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La reperibilità costituisce orario di lavoro?

La recente giurisprudenza della CGUE e della Cassazione, in mancanza di una definizione o una disciplina dell'istituto della reperibilità, offrono una risposta fornendo i criteri per distinguere quando un periodo di reperibilità costituisce orario di lavoro

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di Ornella Patanè e Franco Toffoletto

In anteprima da Guida al Lavoro n. 48 del 2 dicembre 2022

Il periodo di tempo in cui, al di fuori del suo orario di lavoro, il dipendente rimane reperibile e contattabile per eventuali richieste di svolgimento della prestazione lavorativa, costituisce orario di lavoro?
La questione riguarda alcune categorie di lavoratori, quali, ad esempio, i medici di guardia, i tecnici addetti ad impianti ovvero i vigili del fuoco.
Tale quesito non trova risposta nella legge, poiché né la Direttiva europea sull'orario di lavoro né la disciplina interna di attuazione della stessa, prevedono una definizione o una disciplina dell'istituto della reperibilità.
Una risposta, invece, la ritroviamo nell'elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la quale, in diverse sentenze, ha individuato i criteri che consentono di distinguere quando un periodo di reperibilità costituisce orario di lavoro; a tale orientamento si è uniformata anche la Corte di Cassazione italiana.

La definizione di orario di lavoro nel diritto europeo e interno
L'attuale disciplina sull'orario di lavoro deriva dall'attuazione in Italia della Direttiva europea 2003/88, e successive modifiche, con il d. lgs. n. 66/2003.
La definizione di orario di lavoro contenuta nell'art. 1, comma 2, lett. a), d. lgs. n. 66/2003 è la seguente: è orario di lavoro «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni».
Tre sono, quindi, i requisiti necessari per la qualificazione dell'orario di lavoro: 1) essere al lavoro ovvero nel luogo di lavoro determinato dal datore di lavoro; 2) essere a disposizione del datore di lavoro; 3) esercitare la propria attività lavorativa o le proprie funzioni. Se ricorrono tutti e tre tali elementi, sicuramente si rientra nella nozione di orario di lavoro.
L'assenza di tutti e tre gli elementi qualificatori dell'orario di lavoro individua, a contrario, il periodo di riposo (art. 1, comma 2, lett. b), d. lgs. n. 66/2003), definito come «qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro»: si tratta, all'evidenza, di nozioni che si escludono reciprocamente.
Quid iuris, invece, qualora ricorrano solo alcuni degli elementi definitori dell'orario di lavoro di cui sopra, come nel caso in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro, senza necessariamente svolgere la prestazione lavorativa? Tale periodo, di reperibilità o disponibilità, costituisce orario di lavoro e come tale va retribuito oppure rientra nella nozione di periodo di risposo? Come vedremo nei successivi paragrafi, la risposta a tale domanda non può prescindere dai limiti all'orario di lavoro e dalla durata inderogabile dei risposi posti alla base delle decisioni della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione.
La durata dei riposi è, infatti, prevista inderogabilmente dalla legge nella misura di (i) undici ore consecutive ogni 24 ore «fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità» e di (ii) almeno ventiquattro ore consecutive ogni sette giorni, salvo le eccezioni elencate dalla legge. All'interno dell'orario di lavoro, il dipendente ha altresì diritto a delle pause «ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo».
La legge definisce, infine, la nozione di riposo adeguato come: «il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di risposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza della fatica o di altri fattori che perturbano l'organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine».

