Contenzioso

La contribuzione per periodi inferiori all’anno degli artigiani iscritti dal 1996 si calcola secondo la riforma Dini

di Silvano Imbriaci


La sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 12810/2018 si occupa delle modalità di calcolo della contribuzione a percentuale per i lavoratori autonomi (nella specie: artigiani), e in particolare nel caso in cui il lavoratore si avvalga di anzianità contributiva successiva al 1° gennaio 1996, e quindi fuori dal campo di applicazione della normativa precedente alla riforma contenuta nella legge 335/1995, che ha introdotto il sistema contributivo nel calcolo dei trattamenti pensionistici.

L'aggancio tra calcolo della contribuzione e disciplina pensionistica di riferimento (sistema retributivo, contributivo o misto) è dato dalla necessità di individuare il parametro cui agganciare la contribuzione a percentuale, ai fini del calcolo di quanto dovuto per periodi di lavoro inferiori all'annualità, posto che la retribuzione a percentuale si versa in presenza di un reddito superiore a un limite retributivo minimo da calcolarsi secondo un preciso parametro di riferimento.

E allora due sono i riferimenti normativi che si contendono per così dire il campo.

Da una parte l'articolo 1 della legge 223/1990 (riforma dei trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi). Tale apparato normativo calcola la contribuzione annua nella misura del 12% del reddito annuo derivante dall'attività d'impresa dichiarato ai fini Irpef, distinguendo la contribuzione fissa (livello minimo imponibile), relativa a un minimale annuo di retribuzione, e la contribuzione a percentuale (o sul reddito) in presenza di redditi d'impresa superiori al limite di retribuzione annua pensionabile, rilevante non nella sua totalità ma fino a concorrenza di un importo pari a 2/3 del limite.
La stessa norma (articolo 1, comma 7) prevede, in riferimento ai periodi di assicurazione inferiori all'anno solare, che i contributi siano rapportati a mese, e in particolare ai tre mesi successivi all'iscrizione del lavoratore nella gestione artigiani. La legge 233/1990 applica quindi il tetto al reddito d'impresa quale parametro per il calcolo della contribuzione a percentuale, rapportandosi la contribuzione a mese per periodi inferiori all'anno. Nel caso di specie il lavoratore non avrebbe raggiunto la soglia reddituale minima prevista dalla legge per i lavoratori autonomi.

Per altro verso, l'articolo 2, comma 18, della legge 335/1995, che per il vero non abroga espressamente l'articolo 1 della legge 233/1990, per i lavoratori privi di anzianità contributiva che si iscrivono dal 1° gennaio 1996 a forme pensionistiche obbligatorie (come nel caso di specie), prevede un massimale annuo della base contributiva e pensionabile di 132 milioni di lire, con effetto sui periodi contributivi e sulle quote di pensione successivi alla data di prima assunzione; è questo il parametro cui agganciare la retribuzione, fissato, anno per anno, e il massimale annuo così individuato vale sia per la base contributiva che per quella pensionabile.

Secondo la sezione lavoro, il criterio da utilizzare per il calcolo non può che derivare dall'applicazione del sistema pensionistico di riferimento. Per i lavoratori autonomi per i quali il trattamento pensionistico è liquidato con il metodo contributivo (prima contribuzione dopo il 1° gennaio 1996), il parametro non può che essere riferito alla legge 335/1995, e fissato anno per anno.

L'introduzione del tetto previsto dalla riforma del 1995, per i lavoratori cui si applica il sistema contributivo, impedisce l'applicazione dei criteri della legge 233/1990, il cui ambito operativo è limitato ai lavoratori autonomi per i quali il trattamento pensionistico è calcolato con il sistema dell'articolo 5 della legge 233/1990. Quindi non il calcolo, in riferimento alla contribuzione a percentuale, basato sul periodo trimestrale di iscrizione alla gestione previdenziale, bensì sulla scorta dei tre dodicesimi della totalità del reddito percepito in virtù della predetta attività.

Sul punto la sezione lavoro afferma l'irrilevanza di eventuali disposizioni applicative di segno diverso rinvenibili nelle circolari Inps, per tre diversi ordini di motivi: in primo luogo si tratta infatti di atti normalmente non aventi rango legislativo e quindi insuscettibili di esame da parte della Cassazione; sono atti che inoltre non hanno alcuna forza derogatoria rispetto alla disciplina legale in materia previdenziale e che per questo sono anche incapaci di disporre di posizioni giuridiche soggettive che trovano la loro fonte in disposizioni di legge e che sono sottratte alla disponibilità delle parti private e pubbliche (gli enti previdenziali)

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