertà di espressione garantita costituzionalmente o, quanto meno, della connessa libertà di critica. Quanto precede, tuttavia, sempre che il comportamento del lavoratore non si traduca in un atto diffamatorio o ingiurioso (o comunque in una condotta manifestamente riprovevole), connotato da una gravità tale da compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario, così da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 10511/1998).
Ed effettivamente, facendo riferimento al precedente giurisprudenziale che rappresenta la pietra miliare sul tema in questione (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 1173/1986), al fine di stabilire in concreto entro quali limiti il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro risulti legittimo e come tale non passibile di licenziamento disciplinare, è necessaria la previa valutazione dei seguenti requisiti: se i comportamenti addebitati siano effettivamente lesivi della reputazione dell'impresa o dei suoi dirigenti; se le accuse che si ritengono infamanti siano state espresse per la difesa di interessi giuridicamente rilevanti; se i fatti oggetto della dichiarazione ritenuta lesiva siano reali.
Alla stregua di quanto osservato dalla giurisprudenza in materia di espressioni sconvenienti o offensive veicolate tramite social network da parte del lavoratore ai danni del datore di lavoro, anche le critiche espresse «privatamente» per e-mail verso un elenco circoscritto di destinatari può avere rilevanza disciplinare, che andrà però valutata in base alle circostanze specifiche del caso.
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