L'interpretazione della Corte di Giustizia
Già sotto il vigore della precedente direttiva europea sull'orario di lavoro, 93/104/CE, la Corte di Giustizia si era pronunciata sulla disciplina applicabile ai periodi di reperibilità e di guardia. In particolare, con le sentenze del 3 ottobre 2000 C-303/98 e del 9 settembre 2003, C-151/02, entrambe riguardanti il periodo di guardia dei medici, ove la Corte di Giustizia aveva ben delineato una importante distinzione tra periodo di guardia e periodo di reperibilità, individuando il primo quando: «il lavoratore ha l'obbligo di essere presente in un luogo determinato dal datore di lavoro, all'interno o all'esterno dell'edificio di quest'ultimo, nonché di tenersi pronto a prendere servizio su richiesta del datore di lavoro, ma gli è consentito riposarsi o passare il tempo come vuole quando la sua opera professionale non è richiesta». Il periodo di reperibilità ricorre, invece, quando: «il lavoratore non è obbligato a restare in attesa in un luogo indicato dal datore di lavoro, ma basta ch'egli sia raggiungibile in qualunque momento per poter svolgere in breve tempo i suoi compiti professionali su chiamata».
Nel caso del medico di guardia all'interno delle strutture ospedaliere, la Corte di Giustizia, nelle sentenze citate ha ritenuto che ricorressero due degli elementi qualificatori dell'orario di lavoro, ovvero 1) essere nel luogo di lavoro determinato dal datore di lavoro; 2) essere a disposizione del datore di lavoro.
La presenza di entrambi tali elementi, anche senza una effettiva prestazione lavorativa ed anche se nei periodi di guardia sia consentito ai medici di riposarsi in assenza di chiamata, comporta che tale periodo rientri nella nozione di orario di lavoro. Invero, dal momento che durante i periodi di guardia, i medici restano lontani dal loro ambiente familiare e sociale e beneficiano di una minore libertà di gestione del tempo in cui non viene richiesta l'attività lavorativa, tali periodi non possono ritenersi di riposo.
In entrambi i casi, la Corte di Giustizia ha, quindi, deciso che «un servizio di guardia che un medico svolga secondo il regime della presenza fisica in ospedale va considerato come rientrante interamente nell'orario di lavoro […], anche qualora all'interessato sia consentito riposare sul luogo di lavoro durante i periodi in cui non è richiesta la sua opera».
Più di recente, la Corte di Giustizia si è trovata a giudicare se rientri o meno nella nozione di orario di lavoro la fattispecie più complessa del periodo di reperibilità (e non di guardia) ovvero del periodo in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro ma in un luogo di sua scelta. In tal caso, rispetto alla nozione di orario di lavoro, è presente solo l'elemento qualificatorio dell'essere «a disposizione del datore di lavoro», ma in un luogo scelto dal lavoratore, il quale viene chiamato a svolgere la prestazione lavorativa solo occasionalmente.
In particolare, nel corso del 2021 la Corte di Giustizia si è pronunciata sul tema con ben 4 sentenze: due del 9 marzo 2021 nelle cause C-344/19 e C-580/19, una del 9 settembre 2021 nella causa C-107/19 ed un'altra dell'11 novembre 2021 nella causa C-214/20.
La fattispecie esaminata nella causa C-344/19 riguarda un tecnico specializzato che lavora in centri di trasmissione sloveni, il quale, dopo l'orario di lavoro, rimane, per sei ore al giorno, in regime di reperibilità. In tale periodo, il lavoratore può lasciare il centro di trasmissione, ma deve essere raggiungibile per telefono e, se necessario, ritornare sul luogo di lavoro entro il termine di un'ora.
La fattispecie esaminata, invece, nella causa C-580-/19 riguarda un vigile del fuoco tedesco che durante il periodo di reperibilità chiamato «Beamer vom Einsatzleitdienst» («BvE») è tenuto a rispondere alle chiamate con conseguente necessità di raggiungere, in caso di allerta, i limiti della città di Offenbach am Main, entro 20 minuti, con l'automezzo di servizio, vestendo la tenuta da intervento e avvalendosi dei suoi privilegi in deroga al codice della strada e dei diritti di precedenza.
