Contenzioso

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e obbligo di repêchage in capo alle altre società del gruppo
Licenziamento per giusta causa
Esecuzione di mansioni diverse da quelle oggetto del patto di prova
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Straining, presupposti di configurabilità

Licenziamento e obbligo di repêchage in capo alle altre società del gruppo

Cass. Sez. Lav. 13 novembre 2018, n. 29179

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. P.V.; Controric. M.I.P.UK LTD I.B.O.;

Gruppo di imprese - Unico centro di imputazione di interessi - Collegamento economico-funzionale - Non sufficienza - Conseguenza - Obbligo di repêchage - Configurabilità in capo a tutte le società del gruppo - Esclusione

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società appartenenti a un medesimo gruppo non comporta il venir meno dell'autonomia delle singole società, dotate di personalità giuridica distinta e alle quali, quindi, continuano a far capo i rapporti di lavoro del personale in servizio presso le diverse imprese. Pertanto, dall'esclusione della configurabilità di un unico centro d'imputazione di rapporti di lavoro discende l'insussistenza di un obbligo di repêchage in capo alle altre società del gruppo.
NOTA
Il lavoratore impugnava giudizialmente il licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro in ragione della dedotta chiusura dell'unità operativa Audio, cui era addetto, per accentramento dell'attività del settore in alcuni laboratori del gruppo situati negli U.S.A. Il dipendente, lamentando il mancato espletamento, da parte della società, dell'obbligo di repêchage, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro.
Tanto il Tribunale, quanto la Corte d'Appello di Milano, hanno rigettato il ricorso, ritenendo che la società avesse pienamente assolto al proprio onere probatorio relativamente all'impossibilità di repêchage del lavoratore e che fosse quindi risultata accertata in giudizio l'impossibilità di ricollocazione dello stesso nei posti disponibili in azienda.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore. La società resisteva con controricorso.
In particolare, con i primi tre motivi di ricorso, il ricorrente deduceva la violazione o falsa applicazione degli artt. 3, 5 L. 604/1966, 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. per erronea attribuzione al lavoratore dell'onere di allegazione delle circostanze riguardanti l'obbligo di repêchage. Ciò anche in considerazione del fatto che il ricorrente avrebbe accettato la possibilità di prestare la propria attività lavorativa anche all'estero, secondo quanto previsto nel contratto di assunzione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Ad avviso della Corte i giudici di primo e secondo grado avevano infatti operato una valutazione «in corretta applicazione dei principi regolanti la riorganizzazione imprenditoriale secondo la modulazione, non già di soppressione tout court della posizione lavorativa, ma piuttosto di riduzione di personale in una porzione dell'ambito organizzativo, come appunto nel caso di specie. Ed essa impone […] una comparazione tra lavoratori di pari livello, interessati dalla riduzione ed occupati in posizione di piena fungibilità, nel rispetto del principio di correttezza e buona fede nell'individuazione del dipendente da licenziare» (in questo senso, ex pluribus, Cass. 21 dicembre 2016, n. 26467; Cass. 14 giugno 2007, n. 13876; Cass 3 aprile 2006, n. 7752; Cass 13 ottobre 2015, n. 20508; Cass. 11 giugno 2004, n. 11124).
La Corte di Cassazione si sofferma poi ad esaminare la censura del lavoratore relativa alla omessa verifica della possibilità di collocazione dello stesso in una sede estera con estensione, quindi, dell'obbligo di ricollocazione nell'ambito del gruppo di imprese al quale apparteneva la società datrice di lavoro.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha ricordato che il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico – funzionale.
Ad avviso della Corte, i Giudici di merito avevano invece correttamente escluso che, nella fattispecie in esame, fosse stata dimostrata l'esistenza di un unico soggetto giuridico, ovvero di un «unico centro d'imputazione di rapporti diverso dalle singole società».
La Suprema Corte ha pertanto confermato la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano, rigettando il ricorso promosso dal lavoratore.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2018, n. 31155

Pres. Patti; Rel. Cinque; Ric. R.R.I.; Contr. A.B.;

Minaccia rivolta al superiore gerarchico – Licenziamento – Giusta causa – Legittimità.

