Le fake news che investono la comunità di lavoro possono incidere sul corretto adempimento del contratto di lavoro e causare danni risarcibili
Quando, nel linguaggio di oggi, si parla di «fake news» il più delle volte non ci si intende riferire semplicemente a notizie false, bensì a quelle notizie non vere sulle quali si basa un’attività di disinformazione, vale a dire la diffusione di notizie che si sa essere mendaci o, quanto meno, non verificate, con il fine di orientare le opinioni e, quindi, i comportamenti dei destinatari.
Le fake news vengono propalate sfruttando la forza penetrativa e persuasiva dei social media e degli strumenti telematici, attraverso i quali si veicolano non soltanto scritti ma pure profili personali, immagini, video alterati con l’uso di tecniche di editing in grado di modificare la rappresentazione della realtà o la sua percezione.
Il fenomeno, per il quale le emozioni così suscitate tendono a contare più dei fatti (le «post verità»), è oggetto di ricorrente attenzione quando la disinformazione viene attivata su larga scala, per lo più per fini di propaganda politica o di pubblicità concorrenziale. Ma la disinformazione può manifestarsi anche in ambito aziendale, investendone la comunità di lavoro e, quindi, interessando il diritto del lavoro.
Fake news che danneggiano il lavoratore
Le fake news diffuse nella comunità di lavoro possono avere un impatto sconvolgente sulla vita lavorativa, familiare e sociale di un lavoratore. Anche se fondate neppure su fatti alterati ma soltanto su bieche credenze irrazionali: basti ricordare, ad esempio, come la diceria di «portar male», diffusa nel mondo dello spettacolo, abbia grandemente ostacolato l’attività lavorativa perfino a grandi artisti.
La disinformazione può avere ad oggetto aspetti rilevanti del rapporto di lavoro, basandosi ad esempio su fake news riguardanti i motivi della cessazione di un contratto lavorativo, l’«intesa» con un’azienda concorrente per rivelare fatti interni riservati, la progressione di carriera dovuta a favori o raccomandazioni. O può riguardare la vita privata del dipendente, ad esempio basandosi su fake news riguardanti l’abuso di alcol o di sostanze stupefacenti, gli orientamenti e le pratiche sessuali, i problemi di salute.
Questa disinformazione può tradursi sia in illeciti civili che in reati.
Basterà ricordare, sul piano civilistico, la responsabilità extracontrattuale regolata dall’art. 2043 cod. civ., secondo cui qualunque fatto doloso o colposo che causa ad altri un danno ingiusto obbliga chi lo ha commesso a risarcire il danno; sul piano penalistico, la diffamazione sanzionata dall’art. 595 cod. pen., che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.
Sul piano del diritto del lavoro la norma-cardine alla quale fare riferimento è quella dettata dall’art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Sotto la luce di questa disposizione qualora, come quasi sempre avviene, la vittima della disinformazione abbia patito un danno alla salute, poco importa, nell’economia del contratto di lavoro, chi sia l’autore - o gli autori - della diffusione delle fake news, e neppure le finalità cui questa diffusione è diretta. Non rileva nemmeno, in fondo, se la condotta illecita configuri mobbing, straining, ritorsione, discriminazione o altri comportamenti illeciti che possono attuarsi nel contesto lavorativo; perché, al di là della tassonomia e della qualificazione giuridica della condotta, ciò che conta è che «il fatto commesso costituisca un illecito in base all’art. 2087 da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, quali la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica» (Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101).
Il danno, di natura non patrimoniale, è risarcibile in via equitativa secondo la valutazione giudiziale (art. 1226 cod. civ.) e «può essere provato ed accertato mediante il ricorso a presunzioni, fondate sulla constatazione che la diffusione di notizie false incidenti negativamente sulla reputazione e sull’onore è causa, secondo ragionevoli canoni eziologici probabilistici, di un turbamento morale transitorio e di una ripercussione negativa sulla vita di relazione e sociale» (Trib. Milano 12 maggio 2022, n. 4094, est. Boroni).
