Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento per motivo oggettivo
Giusta causa di licenziamento
La contestazione per relationem dell'addebito disciplinare
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2
Licenziamento per motivo oggettivo
Cass. Sez. Lav. 27 settembre 2018, n. 23340
Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. S.R. S.p.A.; Controric. L.M.
Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento per motivo oggettivo - Legittimità - Presupposti - Repechage - Limiti dell'obbligo di repechage - Capacità professionale del lavoratore licenziato - Violazione - Conseguenze.
Pur non potendosi pregiudizialmente negare che l'obbligo di repechage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, tuttavia è evidente che ciò debba risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro.
Diversamente ragionando si lascerebbe l'adempimento dell'obbligo alla volontà meramente potestativa dell'imprenditore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto occulte, non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità.
In altre parole se l'eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venire meno il fondamento stesso dell'obbligo di repechage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate, tuttavia ciò non significa che si possa affidare al datore di lavoro la potestà di far operare la riallocazione su posto vacante secondo una sua valutazione meramente discrezionale, riservata e insindacabile, la quale si tradurrebbe nello svuotamento dell'obbligo di ripescaggio da ogni contenuto prescrittivo.
NOTA
Un lavoratore, con ricorso proposto innanzi al Tribunale, chiedeva l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento comunicatogli per motivo oggettivo dalla società datrice, contestando, tra il resto, il mancato assolvimento da parte del datore dell'obbligo di repechage.
In particolare, il dipendente si doleva del fatto che, a seguito del proprio licenziamento, la società avesse assunto «dall'esterno 3 dipendenti con mansioni amministrative nella stessa struttura amministrativa centrale della società» oggetto della riorganizzazione posta a fondamento del licenziamento de quo.
Sia il Giudice di primo grado che la Corte territoriale accoglievano l'impugnativa, dichiarando l'illegittimità del recesso nonché la risoluzione del rapporto, condannando il datore al pagamento di una indennità risarcitoria pari a diciotto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Segnatamente, i Giudici del merito argomentavano, sulla base di uno specifico apprezzamento di fatto, che il dipendente «avesse un bagaglio professionale tale da consentirgli di essere utilmente collocato in luogo di altri dipendenti assunti dalla società» contestualmente al suo licenziamento.
Contro tale pronuncia della Corte d'Appello, la società proponeva ricorso per Cassazione, cui resisteva il dipendente con controricorso.
Colla sentenza in commento, la Suprema Corte rigetta il gravame, affrontando, tra le altre, la questione dei limiti dell'obbligo di repechage. In dettaglio, la Cassazione chiarisce che è specifico onere del datore provare l'inconciliabilità tra il profilo professionale del lavoratore licenziando e quello caratterizzante le posizioni vacanti in azienda, subordinando al giudizio di incompatibilità tra i predetti profili la legittimità del recesso ove si proceda all'assunzione di nuovi lavoratori da adibire alle citate posizioni vacanti.
Precisamente - argomenta il Supremo Collegio - pur non potendosi pregiudizialmente negare che l'obbligo di repechage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, ciò deve risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro. Diversamente ragionando - soggiungono i Giudici di legittimità - si lascerebbe l'adempimento dell'obbligo alla volontà meramente potestativa dell'imprenditore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto occulte, non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità. In altre parole, se l'eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venire meno il fondamento stesso dell'obbligo di repechage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate, tuttavia ciò non significa che si possa affidare al datore di lavoro la potestà di far operare la riallocazione su posto vacante secondo una sua valutazione meramente discrezionale, riservata e insindacabile, la quale si tradurrebbe nello svuotamento dell'obbligo di ripescaggio da ogni contenuto prescrittivo.
Giusta causa di licenziamento
Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2018, n. 23600
Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Matera; Ric. I. S.p.A.; Controric. A.M;
Lavoro subordinato – Giusta causa – Fattispecie: condotta illecita ordinata dal superiore gerarchico – Esimente – Esclusione – Art. 51 c.p. – Non applicazione
La condotta illecita tenuta dal dipendente in esecuzione di un ordine impartito da un superiore gerarchico non vale a far venire meno la giusta causa di licenziamento, se il lavoratore era in grado di comprendere l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Infatti, nel rapporto di lavoro non è applicabile la causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. (divieto di sindacare e di disobbedire agli ordini della pubblica autorità) perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge.
NOTA
Il caso oggetto della pronuncia in commento riguarda il licenziamento per giusta causa intimato da una Società ad un proprio dipendente che, eseguendo un ordine ricevuto dal proprio superiore gerarchico, aveva contabilizzato nel sistema informatico aziendale l'esecuzione di lavori in realtà mai eseguiti. In particolare, tale operazione di simulazione dei lavori aveva comportato il pagamento di importi in favore di alcune ditte indicate come appaltatrici, benché le stesse non avessero in realtà eseguito i lavori descritti.