La minaccia grave determina pur sempre un turbamento nel soggetto passivo e non è necessario che sia circostanziata ben potendo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre una alterazione psichica, avuto riguardo alla personalità dei soggetti coinvolti. Inoltre, qualora sia pronunciata nei confronti di un proprio superiore all'interno di un contesto lavorativo, è necessario considerare, ai fini di un giudizio sulla serietà della minaccia, l'effetto gravemente destabilizzante sull'attività aziendale, allorquando l'episodio diventi pubblico nell'ambiente lavorativo, e che, comunque, essa rappresenta intrinsecamente una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il lavoratore nei confronti di un suo superiore.
NOTA
La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore nel febbraio 2013, condannando il datore di lavoro a reintegrare il dipendente ed a corrispondergli un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. A parere della Corte di merito il fatto contestato doveva ritenersi insussistente in quanto la condotta addebitata - minaccia rivolta ad un proprio responsabile consistita nell'aver affermato “tanto prima o poi ti crepo” - non presentava, a parere dei giudici, quelle condizioni minime di serietà per poterla ritenere idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Avverso tale sentenza il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione di legge nella parte in cui la pronuncia non aveva considerato che, come emerso dall'istruttoria, la minaccia era stata pronunciata “a freddo”, al di fuori di un contesto di conversazione animata, al superiore gerarchico e doveva pertanto considerarsi idonea a giustificare il recesso ex art. 2119 c.c.
La Cassazione, con l'ordinanza in commento, accoglie il ricorso rilevando che i giudici di appello non hanno correttamente valutato il comportamento del lavoratore, escludendo la gravità della minaccia, pur nell'ambito di una situazione di conflittualità di rapporti lavorativi già oggetto di denunce penali, conclusesi tutte in senso negativo per il lavoratore. Ed invero, sostiene la Suprema Corte, al di fuori delle ipotesi ioci causa, la minaccia grave determina pur sempre un turbamento nel soggetto passivo e non è necessario che sia circostanziata ben potendo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre una alterazione psichica, avuto riguardo alla personalità dei soggetti coinvolti. Inoltre, l'effetto della minaccia è quello della sua idoneità ad incutere timore nel soggetto passivo e non di essere necessariamente prodromica e connessa all'esecuzione del fatto prospettato. Qualora, poi, sia pronunciata in un contesto lavorativo - e, come nel caso in esame, nei confronti di un superiore gerarchico - è necessario considerare, ai fini di un giudizio sulla serietà della minaccia, l'effetto gravemente destabilizzante sull'attività aziendale, allorquando l'episodio diventi pubblico nell'ambiente lavorativo, e che, comunque, essa rappresenta intrinsecamente una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il lavoratore nei confronti di un suo superiore.
La Corte di Cassazione rinvia quindi alla Corte di appello perché effettui una nuova valutazione, alla luce dei princìpi esposti, dei fatti come emersi nel corso dell'istruttoria.

Esecuzione di mansioni diverse da quelle oggetto del patto di prova

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2018, n. 31159

Pres. Nobile; Rel. Amendola; Ric. S.S.P.A; Controric. S.G.

Lavoro subordinato – Assunzione – Periodo di prova – Mansioni diverse da quelle indicate nel contratto – Recesso per mancato superamento del periodo di prova – Illegittimità – Conseguenze sanzionatorie – Esecuzione del patto o risarcimento del danno.

Il recesso intimato nel corso del periodo di prova data la sua natura discrezionale non deve essere motivato atteso che l'obbligo di motivazione sussiste solo ove la legge preveda motivi tipici di recesso (come nel caso dei rapporti di lavoro assistiti da stabilità obbligatoria o reale) in funzione dell'accertamento dell'effettività del motivo. L'esercizio del potere di recesso consentito anche nel corso del periodo di prova deve peraltro essere coerente con la causa del contratto sicché incombe sul lavoratore l'onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che la prova non si è svolta in tempi o modalità adeguati o che essa è stata positivamente superata. Dall'eventuale declaratoria di illegittimità del recesso durante il periodo di prova consegue peraltro o la prosecuzione - ove possibile - della prova per il periodo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova. Si costituiva in giudizio la Società chiedendo il rigetto del ricorso.
La Corte d'Appello, in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al dipendente con condanna della Società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento dell'indennità risarcitoria secondo il testo dell'art. 18 l. n. 300 del 1970 vigente all'epoca del recesso. La Corte ha ritenuto che «l'esperimento avesse ad oggetto mansioni che non erano poi state oggetto della prova, in quanto il lavoratore era stato adibito a compiti diversi. Ne ha tratto la conseguenza che il patto di prova deve considerarsi violato per l'attribuzione di mansioni diverse da quelle che ne formano oggetto, per cui ha ritenuto instaurato fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non soggetto alla temporanea libera recedibilità delle parti e non giustificato il licenziamento intimato, con le conseguenze dettate dall'art. 18 Stat. Lav. pro tempore vigente».
La Società ha proposto ricorso per Cassazione per violazione dell'art. 2096 c.c. per avere la Corte d'Appello applicato l'art. 18 Stat. Lav.
La Suprema Corte ha ricordato il proprio costante orientamento secondo cui il recesso del lavoratore in prova è illegittimo se viene chiamato a svolgere mansioni non previste dal patto di prova, in quanto tale modalità di esperimento non risulta adeguata ad accertare la capacità lavorativa del prestatore. Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha evidenziato la distinzione tra l'ipotesi del licenziamento per illegittima apposizione del patto di prova al contratto di lavoro e l'ipotesi di recesso intimato in regime di lavoro in prova per essere legittima la clausola recante il patto di prova. La Corte ha quindi cassato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello in quanto ha concluso che «in costanza di un valido patto di prova, la mancata corretta esecuzione del medesimo, svolgendo i suoi effetti sul piano dell'inadempimento senza generare una nullità non prevista, non determina automaticamente la conversione in un rapporto a tempo indeterminato, bensì, come ogni altro inadempimento, la richiesta del creditore di esecuzione del patto – ove possibile – ovvero di risarcimento del danno; eventualmente la circostanza fattuale dell'adibizione a mansioni diverse da quelle previste dalla prova può costituire, unitamente ad altri elementi, il sintomo di una ragione della risoluzione estranea all'esperimento, ma in tal caso dovrà essere il lavoratore ad allegare e provare il motivo illecito ed avanzare la specifica domanda, senza che la stessa possa dirsi proposta per la mera denuncia di difformità delle mansioni svolte rispetto a quelle oggetto dell'esperimento».

