Contenzioso

Licenziamento per violazione dei doveri connessi al rapporto di lavoro

di a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per violazione dei doveri connessi al rapporto di lavoro
Potere disciplinare e divieto del ne bis in idem
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Nozione di trasferimento d'azienda

Licenziamento per violazione dei doveri connessi al rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2018, n. 11412

Pres. Di Cerbo; Rel. Marchese; P.M. Celentano; Ric. C.G.; Controric. U. ex B.R. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Direttore di filiale di un istituto di credito - Grave violazione normativa bancaria - Rilevanza della pubblicità del codice disciplinare - Non sussiste.

Per il soggetto preposto ad una filiale di un istituto di credito le regole dell'organizzazione aziendale equivalgono, quanto all'onere del lavoratore di conoscerle, alle norme di comune prudenza ed a quelle del codice disciplinare e, quindi, ai fini della legittimità del provvedimento irrogativo di un licenziamento disciplinare, non è necessario indicarle nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di un'esplicita specificazione delle norme violate.

NOTA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Bari che, conformemente a quanto statuito dal giudice di prime cure, aveva rigettato la domanda del lavoratore di impugnazione del licenziamento disciplinare intimatogli dalla società. In particolare, la Corte territoriale, tenuto conto dell'ampiezza dei poteri e delle responsabilità proprie del ruolo ricoperto dal lavoratore (Direttore di filiale di un Istituto di credito), aveva dato rilievo al fatto che la «rimarcata violazione della normativa bancaria addebitata al dipendente rappresentava una mera modalità attuativa dei doveri fondamentali di fedeltà, di rispetto del patrimonio e di reputazione del datore di lavoro e si poneva, dunque, in violazione degli obblighi imposti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., la cui conoscenza, per un soggetto preposto ad una filiale di istituto di credito, era equiparata alle norme di normale prudenza ed a quelle del codice penale».
Pertanto, la sanzione espulsiva doveva ritenersi proporzionata alla gravità degli illeciti disciplinari contestati.
Il lavoratore ha presentato ricorso per Cassazione contestando la decisione impugnata, tra l'altro, nella parte in cui ha ritenuto non decisiva la mancata pubblicità del codice disciplinare.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, non è necessario indicare nel codice disciplinare le regole dell'organizzazione aziendale che, per il soggetto che all'interno della filiale di un istituto di credito si trova in posizione di controllo, equivalgono alle norme di comune prudenza ed a quelle del codice penale. Infatti, ai fini della legittimità del licenziamento, è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la violazione di tali doveri, anche in difetto di una esplicita specificazione delle norme violate (in questo senso, Cass. n. 7819/2001, Cass. n. 1305/2000, Cass. n. 6382/1998 e Cass. n. 17366/2015).
Ebbene, nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che comportamenti come quelli addebitati al dipendente (aver consentito, omettendo il controllo imposto dal ruolo, la concessione di finanziamenti in mancanza di parametri reddituali, in presenza di eventi pregiudizievoli e in assenza di accertamenti istruttori, per finalità diverse da quelle proprie), contrari alle direttive aziendali, concretizzino un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro, immediatamente percepibili dal lavoratore come lesivi dell'elemento fiduciario.
In particolare, nell'ambito del rapporto di lavoro bancario, essi assumono rilievo disciplinare, a prescindere dalla loro espressa previsione nel relativo codice.
Per tale motivo, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Potere disciplinare e divieto del ne bis in idem

Cass. Sez. Lav. 6 giugno 2018, n. 14516

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; Ric. P.I. S.p.A. Contr. M.E.;

Art. 7 l. n. 300/70 – Contestazione disciplinare – Irrogazione sanzione conservativa – Successivo intervento sentenza penale di condanna per i medesimi fatti – Irrogazione licenziamento disciplinare – Violazione ne bis in idem – Conseguenza – Illegittimità del recesso.

Qualora il datore di lavoro adotti una sanzione conservativa nei confronti di un dipendente per condotte aventi rilevanza penale, non può, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, intimare il licenziamento disciplinare. Ciò in quanto non è consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica.