Per rispondere al quesito posto dai giudici nazionali, la Corte di Giustizia richiama i propri precedenti ed i principî ivi espressi, decidendo che un periodo di reperibilità, pur non imponendo al lavoratore, a differenza del periodo di guardia, di restare sul luogo di lavoro, deve essere qualificato nella sua interezza come orario di lavoro, soltanto qualora i vincoli imposti al lavoratore siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà per questi di gestire liberamente, nel corso del periodo in questione, il tempo in cui non lavora e di dedicarsi ai propri interessi personali. Per contro, qualora i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di reperibilità non siano così intensi e gli permettano di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza limitazioni significative, sarà considerato come orario di lavoro soltanto il tempo in cui venga effettivamente svolta la prestazione lavorativa nel corso di tale periodo.
Sul punto, la Corte di Giustizia precisa che soltanto i vincoli imposti al lavoratore dalla normativa nazionale, da un contratto collettivo o dal datore di lavoro rilevano al fine di valutare l'effettiva limitazione al proprio tempo ed ai propri interessi. Non hanno, invece, alcuna rilevanza, in tal senso, le difficoltà organizzative che non derivino da tali vincoli, ma che siano la conseguenza di elementi naturali o della libera scelta del lavoratore stesso. Ne consegue, che non sono rilevanti di per sé, ad esempio: a) la distanza tra il domicilio liberamente scelto dal lavoratore ed il luogo che egli deve raggiungere in caso di necessità; b) il carattere poco propizio per le attività di svago presenti nella zona da cui il lavoratore non può allontanarsi durante il periodo di reperibilità; c) la difficile accessibilità al luogo di lavoro.
Alla luce di tali principî, il Giudice nazionale dovrà valutare se ricorrano i presupposti per considerare sussistente un orario di lavoro sulla base di un accertamento in fatto dei seguenti elementi:
a) La brevità del termine entro cui il lavoratore deve, in caso di intervento necessario raggiungere il luogo di lavoro ove svolgere la prestazione lavorativa: tanto più breve è tale termine, considerate tutte le circostanze, quanto è più probabile che si tratti di orario di lavoro. Sulla scorta di tale importante elemento è stato considerato orario di lavoro il periodo di reperibilità di un vigile del fuoco belga che durante tale periodo aveva l'obbligo di raggiungere il luogo di lavoro entro otto minuti (C-518/2015).
b) La frequenza media delle prestazioni di lavoro che vengono effettivamente svolte durante i periodi di reperibilità: tanto più alta è la media quanto è più probabile che si tratti di orario di lavoro.
La Corte di Giustizia precisa, infine, che qualora a seguito di un accertamento in fatto, tali periodi non costituiscano orario di lavoro, essi rientrano nei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale. Ma ciò non esclude l'obbligo più generale del datore di lavoro di rispettare le norme sulla salute e sicurezza dei propri dipendenti, avendo cura di evitare ad esempio rischi psicosociali, come lo stress o l'esaurimento professionale. Ne consegue che i datori di lavoro non possano imporre ai propri lavoratori dei periodi di guardia o reperibilità lunghi o frequenti al punto da costituire un rischio per la sicurezza o la salute dei lavoratori stessi, anche qualora tali periodi fossero considerati come «periodi di riposo».
La sentenza della causa C-107/19 riguarda un vigile del fuoco soggetto ad un regime di lavoro su turni, nel corso dei quali questi gode di pause in cui può recarsi alla mensa aziendale, situata a 200 metri dalla sua postazione di lavoro, a condizione che indossi sempre un trasmettitore che lo avvisi in caso di necessità di intervento con obbligo di prendere il veicolo di intervento entro due minuti. La Corte di Giustizia ha ritenuto rilevante nel caso di specie, al fine di definire la reperibilità del vigile del fuoco come orario di lavoro, la durata stessa della pausa, di trenta minuti, che, di fatto, costituisce una limitazione oggettiva e significativa della possibilità per il lavoratore di rilassarsi e dedicarsi ad attività di sua scelta. Pertanto, nonostante in media il lavoratore venisse chiamato ad intervenire solo raramente durante i periodi di reperibilità, la Corte ha ritenuto che tale elemento non potesse portare a concludere che si tratti di periodi di riposo, in quanto l'impatto del termine di due minuti imposto al lavoratore per intervenire in caso di necessità è tale da limitare in modo oggettivo e significativo la sua facoltà di gestire liberamente nel corso di tali periodi il proprio tempo.
