Decreto lavoro, note sul contratto a termine
In anteprima da Guida al Lavoro n. 22 del 26 maggio 2023
Qualche prima osservazione sulla normativa (sperimentale) in tema di contratti a termine
Il cd. Decreto lavoro (D.L. 48/2023) contiene, come ormai di abitudine, una serie di normative eterogenee, prive di un disegno e di elementi comuni che non sia la intenzione di segnalare un primo attivismo del governo su alcuni temi caldi del diritto del lavoro.
Non poche di queste norme sono dichiaratamente temporanee per vari motivi: la mancanza di risorse sufficienti, nel caso della riduzione del cd cuneo sul lavoro, la (comprensibile) considerazione della opportunità di sperimentare la nuova normativa, nel caso dei contratti a termine.
Il cuneo fiscale
A proposito del cuneo sul lavoro mi preme rilevare come la necessità di rendere strutturale la sua riduzione sia riconosciuta dagli stessi proponenti, in quanto essenziale per garantire la credibilità e la possibile efficacia dell'intervento.
Come è noto, riduzioni simili del cuneo sul costo del lavoro sono state decise anche in passato, nel 2015 dal Jobs act del governo Renzi e prima ancora nel 2007 dal governo Prodi, con lo stesso obiettivo di alleviare il peso fiscale sui fattori produttivi, lavoro e impresa.
Ma le analisi del passato ci indicano che l'impatto di tali interventi, anche quando erano relativamente stabili, sull' occupazione è risultato alquanto incerto e temporaneo.
In questa nota vorrei fare qualche prima osservazione sulla normativa (sperimentale) in tema di contratti a termine e un breve accenno alla nuova configurazione del reddito minimo, mettendolo in relazione con la recente raccomandazione in materia del Consiglio europeo.
L'intervento sulla disciplina del contratto a termine
L'intervento sulla disciplina del contratto a termine, mentre lascia invariati i limiti quantitativi (20% dell'organico) e di durata (24 mesi) in vigore, rivede drasticamente il sistema delle causali (ri)regolato da ultimo dal cd. decreto dignità (87/2018).
Siamo di fronte a una ennesima modifica di politica legislativa che conferma i contrasti (anche ideologici) accumulatisi negli anni in questa tormentata materia.
L' art 24 del nuovo decreto contiene disposizioni tra loro diverse.
In una prima parte riprende una norma già anticipata nel 2021, che aggiungeva alle causali del decreto dignità quelle introdotte dalla contrattazione collettiva in relazione a esigenze da questa individuate.
Riaffermata la acausalita del primo contratto sino a 12 mesi, il decreto riconosce, stabilmente, alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare i casi in cui è possibile apporre un termine di durata superiore ai 12 mesi, nonché prorogare un contratto oltre tale termine ovvero procedure a un rinnovo, ferma restando comunque, come riconosce lo stesso decreto, la causale sostitutiva.
Nell' assegnare tale compito alla contrattazione collettiva la versione finale del decreto, diversamente dalle prime bozze, non fa alcun riferimento a esigenze tecniche organizzative e produttive, né fornisce altre indicazioni sul contenuto delle future clausole contrattuali.
Da tale assenza desumo anche io, come altri (G. Falasca, Il Sole 24 ore, 8 maggio 2023) che questo sia un chiaro segnale di voler dare una delega ampia alle parti sociali. Una tale scelta corrisponde del resto all'obiettivo comune all'intervento del 2021 (dl.73/2021) di conferire all'istituto del termine la possibilità di essere regolato con una flessibilità negoziata.
Gli accordi collettivi di vario livello, nazionale e decentrati, potranno dunque indicare causali contenenti parametri oggettivi di vario genere rispondenti alle esigenze di flessibilità apprezzate collettivamente.
Per corrispondere alla indicazione legislativa, alle parti si richiede di fornire una esplicitazione dei criteri giustificativi del termine, nella misura del ragionevole.
Questi criteri, già presenti nelle esperienze passate, potranno riguardare situazioni aziendali o periodi dell'anno particolari, necessità di singoli settori, avvio di nuove attività, incrementi di produzione e commesse improvvise; ma si deve ritenere anche situazioni o esigenze soggettive dei lavoratori.
La possibilità di una simile scelta è stata in passato controversa, ma ha ricevuto conferma in alcuni contratti collettivi (vedi il testo di A. Bottini, Il Sole 24 ore, 4 maggio 2023) che menziona i contratti del credito, del settore assicurativo e della logistica, ove sono menzionate causali soggettive quali quelle relative a giovani, disoccupati, lavoratori svantaggiati, donne provenienti da aree svantaggiate.
Se è vera la premessa circa la ampiezza della delega legislativa, le scelte della contrattazione così esplicitate dovrebbero sottrarsi a possibili censure da parte della giurisprudenza.
Un problema delicato e inedito sorge peraltro a seguito della indicazione del decreto che fa riferimento in primis lett a) ai contratti collettivi di cui all' articolo51 del decreto 81/2015, e in assenza delle previsioni di cui alla lett a) ai contratti collettivi applicati in azienda.
