Il CommentoRapporti di lavoro

Decreto lavoro e contratti a termine

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di Giampiero Proia

Tratto da Modulo24 Contenzioso Lavoro

Prima ancora che se ne conoscessero i dettagli il decreto lavoro approvato dal Consiglio dei ministri il 1° maggio (Dl 4 maggio 2023, n. 48), ha scatenato un aspro dibattito politico.
Tra i punti più discussi, insieme alla sostituzione del reddito di cittadinanza con il nuovo "assegno di inclusione", v'è l'intervento sulla disciplina dei contratti a termine, riguardo al quale i critici lamentano che esso possa determinare un incremento della precarietà e penalizzare soprattutto i più giovani.
Senza entrare nel merito delle valutazioni politiche, va segnalato che l'intervento ha, in realtà, un contenuto molto circoscritto e limitato, andando a modificare soltanto uno dei profili più controversi del decreto dignità.
L'articolo 24 del decreto, infatti, elimina le causali previste dal Dl 87 del 2018 per l'apposizione del termine ai contratti aventi durata superiore a dodici mesi, le quali si prestavano, da un lato, a incertezze applicative (in particolare, per ciò che riguardava il richiamo alla "temporaneità" dell'incremento dell'attività ordinaria, e soprattutto alla "significatività" e alla "non programmabilità" dell'incremento stesso), e imponevano, dall'altro, requisiti notevolmente restrittivi (in particolare, per ciò che riguardava le "esigenze temporanee ed oggettive", le quali, dovevano essere "estranee all'ordinaria attività" dell'impresa).
Al posto delle causali individuate dal decreto dignità, si prevede ora il rinvio ai "casi previsti dai contratti collettivi" di cui all'articolo 51 del Dlgs. 81 del 2015, rinvio che peraltro già era stato introdotto, nella passata legislatura, dal Dl 73 del 2021. Solo in mancanza di contratti collettivi sottoscritti da sindacati comparativamente più rappresentativi, si potrà fare riferimento ai casi previsti dai "contratti collettivi applicati in azienda" e, in via transitoria sino al 30 aprile 2024, ad "esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuata dalle parti". Viene, infine, riproposta la possibilità di assumere a termine per la "sostituzione di altri lavoratori".
A regime, quindi, il canale prioritario di individuazione delle causali che legittimano l'apposizione del termine al contratto di lavoro tornerà ad essere la contrattazione collettiva di cui siano parte organizzazioni sindacali qualificate da particolari requisiti di rappresentatività, secondo un collaudato modello che trova le sue origini nell'articoli 23 della legge 56 del 1987. Un modello che, secondo l'opinione prevalente della dottrina, dette buona prova di sé per quasi 15 anni, fino cioè al Dlgs. 368 del 2001, poiché affida all'autonomia sindacale il compito di realizzare un equilibrato contemperamento tra le esigenze di flessibilità delle imprese e la tutela dei lavoratori, limitando allo stesso tempo le incertezze – e il contenzioso – derivanti dall'utilizzo di causali generali stabilite dalla legge ed aventi contenuto non sufficientemente specifico e determinato.
A ciò deve aggiungersi che il Dl 48 del 2023 non "tocca", e quindi mantiene invariati, tutti gli altri limiti che sono previsti dalla disciplina vigente al fine di prevenire gli abusi nell'utilizzo dei contratti a tempo determinato, i quali riguardano la durata massima (che non può superare i 24 mesi), le proroghe, i rinnovi, e il tetto complessivo dei lavoratori che ciascun datore di lavoro può assumere a termine.
Ed allora, non si può non ricordare anche che il complesso di tali limiti rappresenta un sistema di prevenzione degli abusi che non solo è conforme a quanto previsto dall'Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, ma risulta anche più articolato ed incisivo di quello "minimo" imposto dallo stesso Accordo quadro.