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato, ritenendo esclusa la sussistenza del dolo e della colpa nella condotta del dipendente, che si era limitato ad eseguire gli ordini impartitigli dal superiore gerarchico in occasione di una riunione aperta a tutti gli addetti al reparto. Il licenziamento, ad avviso della Corte territoriale, era quindi privo del requisito della giusta causa, sicché la società datrice di lavoro veniva condannata a reintegrare il lavoratore e a risarcirgli il danno.
La Società ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, censurando, tra l'altro, la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2119 c.c., dell'art. 21 del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (Gas e Acqua), dell'art. 3 L. n. 604 del 1966 e degli artt. 51, 61 n. 11 e 640 c.p., ritenendo che il dipendente, allorché aveva falsificato la contabilità aziendale e pagato corrispettivi indebiti a favore di aziende appaltatrici, avesse posto in essere condotte suscettibili di assumere rilievo penale, comunque in contrasto con gli interessi della società e, pertanto, tali da incrinare irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Inoltre, con la propria condotta, ancorché non intenzionale, il dipendente aveva violato le procedure interne e il Codice Etico aziendale.
La Suprema Corte ha accolto tale motivo di impugnazione, rilevando, da una parte, che «l'ordine impartito dal superiore gerarchico comportava pacificamente la violazione delle procedure interne». Dall'altra, che l'eventuale inadeguatezza degli strumenti aziendali non legittima il dipendente a violare le predette procedure, «essendo certamente ipotizzabile l'attuazione di interventi migliorativi sulle procedure in uso ed anzi esigibile dai dipendenti, in adempimento del dovere di diligenza e fedeltà, la segnalazione di inefficienze o limiti del sistema stesso».
La Corte di Cassazione ha peraltro osservato che l'esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di licenziamento, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. (“Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”), che esclude la punibilità del comportamento illegittimo. Ricorda infatti la Corte che, «secondo un risalente ma ancora valido indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la scriminante di cui all'art. 51 c.p. trova la sua giustificazione nel divieto imposto ai cittadini di sindacare le norme giuridiche e di disubbidire agli ordini legittimi della pubblica autorità, considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se siano commessi per adempiere a un dovere derivante da tali norme ed ordini. Tuttavia, gli ordini, come si evince dalla precisa e chiara formulazione della legge, debbono emanare da una pubblica autorità, il che significa che i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico. Nei rapporti di diritto privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione sopra indicata, perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge» (in questo senso, cfr. Cass. pen. N. 34961 del 2013; Cass. pen. N. 133 del 1971).
I Giudici di legittimità hanno poi concluso il proprio ragionamento ricordando che la condotta illecita tenuta dal dipendente in esecuzione di un ordine impartito da un superiore gerarchico non vale a far venire meno la giusta causa di licenziamento, se il lavoratore era in grado di comprendere l'illegittimità dell'ordine ricevuto.
Su tali presupposti la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata affinché la Corte d'Appello riesamini la fattispecie, basandosi sul presupposto che non è sufficiente l'ordine proveniente dal superiore gerarchico per escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento.
La contestazione per relationem dell'addebito disciplinare
Cass. Sez. Lav. 1° ottobre 2018, n. 23771
Pres. Napoletano; Rel. Di Paolantonio; Ric. B.G.; Controric. A.S.L.T.
Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore di lavoro e del lavoratore - Sanzioni disciplinari - Contestazione dell'addebito - Funzione - Specificità - Necessità - Contestazione per relationem - Ammissibilità - Condizioni
In tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati. Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione “per relationem”, mediante il richiamo di atti non allegati alla contestazione disciplinare purché lo stesso riguardi atti dei quali ha conoscenza il dipendente incolpato, il quale deve essere posto in condizione di approntare un'efficace difesa, già al momento in cui riceve l'incolpazione.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo di dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa con la conseguente condanna della Società alla reintegrazione ed al risarcimento del danno.
La Corte d'Appello, in riforma della sentenza del Tribunale, accoglieva la domanda proposta dal datore di lavoro in quanto non ha ritenuto condivisibili le conclusioni del giudice di primo grado che ha considerato la contestazione generica. Al contrario la Corte d'Appello ha evidenziato che «l'incolpazione individuava chiaramente la condotta nell'avere fatto eseguire gratuitamente da strutture esterne esami specialistici a numerosi soggetti che non avevano titolo per usufruire dell'esenzione».
