Il congedo di paternità diventa obbligatorio se richiesto
La norma per i dipendenti neopapà non stabilisce il divieto di impiego
Con la regolamentazione dell'Inps (si veda nt+lavoro del 12 aprile) il congedo dei papà va a regime. Sono serviti otto mesi all'istituto per emanare il messaggio 1356/2023 contenente le istruzioni, cui si devono attenere i datori di lavoro in talune circostanze. Ci si riferisce al caso in cui i papà lavoratori dipendenti, che hanno fruito del congedo, presentano le dimissioni nel periodo tutelato.
L'Inps – al termine di un lungo periodo di gestazione – sforna le regole e, per il passato, obbliga i datori di lavoro a effettuare una regolarizzazione (per inserire i codici 1S e M400, rispettivamente per indicare il tipo di cessazione e il ticket sui licenziamenti da versare) entro il prossimo 16 luglio. Anche per quest'anno sembra così profilarsi la reiterazione un modus operandi che nel 2022 ha pesato non poco sull'organizzazione dei datori di lavoro, costringendoli a continui ricalcoli. Auspichiamo che nel corso dell’anno si registri un’inversione di tendenza.
Sul congedo di paternità vanno ricordate alcune particolarità. Nonostante molti lo definiscano “congedo obbligatorio” occorre specificare la portata di tale obbligatorietà. Probabilmente, la definizione nasce dal titolo della norma che lo ha introdotto, vale a dire l'articolo 27-bis del Dlgs 151/2001 che lo chiama «congedo di paternità obbligatorio». Tuttavia, esaminando la disposizione, si osserva che l'obbligatorietà dell'astensione è sancita esclusivamente nella rubrica della stessa. Mai come in questa circostanza, vale il principio “rubrica legis non est lex”.
Volendo fare un parallelo con la legislazione emanata a tutela della maternità (Dlgs 151/2001), si evince, infatti, che la formulazione della norma appare diversa. Per le lavoratrici è il datore di lavoro a essere precettato, visto che l'articolo 16 gli impone il divieto di adibire al lavoro le donne nei periodi che precedono e seguono la nascita del bambino, con le varie articolazioni che nel tempo sono state introdotte. Diversamente, l'articolo 27-bis afferma che il padre si astiene dal lavoro, per 10 giorni lavorativi, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi.
Potrebbe, quindi, verificarsi che il lavoratore non attivi il congedo. In tale circostanza, alcuna responsabilità può ricadere sull'azienda. Conseguentemente, a parere di chi scrive, l'obbligatorietà indicata nella rubrica dell'articolo 27-bis è da intendersi riferita all'impossibilità, per il datore di lavoro, di negare il congedo a seguito della richiesta del dipendente.
Strettamente connesse alla fruizione del congedo, si collocano le tutele che – mutuate dalla legislazione prevista a favore delle lavoratrici madri - si estendono ai lavoratori, ma solo ed esclusivamente se è stato fruito il congedo, e non incondizionatamente. Opera il divieto di licenziamento che, decorrendo dall'inizio del congedo (anche alternativo), si applica sino al compimento di un anno di età del bambino. Il lavoratore, inoltre, non è tenuto a rispettare il preavviso, anzi ha diritto all'indennità sostitutiva; può accedere alla Naspi (ricorrendone i requisiti) e il datore deve versare il ticket licenziamento. Anche queste ultime condizioni operano sino al compimento di un anno di età del bambino e, in ogni caso, solo se è stato attivato il congedo.
Si ricorda, infine, che in caso di dimissioni del lavoratore, intervenute sino al compimento di 3 anni di età del bambino, serve la convalida delle stesse effettuata presso l'Ispettorato nazionale del lavoro.