Non ha rilevanza che il datore di lavoro sia estraneo alla diffusione delle fake news o ne sia coinvolto: nella prima ipotesi, dovrà dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno al dipendente, non configurando l’art. 2087 una sorta di «responsabilità oggettiva» a suo carico (Cass. 20 luglio 2023, n. 21682), responsabilità la cui sussistenza va pur sempre collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze del momento.
Fake news che danneggiano il datore di lavoro
Nella comunità di lavoro si possono diffondere anche fake news atte a danneggiare il datore di lavoro, tanto nei suoi rapporti con il personale che nei suoi rapporti con il pubblico. Si possono, ad esempio, veicolare informazioni inveritiere o ingannevoli riguardanti la sicurezza degli impianti, le condizioni di lavoro e ambientali, presunte crisi finanziarie, molestie sessuali, la qualità dei prodotti, le prospettive di fusioni societarie o di acquisizioni, i rapporti con la pubblica amministrazione.
In queste ipotesi ricorre per i responsabili della disinformazione la responsabilità da fatto illecito configurata dall’art. 2043, mentre pare da escludere la fattispecie degli atti di concorrenza sleale commessi da «chiunque si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai princìpi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda» (art. 2598, n. 3, cod. civ.) in quanto per la giurisprudenza assolutamente prevalente l’applicazione della normativa è subordinata al verificarsi dell’ulteriore circostanza che danneggiante e danneggiato siano in rapporto diretto di concorrenza, costituendo il «rapporto di concorrenzialità» il presupposto soggettivo di applicazione della norma (Cass. 8 maggio 2023, n. 12092).
Il concorrente potrebbe però avvalersi dell’attività di disinformazione promossa da un dipendente o ex dipendente dell’azienda danneggiata. In questa ipotesi non potrà escludersi la configurabilità dell’illecito concorrenziale sol perché l’atto lesivo viene posto in essere da un soggetto, il lavoratore «terzo interposto», il quale, pur non possedendo i necessari requisiti soggettivi, non essendo cioè il concorrente del danneggiato, agisca per conto di - o d’intesa con – quest’ultimo; in tal caso il lavoratore andrebbe legittimamente ritenuto responsabile in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31203). Se, poi, terzo interposto fosse un dipendente dell’imprenditore avvantaggiato, quest’ultimo risponderebbe della disinformazione ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., che rende i datori di lavoro responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro dipendenti; e ciò anche quando l’attività non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni di costoro, risultando sufficiente un nesso di occasionalità necessaria per avere il lavoratore agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (Cass. 22 settembre 2015, n. 18691).
Quando le fake news vengono diffuse anche fuori dell’ambito aziendale, sotto il profilo della responsabilità penale, oltre alla diffamazione, possono configurarsi reati contro il patrimonio - la truffa (art. 640 cod. pen.) o la frode informatica (art. 640-ter cod. pen.) - oppure reati contravvenzionali quali la pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico (art. 656 cod. pen.) oppure l’abuso della credulità popolare (art. 661 cod. pen.), che si commette quando si cerca pubblicamente, «con qualsiasi impostura», di perpetrare l’abuso, se dal fatto deriva un turbamento dell’ordine pubblico. In base all’interpretazione prevalente, falsa è la notizia non corrispondente al vero, esagerata è la notizia che riporta il fatto in maniera iperbolica amplificandone il significato, tendenziosa è la notizia deformata in modo da non corrispondere alla realtà: nozioni che, tutte, possono ricondursi nel linguaggio comune a quella di fake news.
Se la disinformazione extraziendale turba l’integrità psicofisica o la personalità morale dei dipendenti, la loro salute o quella di alcuni di loro, si ricade nella sfera di efficacia dell’art. 2087, con le conseguenze già viste in materia di responsabilità del datore di lavoro nella disinformazione endoaziendale.