Questa seconda disposizione risulta a mia conoscenza senza precedenti nella scelta di attribuire un potere normativo a contratti collettivi non qualificati dalla (maggiore) rappresentatività delle parti stipulanti.
Le norme che da anni attribuiscono funzioni regolative di vario genere ai contratti collettivi hanno sempre richiesto la maggiore rappresentatività dei negoziatori, anzi una rappresentatività comparativamente valutata, come garanzia del corretto esercito di poteri che incidono su situazioni soggettive delle parti.
La diffusione di contratti collettivi conclusi da attori privi di consistenza rappresentativa è ampiamente testimoniata dal' archivio dei contratti presente al Cnel, così come la possibilità che tali contratti non diano affidamento di rappresentare bene le ragioni del lavoro con le tutele necessarie.
Una lettura diversa evita questa conseguenza argomentando che la norma in questione si riferirebbe pur sempre ai contratti collettivi maggiormente rappresentativi applicati in azienda, ma questa conclusione equivale a disattendere del tutto il testo della norma.
La lettera b) della norma stabilisce inoltre che, in mancanza di disposizioni presenti in questi contratti collettivi, nell' ordine lettera a) e b), e comunque entro il 30 aprile 2024, la introduzione del termine è ammessa per esigenze di natura tecnica organizzativa o produttiva individuate dalle parti (oltre al caso di esigenze sostitutive).
La formulazione della norma è anche in questo caso distante dalla impostazione tradizionale del nostro diritto del lavoro, perché in una prima parte fa riferimento a un tipo di causale già noto, (vari commentatori hanno richiamato il cd. causalone del passato) e nella seconda parte affida alle parti il potere di definire il contenuto della causale normativamente definita.
Si è sostenuto che una simile scelta sarebbe motivata dalla volontà di dare tempo ai contratti collettivi, fino al termine fissato dell'aprile 2014, di attrezzarsi per predisporre adeguate normative sulle causali. Non so valutare la fondatezza di tale argomento. Al riguardo rilevo solo che vari contratti collettivi precedenti alla attuale normativa contengono già indicazioni utili sulle causali, che con ogni probabilità devono ritenersi ancora operanti dopo l'intervento del nuovo decreto, in considerazione del favor da questo attribuito alla autonomia collettiva (così, fra gli altri, A. Maresca). Resta il fatto che la novità non è di poco conto.
Tale novità esprime la tendenza a ridare valore al contratto individuale nella regolazione dei rapporti di lavoro, e più in generale sembra rispondere alle spinte alla individualizzazione dei rapporti emergenti non solo nel mondo del lavoro, ma in altri aspetti della società e della vita attuale.
La giustificazione, non sempre esplicitata ne convincente, di questa tendenza nella nostra materia consisterebbe nelle novità del contesto oggettivo e personale in cui si svolge il lavoro nella nuova economia: la maggiore consapevolezza e le più diffuse conoscenze dei lavoratori, le esigenze di orientare produzione e lavoro verso obiettivi di sostenibilità e di qualità, e il fatto che le nuove tecnologie con la crescente complessità delle produzioni e degli obiettivi da perseguire richiedono un maggiore coinvolgimento delle persone nell'interesse sia dei dipendenti sia della qualità della produzione.
Queste diverse novità indurrebbero ad attribuire alle scelte individuali dei lavoratori una rilevanza diretta nelle scelte riguardanti le proprie vicende di lavoro, quella che era negata nella tradizione del diritto del lavoro che lo ha voluto tipicamente inderogabile dalle parti individuali a tutela del contraente debole.
Una simile tendenza a valorizzare le scelte personali si può rinvenire nella normativa sul cd. lavoro agile (legge 81/2015) che attribuisce al contratto individuale la facoltà di definire aspetti del rapporto fra le parti quali l'esercizio dei poteri di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa all'esterno dell'azienda, oltre ai tempi di riposo del lavoratore, l'uso degli strumenti utilizzati e le misure per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche.
Non mi soffermo ora su una valutazione di merito circa la opportunità come sui rischi di queste tendenze e circa la fondatezza delle giustificazioni addotte, su cui ho ragionato in altra sede (nel Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, firmato con Bruno Caruso e Riccardo del Punta).
Rilevo però che la norma del decreto in esame pone aspetti di particolare criticità anche rispetto ad altre manifestazioni della tendenza sopra ricordata.
Le questioni su cui dovrebbe intervenire il contratto individuale sono più gravide di conseguenze per il lavoratore di quelle riguardanti la gestione del lavoro agile. Quando è in gioco la scelta fra stabilità e precarietà del rapporto la capacità di interlocuzione e di decisione del lavoratore è (strutturalmente) limitata anche per le asimmetrie informative fra le parti su materie tecniche e organizzative rientranti nelle competenze e nelle conoscenze del management sottratte alle possibilità di controllo del singolo lavoratore.