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 L. 300/1970, 50 e 55 bis D.lgs n. 165/2001 in quanto non poteva essere ritenuta specifica una contestazione priva di ogni riferimento al nominativo dei pazienti ed alla natura degli esami asseritamene effettuati in modo indebito.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, chiarendo da un lato che la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e, quindi, che la stessa deve essere specifica, nel senso che deve contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, la condotta addebitata; dall'altro lato ha precisato che «l'accertamento relativo al requisito della specificità, riservato al giudice di merito, va condotto considerando che in sede disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell'accusa nel processo penale né si ispira ad uno schema precostituito, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano il rapporto esistente fra le parti, sicché ciò che rileva è l'idoneità dell'atto a soddisfare l'interesse dell'incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa». Dal principio, di carattere generale, è stata desunta l'ammissibilità della contestazione per relationem, in ordine alla quale si è osservato che risultano rispettati i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio qualora gli atti richiamati siano già a conoscenza dell'interessato, che, quindi, viene posto immediatamente nella condizione di svolgere un'adeguata difesa. La Suprema Corte ha rilevato quindi che a detta ipotesi non è assimilabile la fattispecie che si verifica allorquando la contestazione non contenga gli elementi necessari per individuare i fatti materiali addebitati e l'integrazione, necessaria per soddisfare il requisito della specificità, debba essere operata con atti in possesso del solo datore di lavoro, non portati previamente a conoscenza del dipendente interessato.
Il giudizio sulla sussistenza o meno del requisito della specificità va espresso in relazione a quanto il lavoratore possa apprendere dalla lettura della contestazione e, quindi, il rinvio a fonti esterne è consentito solo a condizione che le stesse siano già note all'incolpato, di modo che questi nel momento in cui riceve l'atto, sia in grado di comprendere i fatti in relazione ai quali l'iniziativa disciplinare è stata intrapresa.
Pertanto, in applicazione di tali principi, la Corte ha concluso per l'accoglimento del ricorso del lavoratore in quanto ha ritenuto che la Corte territoriale non si fosse attenuta ai principi sopra richiamati e, al contrario, avesse valorizzato, per escludere la genericità della contestazione, la circostanza che al lavoratore fosse stato consentito l'accesso agli atti del procedimento e, quindi, fosse stata concessa la possibilità di esaminare la documentazione dalla quale era possibile desumere l'indicazione analitica degli esami specialistici richiesti in favore di soggetti non aventi titolo all'esenzione.
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1
Cass. Sez. Lav. 8 ottobre 2018, n. 24755
Pres. Nobile; Rel. Leone; Ric. U.A. S.p.A.; Contr. C.A.;
Licenziamento collettivo – Accordo sindacale – Criterio di scelta unico – Prossimità alla pensione – Estensione all'intera platea dei lavoratori – Legittimità – Ratio – Minor impatto sociale.
In tema di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva.
NOTA
La Corte di appello di Firenze, in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato la nullità di un recesso intimato ex l. n. 223/91, condannando la società a disporre la reintegra del dipendente licenziato nel posto di lavoro ed a corrispondergli il risarcimento del danno commisurato alla retribuzioni maturate dalla data del recesso sino alla effettiva reintegra.
A fondamento della propria decisione, la Corte di merito sosteneva che, a fronte della accertata situazione di eccedenza di personale riferita ad una determinata area dell'azienda, il datore di lavoro aveva illegittimamente adottato il criterio dell'accesso alla pensione, utilizzato in senso trasversale a tutta l'azienda, in modo da espellere quei lavoratori che, vicini al pensionamento, avrebbero potuto optare per la mobilità volontaria, ma non avevano inteso farlo.
Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 4 e 5 l. n. 223/91 nella parte in cui la sentenza aveva ritenuto che la lettera di apertura della procedura avesse limitato l'ambito di applicazione della stessa così ritenendo illegittimo il successivo accordo sul criterio di scelta applicato anche a soggetti estranei all'ambito inizialmente individuato.
La Cassazione nel decidere il ricorso riconosce, preliminarmente, che sono presenti due differenti orientamenti in seno al giudice di legittimità. Secondo il primo, il criterio delle esigenze tecnico/produttive è utile non solo a fondare la decisione della procedura di licenziamento collettivo, ma anche al fine di individuare, insieme ad altri eventuali criteri, i lavoratori da licenziare. Il secondo orientamento, reputa, invece, che il suddetto criterio sia da utilizzare solo al fine di ritenere fondata la decisione di licenziare, ma la successiva fase di scelta dei lavoratori deve effettuarsi secondo i parametri individuati in sede collettiva.