La diffusione di fake news da parte di un dipendente può integrare violazione dell’obbligo di fedeltà qualora costituisca il mezzo, come sancito dall’art. 2105 cod. civ., per trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con il datore di lavoro, per divulgare false notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione o comunque per farne uso in modo da potergli recare pregiudizio. Nella sua declinazione prevalente, che pone l’accento più sul significato di «rispondere alla fiducia» che su quello di «essere fedele», l’obbligo di fedeltà si traduce nell’obbligo di un leale comportamento del dipendente nei confronti del datore di lavoro e, in tale accezione, si ricollega alle regole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.). Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai suindicati comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105, ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nell’organizzazione datoriale o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi perseguiti nell’impresa dal datore di lavoro o comunque siano idonei a ledere il presupposto fiduciario del rapporto lavorativo (Cass. 16 novembre 2022, n. 33803).
Il contrasto alla disinformazione nei rapporti di lavoro
L’evidenza che quando la diffusione di fake news in ambito lavorativo causa danni il più delle volte il datore di lavoro è chiamato a risarcirli, quando non a patirli, dovrebbe orientare alla prevenzione della disinformazione da realizzare, con approccio multiforme, mediante strumenti formativi, organizzativi e sanzionatori.
Sul piano formativo, va posto in evidenza che, oltre al danno reputazionale, la disinformazione è spesso foriera di danni alla salute. Per il D.Lgs. n. 81/2008 la salute è da intendere come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità» (art. 2, comma, 1, lett. o); il datore di lavoro deve assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di salute (art. 37, comma 1), il cui contenuto dev’essere facilmente comprensibile per i lavoratori (art. 37, comma 13). La formazione dovrebbe quindi includere anzitutto l’alfabetizzazione mediatica e, poi, il controllo dei fatti, la regolamentazione dei contenuti online e offline, l’individuazione di fonti di informazione affidabili, l’educazione alla riservatezza e al rispetto della personalità altrui, a prescindere dalla collocazione dei componenti della comunità di lavoro nella scala gerarchica sulla quale è costruita l’organizzazione aziendale.
Sul piano organizzativo il «codice etico 231» (art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 231/2001), redatto nell’ambito dell’adozione del modello di organizzazione e di gestione, potrà ricomprendere tra i princìpi ispiratori il divieto di diffondere notizie false sia all’interno che all’esterno dell’azienda concernenti l’ente, i suoi dipendenti, i collaboratori ed i terzi che per essa operano, gli stakeholders in genere. Com’è ovvio occorre restare nei confini dell’area di legittimità segnati dalla normativa legale, con particolare riferimento agli artt. 4 e 8 Stat. Lav. in materia, rispettivamente, di impiego degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività lavorativa e di divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori.
Sul piano sanzionatorio il codice disciplinare aziendale (art. 7 Stat. Lav.) potrà configurare la diffusione di notizie false in ambito aziendale o extraziendale come infrazioni disciplinari, a prescindere dalla sua rilevanza o irrilevanza penale, e ricollegare a queste infrazioni sanzioni disciplinari adeguate a dissuadere i dipendenti dal porre in essere siffatta condotta e, comunque, dal reiterarla; potrà inoltre prevedere come infrazione disciplinare la comunicazione di violazioni di disposizioni normative al di fuori dei canali di segnalazione interna ed esterna individuati dal D.Lgs. n. 24/2023 in materia di whistleblowing. Per gli altri collaboratori la diffusione potrà essere configurata come inadempimento contrattuale nelle fonti negoziali che disciplinano i rispettivi rapporti.
I limiti che l’ordinamento pone alla potenziale pervasività dei controlli datoriali segnano la sottile linea di demarcazione tra poteri del datore di lavoro e diritti dei lavoratori. E poiché non esiste un monopolio nella fabbricazione delle fake news, nel senso che a questa attività possono dedicarsi sia coloro che si trovano al di qua del confine che chi si trova al di là, il discernimento è una facoltà che entrambe le parti del rapporto di lavoro dovrebbero essere formate ad esercitare, tenendo a mente che nel tempo definito da qualcuno degli «stupidi bene informati» è dietro ogni angolo il rischio di scambiare il metaverso per l’universo.
Senior partner dello Studio Montemarano, avvocati in Roma e Milano