Contratti a termine con il nodo arretrati
Il decreto dignità (Dl 87/18 – L.96/18), per scoraggiare il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato con gli stessi lavoratori, ha introdotto un incremento della contribuzione dello 0,50% che si applica a ogni rinnovo: al primo rinnovo si paga lo 0,5% in più, al secondo l’1%, al terzo l’1,5% e così via. Il ministero del Lavoro, nella circolare 17/2018, ha precisato che a regime la maggiorazione interessa tutti i rinnovi, mentre per i periodi pregressi la data spartiacque è il 14 luglio 2018 (momento da cui sono in vigore le nuove regole). Da tale data per i rinnovi si paga la maggiorazione anche se si tratta di contratti a termine stipulati e conclusi nel periodo antecedente l’entrata in vigore del Dl 87/2018.
A sei mesi di distanza, stante l’assenza di istruzioni da parte dell’Inps, le aziende non sanno come comportarsi per i versamenti. Infatti, pur ipotizzando che il contributo post rinnovo possa essere versato in misura pari all’1,9% (1,40% + 0,50%), resta da capire come trasferire all’Istituto gli eventuali arretrati.
Non è questa la sola norma in attesa di indicazioni. Va al riguardo considerato che in un contesto come l’attuale - segnato di una serie non indifferente di disposizioni (già note, appena emanate e/o in fieri) i cui adempimenti, come consuetudine, dovranno essere curati da datori, consulenti e intermediari – la funzionalità del sistema postula che tutti gli attori coinvolti svolgano al meglio la propria parte e che le necessarie istruzioni di prassi giungano in modo chiaro e, soprattutto, tempestivo. Ma non sempre queste condizioni si realizzano.
Il provvedimento meno giovane ancora in attesa di istruzioni è quello sull’incentivo in favore delle aziende che impiegano o formano persone detenute o internate. La normativa originaria (legge 193/2000) è stata modificata dal Dl 101/2013 e dal Dm n. 148 del 24 luglio 2014, incidendo su aspetti normativi e contributivi. La percentuale di riduzione complessiva è, infatti, salita al 95% (era l’80%).
Più recenti sono le disposizioni sulla detassazione dei premi di risultato e il welfare aziendale oggetto - dal 2016 - di reiterati interventi legislativi. In estrema sintesi, al verificarsi delle condizioni previste dai diversi piani di incremento della produttività, il datore può erogare ai dipendenti un premio, assoggettato a una imposta del 10% sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali. I lavoratori possono optare per l’erogazione di tali premi in servizi e beni di welfare. Entro regole e limiti definiti, servizi e beni erogati dal datore nell’ambito di un piano di welfare non costituiscono reddito di lavoro dipendente e, a seguito del regime di armonizzazione delle basi fiscali e previdenziali (Dlgs 314/1997), non rilevano ai fini dell’imponibile contributivo. Mentre sul fronte fiscale le Entrate hanno più volte fornito indicazioni (l’ultima circolare è la 5/2018), nessuna precisazione è pervenuta dall’Inps.
In attesa di istruzioni è, infine, anche l’esonero dal pagamento delle quote di accantonamento del Tfr relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione oraria o sospensione dal lavoro e dal pagamento del “contributo di licenziamento” (articolo 2, comma 31, legge 92/2012) da parte di società in procedura fallimentare o in amministrazione straordinaria beneficiarie del trattamento straordinario di integrazione salariale negli anni 2019 e 2020 in seguito a crisi per cessazione di attività, in base all’articolo 44 del Dl Genova (109/2018 – L. 130/18). La materia è stata oggetto di chiarimenti ministeriali (circolare 19/2018), ma mancano le indicazioni dell’Inps.