NOTA
Nel caso sottoposto all'esame della Cassazione, la Corte di appello di L'Aquila confermava la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Chieti aveva dichiarato la illegittimità del recesso intimato da un datore di lavoro ad una propria dipendente. La Corte di merito aveva ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, inviata nel febbraio 2011, sia con riferimento al momento di commissione delle condotte, risalenti al 2005, che in relazione alla sentenza penale, emessa nel marzo del 2009, che aveva condannato la dipendente per peculato. Inoltre, la Corte di appello aveva ritenuto violato il principio del ne bis in idem, tenuto conto che, per i medesimi fatti, alla lavoratrice era stata in precedenza applicata una sanzione conservativa, senza che potesse assumere rilevanza la diversa valutazione della gravità del comportamento a seguito di accertamento penale.
Avverso tale statuizione, la società propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2119 c.c. nella parte in cui la sentenza di appello aveva ritenuto che, oggetto della contestazione disciplinare, fossero i medesimi fatti precedentemente contestati e sanzionati con la misura conservativa e non la sentenza penale di condanna, non avendo il giudice di appello tenuto conto che l'elemento di novità era rappresentato dalla diversa portata che riveste, sotto il profilo della lesione del vincolo fiduciario, l'accertamento della illiceità penale delle condotte contestate.
La Corte di Cassazione ritiene infondato il motivo rilevando che correttamente la Corte di appello si era uniformata al principio di diritto, secondo cui l'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte che rivestono rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica (Cass. 22 ottobre 2014, n. 22388).
Per tali ragioni il ricorso proposto dalla società viene definitivamente respinto.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 5 giugno 2018, n. 14391

Pres. Nobile; Rel. Marchese; P.M. Francesca Ceroni; Ric. F. S.p.A..; Controric. M. L.
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Giusta causa di licenziamento - Criteri di accertamento - Fattispecie.

Al fine di stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 2119 c.c., il giudice deve valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, a tal fine considerando tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire il danno arrecato, l'intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari nonché ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti (Nella specie, la Corte d'Appello ha escluso che integrasse giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni diverse, opposto prima di conoscere gli esiti della visita medica di idoneità cui era stato sottoposto e relativamente ad un ordine di servizio generico che non individuava ancora esattamente i nuovi compiti da espletare).

NOTA
La Corte d'Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore, a cui si era addebitata una grave insubordinazione per essersi rifiutato di svolgere mansioni diverse. Ciò in quanto aveva ritenuto, ai fini della valutazione del disvalore della condotta, rilevante la circostanza che il lavoratore aveva manifestato il suo disappunto, prima di conoscere l'esito della visita di idoneità cui era stato sottoposto, e, cosa ancora più importante, prima ancora che il datore di lavoro individuasse concretamente, all'esito del giudizio del medico competente, le mansioni che riteneva esigibili in quanto compatibili con il suo stato di salute. Quanto al regime sanzionatorio applicabile, la Corte di merito osservava che il codice disciplinare stabiliva, per l'insubordinazione, tanto la sanzione espulsiva quanto quella conservativa, in ragione della diversa gravità della condotta. Trattandosi, nella specie, di un'ipotesi di insubordinazione non grave, la Corte territoriale ha ritenuto la stessa riconducibile alla sanzione conservativa, con la conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, c. 4, Stat. Lav..
Avverso la predetta sentenza, proponeva ricorso per Cassazione la società, dolendosi, in particolare, della violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. per aver la sentenza ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento pur in presenza di una grave insubordinazione costituita dal conclamato diniego di svolgere le mansioni assegnate dal datore di lavoro.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che – rispetto al fatto accertato (id est: diniego opposto prima della conoscenza del giudizio medico e relativamente a un provvedimento datoriale ancora generico nel suo contenuto) non più suscettibile di revisione in Cassazione – la decisione impugnata non si è discostata dagli insegnamenti della giurisprudenza che impongono di apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, a tal fine considerando tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire il danno arrecato, l'intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari nonché ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti. I giudici di merito hanno valorizzato, in particolare, la circostanza secondo cui il lavoratore aveva agito senza essere a conoscenza degli esiti del giudizio di idoneità delle mansioni e, quindi, in condizioni soggettive particolari, dovute all'incertezza dello stato di salute e degli effetti che avrebbero potuto avere mansioni diverse da quelle fino ad allora svolte.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 31 maggio 2018, n. 13973

