Previdenza

Collaborazione familiare preclusa ai conviventi more uxorio

Nella nota 879/2023, l’Ispettorato nazionale del lavoro esclude la possibilità di inquadrare quale collaboratore/coadiuvante familiare il convivente more uxorio, allineandosi alla posizione dell’Inps<a uuid="" channel="" url="https://viewerntpro.ilsole24ore.com/private/default.aspx?appid=4239&redirect=false&origine=fisco#showdoc/30699285" target="_blank"/> <a uuid="" channel="" url="https://viewerntpro.ilsole24ore.com/private/default.aspx?appid=4239&redirect=false&origine=fisco#showdoc/40221889" target="_blank"/>

di Antonella Iacopini

In attesa di nuovi orientamenti giurisprudenziali, l’Ispettorato nazionale del lavoro esclude la possibilità di inquadrare quale collaboratore/coadiuvante familiare il convivente more uxorio, allineandosi alla posizione dell'Inps, riportata nella lettera circolare 66/2017. Nella recente nota 879/2023, l'Inl, a fronte di una richiesta di parere avanzata da una propria articolazione territoriale, ha dato riscontro negativo circa la possibilità di ricondurre la posizione lavoristica previdenziale dei conviventi di fatto a quella del collaboratore e/o coadiuvante familiare.

Le regole generali sui collaboratori familiari

Si ricorda come la normativa vigente prevede che le prestazioni lavorative rese in modo occasionale da parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo grado possono essere inquadrate quali collaborazioni familiari. Sul punto il ministero del Lavoro si era espresso con le note 10478/2013 e 14184/2013 chiarendo che non vi è obbligo di iscrizione dei collaboratori all'Inail, se le prestazioni lavorative sono occasionali e si limitano ad un massimo di dieci giorni nell'anno solare, e all'Inps, se svolte entro le 720 ore all'anno, pari a 90 giorni. Possono rientrare in tale categoria oltre che i rapporti di parentela come quelli con genitori, figli, fratelli e altri vincoli di sangue entro il terzo grado, anche quello di coniugio tra marito e moglie.

La legge 76/2016, che ha regolamentato le le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplinato le convivenze, ha ampliato il quadro in materia, ponendo, a questo punto, la questione circa la possibilità che una collaborazione familiare possa sussistere anche tra soggetti non legati dal vincolo matrimoniale.Sul punto è intervenuta la richiamata lettera circolare dell'Inps, la quale individua, in merito all'assolvimento degli obblighi contributivi posti ex lege a carico degli esercenti attività d'impresa, la disciplina applicabile - rispettivamente - alle unioni civili e alle convivenze di fatto, diversificando tali posizioni.

Nel rispetto di quanto stabilito dall'articolo 1, commi 2-35, della citata legge (cfr. commi 13 e 20), l'Inps riconosce unicamente al soggetto, parte di un'unione civile le identiche tutele previdenziali riconosciute al coniuge. Infatti, la norma equipara i coniugi alle parti dell'unione civile e, pertanto, rende possibile estendere a quest'ultime il campo di applicazione dell'istituto dell'impresa familiare ex articolo 230-bis codice civile. Diversamente, secondo il legislatore, le convivenze di fatto consistono in unioni stabili tra due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile.

Pertanto, rispetto al quesito presentato, nell'ipotesi di conviventi di fatto, viene a mancare proprio il requisito soggettivo. Ad avviso dell'Istituto, quindi, il convivente more uxorio, come detto, "…non avendo lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d'impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare ...". Di fatto, la norma, pur riconoscendo al convivente alcune tutele riservate al coniuge o ai familiari (ad esempio in materia sanitaria o abitativa), non introduce alcuna equiparazione di status.

L’orientamento dell’Ispettorato

L'Ispettorato, dunque, conferma tale orientamento, volto ad equiparare lo status tra il coniuge e le parti unite civilmente, non potendo comprendere, per le ragioni normative sopra evidenziate, anche il convivente more uxorio. Tuttavia, in chiusura di nota, l'Inl non esclude la possibilità che future sentenze aprano all'assimilabilità, in chiave analogica, della posizione del convivente di fatto a quella del familiare, richiamando l'ordinanza interlocutoria 2121/2023 con cui la Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite Civili la possibilità di interpretare l'articolo 230-bis, comma 3, codice civile, sull'impresa familiare, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità.

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