Computo dei lavoratori intermittenti
Va anzitutto evidenziato che la norma che disciplina la materia non è il D.L. n. 34 ma il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Tale norma, all’art. 23, co. 1, stabilisce che, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non possono essere assunti lavoratori a termine in misura superiore al 20% del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione, con arrotondamento del decimale all’unità superiore se esso è uguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio attività in corso d’anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione. Per i datori che occupano fino a 5 dipendenti è sempre possibile stipulare 1 contratto di lavoro a termine. Invece, per il lavoro intermittente vige l’art. 13, il quale dispone che in ogni caso, con l’eccezione dei settori del turismo, pubblici esercizi e spettacolo, il contratto intermittente è ammesso, per ogni lavoratore con il medesimo datore, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di 3 anni solari (in caso di superamento di tale periodo il rapporto si trasforma a tempo pieno e indeterminato). Deve quindi ritenersi che il lavoratore assunto con contratto intermittente a tempo determinato non conti per il superamento della soglia del 20% dei lavoratori a termine, trattandosi di due distinte tipologie contrattuali. Infine, si ricorda che in passato il Ministero del lavoro ha ribadito (con la risposta a interpello, nota 12 ottobre 2009, n. 72, prot. n. 25/I/0014905, e la circ. n. 4/2005) che il lavoro intermittente è "una fattispecie lavorativa sui generis", e che comunque non è applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 368/2001 (che regolava il contratto a termine prima del D.Lgs. n. 81/2015).
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