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 10 dicembre 2018, n. 31872

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; Ric. S. S.P.A.; Controric. D.C.G.;

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Utilizzo del criterio dell'alta specializzazione – Legittimità – Prevalenza dei criteri di scelta identificati con accordo sindacale rispetto a quelli legali – Legittimità

In materia di licenziamenti per riduzione di personale l'accordo sindacale raggiunto al termine della procedura di cui all'art. 4, commi 5-7, della L. n. 223\91 legittimamente contiene i criteri di scelta più idonei, nella specifica realtà aziendale data, al fine della migliore individuazione dei Licenziandi, prevalendo tali criteri su quelli di legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative)
NOTA
Nel caso in esame il lavoratore conveniva la società datrice di lavoro al fine di sentire dichiarare l'illegittimità, per la non corretta applicazione dei criteri di scelta, del licenziamento intimatogli all'esito di una procedura di licenziamento collettivo e, conseguentemente, condannare la società alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.
Il giudice di prime cure reintegrava il lavoratore ed accoglieva parzialmente la richiesta di risarcimento dello stesso, dichiarando l'illegittimità del licenziamento. La Corte d'Appello di Napoli confermava la decisione di primo grado, in virtù della asserita genericità dei criteri di scelta adottati ed applicati.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro articolando un unico motivo.
La società, attiva nel settore della bonifica bellica, ambientale e del relativo monitoraggio, sosteneva, in particolare, che il suo bilancio presentasse all'epoca della procedura una netta perdita, che l'utilizzo del criterio di selezione individuato tramite accordo sindacale e basato sull'alta specializzazione in funzione delle esigenze tecnico produttive ed organizzative era legittimo e che la comparazione tra addetti a diversi reparti non era possibile.
Conseguentemente, sosteneva la società, il licenziamento era legittimo.
La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, cassando la sentenza d'Appello con rinvio alla Corte d'Appello di Napoli in diversa composizione.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento sul punto, secondo il quale « in materia di licenziamenti per riduzione di personale l'accordo sindacale raggiunto, come nella specie, al termine della procedura di cui all'art. 4, commi 5-7, della L. n. 223\91 legittimamente contiene i criteri di scelta più idonei, nella specifica realtà aziendale data, al fine della migliore individuazione dei Licenziandi, prevalendo tali criteri su quelli di legge (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative)».
Nel caso di specie, infatti, la Suprema Corte ha giudicato errata la decisione della Corte d'Appello di Napoli che ha ritenuto il criterio dell'alta specializzazione in funzione delle esigenze tecnico organizzative e produttive dell'impresa eccessivamente generico, con conseguente applicazione dei criteri di legge e dichiarazione di illegittimità del licenziamento del lavoratore per l'accertata permanenza in servizio di dipendenti con carichi di famiglia e anzianità inferiori.
La Corte di Cassazione ha infatti rilevato che il criterio individuato in sede di procedura sindacale e successivamente utilizzato non può ritenersi generico nel contesto produttivo della società, all'interno del quale va calato, consistente in una realtà produttiva e aziendale, quella della bonifica bellica e ambientale, caratterizzata da una particolare e delicata specializzazione tecnica.