Pres. Nobile; Rel. Balestrieri; Ric. V. S.r.l.; Contoric. F.M.;
Lavoro subordinato - Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Tolleranza delle assenze del lavoratore oltre la scadenza del comporto – Inerzia prolungata del datore di lavoro – Rilevanza – Illegittimità del licenziamento

Il comportamento complessivamente considerato del datore di lavoro che, al termine del periodo di comporto, si traduca in una prolungata inerzia, risulta sintomatico della volontà di rinuncia al potere di licenziamento o tale da ingenerare un corrispondete incolpevole affidamento da parte del dipendente circa la prosecuzione del rapporto.

NOTA
Nel caso in esame la lavoratrice impugnava il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatole dalla società datrice di lavoro per vari motivi tra cui la mancata comunicazione (prescritta da una disposizione del contratto collettivo applicato al rapporto) dell'approssimarsi del termine del comporto, la riferibilità di alcuni dei periodi computati a patologia professionale e soprattutto l'intimazione del licenziamento a oltre tre mesi dalla scadenza del periodo di comporto. L'impugnazione della lavoratrice veniva respinta in primo grado, mentre la Corte d'Appello riformava parzialmente la prima sentenza condannando la società datrice alla reintegra della lavoratrice ed al risarcimento del danno.
Contro tale ultima decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro articolando diversi motivi di impugnazione. In particolare e per quanto qui interessa la società sosteneva che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere tardivo il licenziamento perché intimato alla lavoratrice diversi mesi dopo il superamento del periodo di comporto.
Secondo la società, infatti, la Corte territoriale avrebbe dovuto tenere in considerazione il fatto che, poco dopo il superamento del comporto, la lavoratrice era brevemente rientrata in servizio per poi assentarsi nuovamente deducendo un infortunio professionale, successivamente non riconosciuto dall'INAIL, e rientrando definitivamente in servizio circa tre mesi dopo il superamento del termine di cui sopra.
La Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza e rigettato l'intero ricorso.
In particolare ha sottolineato che, benché il licenziamento per superamento del periodo di comporto non sia equiparabile a quello disciplinare relativamente alla necessità di rispettare il principio dell'immediatezza è tuttavia necessario contemperare, in tale fattispecie, il necessario “spatium deliberandi” del datore di lavoro con la legittima esigenza del lavoratore di certezza della vicenda contrattuale. Pertanto la Cassazione ha confermato un suo costante orientamento per il quale «il comportamento complessivamente considerato del datore di lavoro che, al termine del periodo di comporto, si traduca in una prolungata inerzia, risulta sintomatico della volontà di rinuncia al potere di licenziamento o tale da ingenerare un corrispondete incolpevole affidamento da parte del dipendente circa la prosecuzione del rapporto.». In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha ritenuto corretta la sentenza impugnata laddove ha ritenuto integrare acquiescenza datoriale il comportamento del datore di lavoro che, pur potendo licenziare la lavoratrice per superamento del periodo di comporto, ha soprasseduto per oltre tre mesi tollerandone le ulteriori assenze.

Nozione di trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 5 giugno 2018, n. 14390

Pres. Nobile; Rel. Arienzo; Ric. S.V.; Controric. B.C., D.M. e S.I. S.r.l.
Lavoro - Trasferimento d'azienda - Ramo di azienda ex art. 2112 c.c. - Elementi costitutivi - Autonomia funzionale preesistente - Necessità - Fattispecie.

In materia di trasferimento d'azienda o di parte (c.d. ramo) di essa, tanto la normativa comunitaria (direttive CE nn. 98/50 e 2001/23) quanto la legislazione nazionale (art. 2112, comma quinto, cod. civ., sostituito dall'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell'attitudine a proseguire con continuità l'attività produttiva, osservando che la citata direttiva del 1998 richiede, pertanto, che il ramo d'azienda oggetto del trasferimento costituisca un'entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un'attività economica, essenziale o accessoria, e, analogamente, l'art. 2112, comma quinto, cod. civ. si riferisce alla “parte d'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata”.

NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce, in materia di trasferimento d'azienda, che il ramo oggetto di cessione deve costituire «un'entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all'esecuzione di una sola opera, ovvero di un'organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati» e che «in occasione del trasferimento conservi la sua identità».
Nel caso di specie, a mente delle decisioni dei Giudici del merito, l'atto di cessione non aveva avuto ad oggetto un ramo d'azienda, nel senso di entità economica o di organizzazione di lavoratori connotata da legame funzionale, bensì «rapporti di lavoro con una parte soltanto dei dipendenti addetti e dotazioni di ufficio assolutamente prive di rilevanza, non coerenti con l'attività da svolgere e non idonee ad assicurare i servizi di vendita software e, quindi, a garantire il funzionamento dell'entità trasferita già al momento della cessione». Sicché - argomenta la Corte territoriale -, nella specie «si era trattato di una semplice dismissione di elementi disaggregati», senza che il cessionario avesse in qualche modo dato conto della coerenza di tale circostanza con la necessità che il trasferimento interessasse lavoratori dotati di una particolare specializzazione ed il possesso di know-how; di conseguenza, l'assenza di un'articolazione aziendale in grado di presentarsi in modo autosufficiente portava ad escludere che la società cedente avesse effettivamente trasferito un ramo d'azienda.
Per l'effetto, il Tribunale accoglieva l'impugnazione del trasferimento da parte dei lavoratori cessati e, dichiaratane la nullità, condannava la società cedente a rispristinare gli originari rapporti di lavoro, detratto quanto percepito dai lavoratori alle dipendenze della società cessionaria.
La Corte territoriale confermava la sentenza di primo grado, soggiungendo che «l'entità economica trasferita deve avere una propria identità, in quanto tale sussistente al momento del trasferimento ed apprezzabile da un punto di vista oggettivo, essendo escluso che da essa si possa prescindere o che la stessa possa esistere solo per volontà delle parti». Quanto al trattamento economico, la Corte rilevava che «le dimissioni non determinassero la cessazione del rapporto di lavoro nei confronti dell'effettivo titolare, ma che le stesse erano comunque idonee, al pari del licenziamento, a porre nel nulla l'obbligazione retributiva» dovendosi ritenere che «le statuizioni di condanna andassero temporalmente limitate alla data delle dimissioni».
Di tale ultima decisione domandava la cassazione il lavoratore con ricorso principale. Resisteva la società cedente denunziando, con ricorso incidentale, violazione e falsa applicazione dell'art. 2112, quinto comma, cod. civ., nonché della Direttiva europea concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, e denunziando il difetto di motivazione ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Segnatamente, la società cedente deduceva che «non era necessaria, ai fini della validità della cessione, anche alla luce di sentenza della C.G.U.E. n. 107/10, la disponibilità di significativi elementi patrimoniali, essendosi considerato il trasferimento del know how delle competenze acquisite dal personale ceduto ed essendo i debiti trasferiti coerenti al trasferimento di una entità “labour intensive” in grado di garantire alla stessa al momento della cessione di funzionare in modo autonomo».
Ebbene, a parere della Cassazione, sul punto, la sentenza impugnata aveva correttamente applicato i principi in tema di trasferimento di ramo d'azienda, essendo stata rilevata, invero, «la mancanza dell'autonomia ed autosufficienza dell'articolazione aziendale trasferita, valutata in concreto, con giudizio non adeguatamente censurato nella presente sede, come una sommatoria di lavoratori, di scarni beni aziendali di ridotto valore con aggregazione nel ramo ceduto di frazioni eterogenee dell'attività aziendali non autosufficienti e non coordinate tra loro, in assenza di una reale sede aziendale, e quindi di una omogeneità e consistenza dei lavoratori, dei beni e delle attività trasferiti idonee ad evidenziarne il collegamento funzionale e l'attitudine a configurare un autonomo ramo aziendale».

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