Da ultimo la sentenza della causa C-214/20 riguarda un vigile del fuoco discontinuo, impiegato a tempo parziale dal consiglio comunale di Dublino, con obbligo di partecipare al 75% degli interventi. La Corte di Giustizia ha deciso che un periodo di reperibilità effettuato da un vigile del fuoco discontinuo, durante il quale tale lavoratore eserciti, con l'autorizzazione del suo datore di lavoro, una diversa attività professionale autonoma, ma deve, in caso di emergenza, raggiungere la caserma entro un termine massimo di dieci minuti, non costituisca orario di lavoro, se da una valutazione globale di tutte le circostanze del caso di specie (in particolare dall'ampiezza e dalle modalità di tale facoltà di esercitare un'altra attività professionale nonché dall'assenza di un obbligo di partecipare a tutti gli interventi effettuati a partire da tale caserma), risulti che i vincoli imposti a detto lavoratore durante tale periodo non siano tali da incidere obiettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà di quest'ultimo di gestire liberamente, nel corso di detto periodo, il tempo durante il quale le sue prestazioni non sono richieste.

Orientamento della Corte di Cassazione
I principî espressi dalla Corte di Giustizia risultano in linea con gli orientamenti della Corte di Cassazione.
Quest'ultima, infatti, ha inizialmente ritenuto, con particolare riferimento ai dipendenti del comparto sanitario, che «la reperibilità si configuri come una prestazione strumentale e accessoria, qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro e consistente nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato in vista di un'eventuale prestazione lavorativa. Non equivalendo, pertanto, ad un'effettiva prestazione lavorativa, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposto stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal Giudice». Nelle medesime sentenze, la Corte di Cassazione ha precisato che il diritto ad un giorno compensativo in relazione al servizio di reperibilità prestato in un giorno festivo senza effettiva prestazione di lavoro «non trova la sua fonte nell'art. 36 Cost. o nelle normative internazionali, che prevedono il diritto (inderogabile) al riposo settimanale in relazione ad attività lavorativa effettivamente prestata e non ad altre obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro». E ciò in quanto, la reperibilità, pur essendo un'obbligazione che trova causa nel rapporto di lavoro, non può essere equiparata alla prestazione effettiva di attività lavorativa, in quanto «è di tutta evidenza che la mera disponibilità all'eventuale prestazione incide diversamente sulle energie psicofisiche del lavoratore rispetto al lavoro effettivo e riceve una diversa tutela dall'ordinamento» (Cass., sez. Lavoro, 28/06/2011, n. 14288; nello stesso senso, Cass., sez. Lavoro, 6/10/2015, n. 19936, 6/4/2016, n. 6710, 8/4/2016, n. 6912).
Più di recente, la Corte di Cassazione, uniformandosi esattamente alle pronunce della Corte di Giustizia supra descritte, ha ritenuto che il servizio di pronta disponibilità del dirigente medico in giorno festivo debba essere considerato orario di lavoro, in relazione all'obbligo di essere immediatamente e fisicamente presente sul luogo di lavoro in caso di necessità, ciò che limita in modo oggettivo la possibilità del dirigente medico di dedicarsi, in tale periodo, ai propri interessi personali e sociali (Cass., sez. Lavoro, 19/12/2019 n. 34125).
