Il risarcimento congruo e quello automatico sono uguali
La Corte d'appello di Torino - con la sentenza 316 del 30 maggio 2019 - si è pronunciata in merito al licenziamento collettivo intimato in violazione della procedura prevista dall’articolo 4, comma 9, della legge 223/1991 ad alcune lavoratrici in regime di Jobs act.
Le dipendenti, assunte il 1° novembre 2015 a seguito del subentro della società in un appalto (il medesimo presso il quale le ricorrenti avevano già prestato attività lavorativa alle dipendenze di altre due società appaltatrici), hanno impugnato il licenziamento intimato al termine della procedura di mobilità avviata l’11 dicembre 2015, domandando il pagamento dell'indennità risarcitoria prevista dagli articoli 10, 3 e 7 del Dlgs 23/2015 (ante decreto dignità) in misura pari a 24 mensilità.
Il tribunale di Torino ha dichiarato risolti i rapporti di lavoro ritenendo tuttavia viziati i licenziamenti in quanto la comunicazione ex articolo 4, contenente l'indicazione delle modalità con le quali erano stati applicati i criteri di scelta, è stata inviata dalla società agli organi competenti oltre il termine di sette giorni.
Il giudice di primo grado, pronunciandosi in epoca antecedente rispetto alla sentenza 194/2018 della Consulta, ha condannato la società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 24 mensilità per ciascuna ricorrente, indennità calcolata matematicamente sulla base dell'intera anzianità di servizio (12 anni) maturata dalle lavoratrici nell'ambito dell'appalto.
La società ha proposto ricorso avanti la Corte d'appello di Torino censurando la sentenza sotto due profili: da un lato, per aver il tribunale attribuito natura perentoria e cogente al termine previsto dall'articolo 4, comma 9, della legge 223/1991 e, dall'altro, per aver ritenuto applicabile l'articolo 7 del Dlgs 23/2015 in tema di computo dell'anzianità di servizio negli appalti, nonostante l'articolo 10 del medesimo decreto, nel disciplinare le conseguenze sanzionatorie in caso di licenziamento collettivo intimato in violazione della procedura, non richiami espressamente tale articolo, ma esclusivamente l'articolo 3, comma 1.
La Corte d'appello ha rigettato il ricorso rilevando, quanto al primo motivo d'appello, che «al precedente concetto di contestualità il legislatore del 2012 ha sostituito il termine di sette giorni...assegnando un parametro certo» che «assume quindi natura cogente e perentoria» e, quanto al secondo motivo, che «nell'ipotesi di avvicendamento delle imprese in appalti», il legislatore ha chiaramente disposto che per il calcolo dell'indennità risarcitoria in caso di licenziamento (sia individuale che collettivo) occorra «tenere conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell'attività appaltata».
Il percorso logico giuridico della Corte risulta senza dubbio lineare e condivisibile. Sennonché appare interessante rilevare come la Corte d'appello, nella quantificazione dell'indennità risarcitoria, si sia dovuta “uniformare” alla sentenza 194/2018 della Corte costituzionale, pubblicata nelle more del giudizio.
Ebbene - nonostante la dichiarata illegittimità costituzionale del rigido meccanismo di quantificazione dell'indennità risarcitoria previsto dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015 - la Corte d'appello è giunta, per altra via, a quantificare l'indennità spettante alle lavoratrici negli stessi termini del giudice di primo grado.
La Corte ha utilizzato, per la relativa quantificazione, i criteri stabiliti dall'articolo 8 della legge 604/1966, ossia l'anzianità di servizio, il numero di dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica nonché le condizioni delle parti: sennonché il calcolo matematico effettuato dal tribunale e la “congruità” in applicazione dei criteri adottati dalla Corte d'appello hanno incredibilmente condotto allo stesso risultato, ovverosia la corresponsione alle lavoratrici della massima indennità possibile.