La Cassazione nella decisione in oggetto ritiene di aderire a tale secondo orientamento, in quanto teso a valorizzare, nelle procedure collettive, i diritti di informativa sindacale, posti a presidio del consapevole svolgimento delle trattative e degli accordi (Cass. 30 settembre 2015, n. 19457 e Cass. 25 gennaio 2011, n. 1722). Nella medesima prospettiva si colloca una precedente decisione della Cassazione, pure richiamata in sentenza, che chiarisce che la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, ex art. 15, l. n. 300/70, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell'obiettività e della generalità, operando senza discriminazioni tra i dipendenti, cercando di ridurre al minimo il c.d. “impatto sociale” della riduzione di personale. Conseguentemente, il criterio della maggiore vicinanza alla pensione risulta coerente con la finalità del “minor impatto sociale”, perché “astrattamente oggettivo e in concreto verificabile” (Cass. 28 marzo 2018, n. 7710).
Alla luce di tali princìpi la Suprema Corte accoglie il ricorso cassando la sentenza di appello in quanto la Corte di merito ha erroneamente ritenuto illegittima la estensione della scelta dei lavoratori da licenziare alla intera platea aziendale e discriminatorio il criterio della maggiore vicinanza alla pensione quale modalità di scelta dei lavoratori da licenziare.
Per un commento si veda Guida al Lavoro n. 42/2018.
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2
Cass. Sez. Lav. 27 settembre 2018, n. 23347
Pres. Nobile; Rel. Marotta; Ric. N.S.A.N.I. S.p.A.; Controric. B.A.;
Lavoro subordinato – Licenziamento Collettivo – Violazione criteri di scelta – Limitazione della procedura a determinati reparti o settori – Criterio della fungibilità – Valutazione dell'equivalenza della professionalità dei lavoratori addetti al reparto soppresso con quella di addetti ad altri reparti – Necessità
In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei — per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda (ovvero per una specifica professionalità) — ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative
NOTA
La Corte d'Appello di Milano aveva respinto il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro avverso la decisione del Tribunale che aveva reintegrato una dipendente ritenendone illegittimo il licenziamento, intimatole nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, per violazione dei criteri di scelta di cui alla L. 223 del 1991.
Secondo la Corte territoriale, infatti, la società datrice di lavoro aveva dapprima riconosciuto che i lavoratori da licenziare avrebbero dovuto essere paragonati nell'ambito di graduatorie che trascendessero le singole business unit sulla base degli specifici profili professionali, salvo poi omettere di inserire la ricorrente in una graduatoria coerente con tale impostazione. In particolare la lavoratrice, in quanto facente parte di un reparto asseritamente soppresso, non era stata paragonata con altri dipendenti, neppure con una lavoratrice che all'inizio della procedura risultava avere lo stesso profilo professionale (R&D Engineer) ed essere inserita nella medesima BU, ma alla quale era stato assegnato un diverso profilo professionale (Customer Service Engineer) in corso di procedura.
Contro la decisione della Corte d'Appello veniva proposto ricorso in Cassazione da parte della società datrice di lavoro sulla base di vari motivi. In particolare la società sosteneva, per quanto qui interessa, che la Corte territoriale avesse errato nel non valutare che in caso di chiusura di uno specifico settore aziendale la platea dei lavoratori da licenziare ben possa coincidere con i lavoratori addetti al settore chiuso, laddove non vi siano all'esterno lavoratori fungibili. In aggiunta la società sosteneva che le posizioni di R&D Engineer e Customer Serivce Engineer non fossero fungibili e che mai la società avesse ipotizzato un confronto tra tutti i profili professionali e che tale confronto era correttamente stato effettuato a livello di funzioni e di Business Unit.
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure mosse dalla società datrice e rigettato il ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha confermato che la censura della Corte territoriale circa l'applicazione dei criteri di scelta era fondata sulla circostanza per cui una lavoratrice era rapidamente passata, in corso di procedura e senza alcuna difficoltosa integrazione professionale, dalla mansione di R&D Engineer (la stessa della dipendente licenziata) a quella di Customer Serivce Engineer. Questo, a giudizio della Corte, significava che tali mansioni dovessero essere considerate, diversamente da quanto ritenuto dalla società, fungibili. Ciò sulla base di un costante orientamento della Suprema Corte secondo il quale «in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda (ovvero per una specifica professionalità) — ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative».
Conseguentemente la lavoratrice e tutti i R&D Engineer non avrebbero dovuto essere individuati come lavoratori da licenziare sulla base della mera appartenenza al reparto o settore in chiusura, ma avrebbero dovuto essere paragonati con i Customer Service Engineer in quanto possedevano professionalità equivalenti.