Da ultimo, la Corte di Cassazione è tornata sulla questione con due diverse sentenze (Cass., sez. Lavoro, 27/10/2021 n. 30301 e Cass., sez. Lavoro, 28/10/2021 n. 30587), entrambe riguardanti dipendenti Enel addetti alla diga di Campotosto, che chiedevano il pagamento della retribuzione ordinaria, oltre che il risarcimento del danno biologico, con riferimento alle ore di reperibilità cd. speciale. Nella prospettazione dei lavoratori, infatti: la reperibilità è ordinaria quando consiste nella disponibilità del lavoratore ad essere immediatamente rintracciato durante il periodo di riposo per raggiungere il posto di lavoro e provvedere ad interventi episodici e non prevedibili; mentre la reperibilità cd. speciale è quella connessa all'obbligo legale dei concessionari delle dighe di assicurare la vigilanza continuativa della diga con personale che deve risiedere nelle vicinanze della stessa in un'apposita casa di guardia collegata telefonicamente o con impianto radio con la sede più prossima della concessionaria.
La Suprema Corte ha ritenuto, tuttavia, che tale distinzione e la presenza della legge che impone ai concessionari una certa sorveglianza sulla diga, non comporti, di per sé, la qualificazione del periodo di reperibilità come orario di lavoro. Ritenendo, invece, che, a tal fine, sia rilevante accertare in concreto le modalità di svolgimento del servizio di reperibilità speciale.
A tal riguardo, i giudici di merito avevano accertato che il periodo di reperibilità speciale consistesse nella permanenza dell'addetto alla vigilanza nella casa di guardia, situata a ridosso della diga, senza che fosse richiesto di regola alcun altro incombente se non quello di non allontanarsene per la durata del turno. Eventuali interventi specifici sopravvenuti nel turno venivano pagati come lavoro straordinario e le caratteristiche del turno di reperibilità speciale risultavano compatibili con eventuali svaghi e con intrattenimenti anche familiari atteso che l'unica limitazione imposta era quella di permanere nell'abitazione a disposizione del lavoratore nei pressi della diga e di intervenire in caso di necessità. Evenienza, che, peraltro, nello specifico, non si era mai realizzata.
Alla luce di tale accertamento in fatto, la Suprema Corte si è domandata se la reperibilità speciale fosse compatibile con il riposo del lavoratore inteso come sfruttamento del tempo a disposizione in occupazioni di suo gradimento.
Per rispondere a tale quesito, la Suprema Corte, richiamati i principî enunciati dalla Corte di Giustizia, giunge alla conclusione che il criterio decisivo attiene «alla possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi» e che nel caso di specie «il servizio di reperibilità speciale, pur vincolato nel luogo di espletamento, lasciava libero il lavoratore di riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento anche in compagnia, senza alcun obbligo specifico di vigilanza. Un servizio sostanzialmente di attesa che si attiva solo a seguito di allarme, per il quale era prevista una indennità ed un riposo compensativo, ed in relazione al quale qualunque prestazione eventualmente richiesta sarebbe stata retribuita come lavoro straordinario». La Corte di Cassazione, quindi conclude che la reperibilità speciale rientri tra le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa le quali, a norma dell'art. 16 lett. d) del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66 non possono essere ricomprese nell'orario di lavoro.

Conclusioni
Dai principî espressi dalla Corte di Giustizia e dalla Corte di Cassazione, è possibile concludere che qualora ricorrano due degli elementi qualificatori della fattispecie di orario di lavoro, ovvero durante un periodo di guardia, quest'ultimo costituisce molto probabilmente orario di lavoro, mentre quando il lavoratore si obblighi ad un periodo di reperibilità semplicemente impegnandosi ad intervenire entro un periodo di tempo determinato dal datore di lavoro, il periodo in quesitone costituisce orario di lavoro solo se l'obbligo imposto al lavoratore, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, sia tale da comprimere in maniera significativa ed oggettiva la liberà del lavoratore di riposarsi e di dedicarsi liberamente ad attività extra lavorative.
Una nozione quindi molto flessibile ed ancorata al caso concreto, funzionale all'obiettivo primario di organizzare l'orario di lavoro ed i tempi di riposo in modo da tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori. In altri termini, gli obblighi inderogabili di assicurare al lavoratore determinati tempi di riposo finiscono con il condizionare l'ampiezza della nozione di orario di lavoro, non esistendo nozioni intermedie tra quest'ultima e quella di riposo.