Rapporti di lavoro

Decreto flussi, prima dell’assunzione di stranieri verifica sull’idoneità di candidati nazionali

La nuova previsione del regolamento rischia di generare contenzioso. Non è chiaro se il lavoratore vada sottoposto a un test e se possa poi fare ricorso

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di Francesco Natalini

L’obbligo di esperire una verifica preventiva che escluda la disponibilità di lavoratori italiani (ovvero comunitari o stranieri regolarmente abilitati a operare in Italia), prima di richiedere l’assunzione di un lavoratore straniero, potrebbe creare qualche criticità in merito al significato da attribuire al concetto di «non idoneità», contenuto nel decreto Flussi 2022.

Va premesso che la disposizione che impone la preventiva escussione sul territorio nazionale, tramite i Centri per l’impiego, di lavoratori già operanti in Italia, potenzialmente rispondenti ai requisiti professionali (in termini di qualifica/mansioni) richiesti allo straniero che si intende assumere, è da tempo presente nel Testo unico sull’immigrazione (Dlgs 286/1998). Il testo unico dispone, infatti, all’articolo 22, comma 2, che il datore di lavoro italiano (o straniero regolarmente soggiornante in Italia) il quale intenda instaurare in Italia un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato con uno straniero residente all’estero deve (ovviamente) presentare una serie di dichiarazioni e documenti, ma «previa verifica, presso il centro per l’impiego competente, della indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale».

Concentrandosi su questa ultima espressione, dal testo unico non si ricavano però indicazioni chiare sulla possibilità per il datore richiedente di insistere (ovviamente in caso in cui la preventiva escussione sul territorio nazionale tramite i Centri per l’Impiego abbia dato esiti positivi, individuando soggetti disponibili) nella decisione di voler comunque assumere lo straniero.

Un maggior conforto, in senso positivo, sembra emergere dal Regolamento d’attuazione del testo unico: il Dpr 394/1999 all’articolo 30-quinques, comma 3, prevede infatti che qualora il Centro per l’impiego (entro 20 giorni) comunichi allo Sportello unico e al datore di lavoro la disponibilità di lavoratori residenti sul territorio italiano, la richiesta di nullaosta relativa al lavoratore straniero rimane sospesa «sino a quando il datore di lavoro comunica, dando atto della valutazione delle predette offerte, allo Sportello unico e, per conoscenza, al Centro per l’impiego, che intende confermare la richiesta di nullaosta relativa al lavoratore straniero». Il riferimento al mero concetto di “conferma”, scevro cioè da particolari vincoli e condizioni (esigendo, a dire il vero, solo una non ben precisata “valutazione”), associata alla “intenzionalità” da parte del datore di proseguire nella procedura, ha indotto gli operatori a non porsi più di tanto il problema della presenza di un lavoratore cosiddetto “nazionale” disponibile.

Il dpcm del 29 dicembre scorso, che individua i flussi in entrata per il 2022, all’articolo 9, ricordando la predetta disposizione del testo unico che impone la preventiva negativa escussione di lavoratori già presenti in Italia (dando peraltro ai Ministeri interessati il compito di emanare una circolare congiunta che stabilisca la documentazione necessaria), ha introdotto, però, un concetto nuovo e preoccupante: quello della «inidoneità» del lavoratore, qualora individuato dal Centro per l’impiego a svolgere l’attività offerta allo straniero.

Nello specifico, il comma 3, lettera b) del citato articolo 9 annovera tra le ipotesi che consentono di poter dichiarare l’indisponibilità del lavoratore nazionale (che consentirebbe al datore di lavoro di proseguire con la richiesta di assunzione dello straniero) la «non idoneità del lavoratore accertata dal datore di lavoro prima della richiesta di nulla osta, ad esito dell’attività di selezione del personale inviato dal centro per l’impiego».

È evidente che il termine «non idoneità» lascerebbe intendere una verifica negativa delle capacità e delle attitudini del lavoratore, al punto da preferirgli lo straniero, risultando inverosimile che, a priori, si possa stabilire che il lavoratore nazionale, individuato dal Centro per l’Impiego e disponibile a ricoprire quella mansione (peraltro, normalmente, generica), sia inidoneo.

È quindi necessario sottoporlo a un test? E il lavoratore nazionale rifiutato perché ritenuto “non idoneo” (a prescindere che sia stato o meno sottoposto a un test valutativo), avrà diritto a difendersi per eccepire tale “giudizio negativo” nei suoi confronti, da cui deriva, evidentemente, anche la perdita di una opportunità di lavoro?

Aggiungiamo che nell’ultimo comma dell’articolo 9 si dispone che deve essere il datore ad autocertificare la condizione di inidoneità, tramite dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, secondo quanto disposto dall’articolo 47 del Dpr 445/2000, che prevede anche responsabilità di tipo penale, e a questo punto il percorso è completato.

Si dirà che il dpcm è norma di livello inferiore rispetto al testo unico e al regolamento d’attuazione (Dpr 394/1999), ma questo non è scontato e comunque non esclude l’attivazione di un contenzioso che, francamente, poteva essere evitato.

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