In ogni caso la norma solleva problemi applicativi che si prestano a interpretazioni diverse, persino opposte.
Da una parte si può sostenere che il decreto sancisce la fine del causalone e il ritorno alla a- causalità del Jobs Act (M. Sacconi, in Bollettino Adapt, 8 maggio 2023); questo perché il potere attribuito alle parti individuali di individuare le esigenze tecniche organizzative e produttive di cui alla prima parte della norma ne vanificherebbe il contenuto precettivo.
A una simile posizione, che segnerebbe un ritorno alla generale acausalità del contratto a termine, si sono contrapposte letture diverse e ritengo più equilibrate che hanno cercato di integrare fra loro le due diverse indicazioni legislative per ottenere una soluzione convincente.
Nella ricerca di una simile integrazione non si potrà prescindere dalla considerazione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza relativi all'interpretazione della precedente formulazione legislativa delle causali, ora rinverdita: una formula rivelatasi già allora di incerta decifrazione, come mostrano le risultanze del numeroso contenzioso.
Ritengo che ora non si tratta solo di riprendere ed eventualmente di aggiornare quei criteri, ma di leggerli in rapporto alle indicazioni del contratto individuale.
Qui l'interprete è chiamato a un esercizio diverso dal passato, perché non dovrà solo apprezzare il significato della vecchia normativa di legge, ma inoltre confrontarlo con le indicazioni del contratto individuale.
La nuova normativa richiede, come la precedente, di valutare il significato dello standard normativo sulle causali nel concreto di ogni situazione produttiva contemperando le esigenze della produzione con la stabilità del lavoro che è tutelata dal legislatore quando ha fissato il principio della normale durata a tempo indeterminato dei rapporti. Ma oltre a operare tale valutazione, l'interprete è chiamato ad adattare il significato della norma mettendolo a confronto con la logica espressa dal singolo contratto fra le parti, che può riflettere valutazione specifiche e persino contingenti difficilmente assoggettabili a giudizi standard.
Per questo si è osservato (Falasca, cit.) che sarà opportuno evitare descrizioni generiche e descrivere in modo preciso gli elementi oggettivi, tecnici organizzativi e produttivi, che giustificano il ricorso al termine in modo altrettanto dettagliato dovrebbero essere esposte le eventuali ragioni soggettive da considerare, a cominciare dall'impatto positivo o negativo che il termine e il suo allungamento oltre i dodici mesi possono avere sulla condizione del lavoratore.
Ma il carattere di queste ragioni personali le rende difficilmente apprezzabili e comparabili con quelle aziendali.
Cosicché non sarà facile trovare criteri in qualche modo oggettivabili per giustificare la decisione del caso concreto alla stregua del nuovo tipo di bilanciamento di interessi delle parti richiesto dalla norma.
Tanto è vero che non mancano interpretazioni, opposte a quelle favorevoli a una deregolazione completa della questione causali, che viceversa considerano la norma come un ritorno puro e semplice al causalone, con il correlato rischio di riattivazione del contenzioso giudiziario (A. Bottini, cit.).
C'è da augurarsi che il periodo di sperimentazione di questa parte della norma, stabilito fino ad aprile prossimo 2024, serva a valutare l' impatto di questa apertura di credito alla autonomia individuale, in particolare a verificare se le modificate condizioni di contesto sopra ricordate possano favorire una applicazione della nuova normativa meno afflitta da contenzioso e da abusi di quelle sperimentate con le precedenti variabili versioni delle causali. Così pure si potrà vedere se l' anno di prova possa darà tempo alla contrattazione specie aziendale di prepararsi a esercitare con consapevolezza la delega attribuitale dalla legge in questa delicata materia.
Al riguardo mi sento di ripetere l'auspicio che questo nuovo episodio normativo lasci spazio a interventi più organici e meditati nella regolazione del lavoro, la quale abbisogna non di aggiustamenti parziali e di dettaglio, ma di revisioni di aspetti fondamentali e delle stesse categorie portanti su cui la nostra materia si è fondata nel secolo scorso.
In particolare il ruolo ancora una volta riconosciuto alla contrattazione collettiva di regolazione del lavoro e di sostegno alla autonomia individuale dovrebbe suggerire di riaprire il capitolo da tempo abbandonato di come utilizzare la legge e le politiche pubbliche per rafforzare l'autorevolezza e la capacità regolativa delle parti sociali.
Sollecitazioni in tal senso provengono dalle iniziative recenti delle autorità europee (Commissione e Parlamento) in materia sociale, su temi critici come la fissazione di salari minimi adeguati e la regolazione /controllo del lavoro su piattaforme digitali.
Tali sollecitazioni hanno rilievo specifico per la situazione italiana che, pur manifestando ancora una significativa tenuta, soprattutto difensiva, delle relazioni industriali, presenta ancora un vuoto normativo nella identificazione dei criteri di rappresentatività degli attori negoziali, oltre che nel sostegno alla efficacia dei contratti collettivi.