Straining, presupposti di configurabilità

Cass. Sez. Lav. 5 dicembre 2018, n. 31485

Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; Ric. C.A.; Controric. Fall. U.D. S.r.l. e ISSV S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Art. 2087 c.c. - Norma di chiusura del sistema a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore - Conseguenze - “Straining” - Presupposti di configurabilità - Esclusione.

Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”).
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti di configurabilità del c.d. straining, inteso quale condizione lavorativa stressogena imputabile al datore ex art. 2087 c.c.
Nel caso di specie, un lavoratore, licenziato per giustificato motivo, proponeva impugnazione giudiziale sia nei confronti del datore di lavoro che aveva comunicato il recesso, sia della società subentrata nella titolarità del ramo d'azienda presso il quale il medesimo dipendente lavorava all'atto della cessazione del rapporto. Il lavoratore, nel medesimo procedimento, domandava, altresì, il risarcimento del danno ex art. 2087 c.c., lamentando di aver subîto condotte vessatorie della società datrice e, precisamente, «una serie di condotte mirate ad eludere l'esecuzione della precedente sentenza con la quale era stato annullato un primo licenziamento e disposta la reintegrazione nel posto di lavoro ed il conseguente risarcimento del danno», mediante la frapposizione di «ostacoli al ripristino del rapporto e al pagamento delle somme dovute per effetto della reintegrazione», nonché l'attivazione di ben otto procedimenti disciplinari, poi conclusisi con l'irrogazione di sanzioni conservative, le quali - a parere del dipendente -, anche in presenza di conferma giudiziale di fondatezza e proporzionalità, non escludevano che i comportamenti datoriali fossero ritenuti «prevaricanti e violenti e che abbiano inciso sulla dignità e sull'integrità psicofisica del lavoratore».
La Corte di merito, in parziale accoglimento del gravame proposto dal lavoratore - previo accertamento della legittimazione passiva della società cessionaria del predetto ramo d'azienda - accertava l'illegittimità del recesso, ordinando la reintegrazione del dipendente, respingendo, di contro, le pretese risarcitorie di quest'ultimo.
Avverso la sentenza d'appello tutte le parti proponevano gravame per Cassazione.
La Suprema Corte, anzitutto, respinge l'eccezione di carenza di legittimazione passiva della cessionaria, rammentando che l'effetto estintivo del licenziamento illegittimo intimato in epoca anteriore al trasferimento d'azienda, in quanto meramente precario e destinato ad essere travolto dalla sentenza di annullamento, comporta che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisca, ai sensi dell'art. 2112 c.c., in capo al cessionario.
I Giudici di legittimità confermano, poi, l'insussistenza del motivo addotto a preteso fondamento del licenziamento, respingendo, invece, il gravame del dipendente e, precisamente, negando la configurabilità di una condotta giuridicamente illecita di straining ex art. 2087 c.c.
Segnatamente, il Supremo Collegio chiarisce che la violazione dell'art. 2087 c.c. presuppone sempre l'accertamento, da parte del Giudice del merito, di una condotta che sia in violazione dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Si tratta, infatti, di una norma di chiusura del sistema antinfortunistico, che è suscettibile di interpretazione estensiva in ragione del rilievo costituzionale che il diritto alla salute ricopre, tanto che «il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative stressogene (c.d. straining)», spettando al Giudice del merito valutare se, dagli elementi dedotti, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale ovvero da altre circostanze del caso concreto, si possa ritenere che alla condotta datoriale sia conseguito un danno al lavoratore.
Ebbene, a parere della Cassazione, sulla base degli atti di causa, tali presupposti difettano nel caso de quo: la Corte territoriale ha preso atto dell'esistenza tra le parti di una situazione conflittuale protrattasi per lungo tempo, non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro e che traeva origine da un complesso contenzioso che aveva inasprito gli animi. Ha poi accertato che in più occasioni lo stesso lavoratore aveva contribuito ad accentuare la situazione di tensione tenendo comportamenti che, in ben otto occasioni, avevano determinato l'irrogazione di sanzioni disciplinari, la cui legittimità era stata positivamente accertata in giudizio. In sostanza - conclude la Suprema Corte - i Giudici del merito hanno dato conto degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, ne hanno considerato l'idoneità offensiva, la sistematicità e la durata ed hanno, infine, correttamente escluso di poter ravvisare una violazione degli obblighi scaturenti dalla citata disposizione di correttezza e buona fede nell'organizzazione della prestazione, negando, altresì, che si potesse ritenere accertato un intento persecutorio in danno del lavoratore ovvero un inutile o gratuito aggravamento delle condizioni in cui la stessa doveva essere resa.

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