Il CommentoContenzioso

Licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto e discriminazione indiretta

di Pasquale Dui

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile ingenera un contrasto giurisprudenziale circa la possibile configurazione di una discriminazione indiretta a favore del dipendente, in quanto il calcolo nel comporto delle assenze riconducibili allo stato di disabilità è idoneo ad ingenerare una ingiustificata penalizzazione del dipendente, il quale, incolpevolmente, subisce un trattamento deteriore nei riguardi dei colleghi non affetti da patologie invalidanti. La giurisprudenza di merito è addivenuta a decisioni contrastanti sul punto specifico.

In anteprima da Guida al Lavoro n. 6 del 10 febbraio 2022
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Il tema affrontato dal Tribunale di Parma 9 gennaio 2023, n. 1 è quello della computabilità o meno nel periodo di comporto delle assenze per malattia rapportabili all'invalidità del lavoratore.

La questione oggetto di controversia e il suo inquadramento
La giurisprudenza di merito è divisa sul punto e la decisione qui commentata ritiene di aderire a quel filone che ravvisa una discriminazione indiretta nella situazione del dipendente oggetto del provvedimento espulsivo (v., per l'esclusione della discriminazione indiretta, Trib. Lodi 12 settembre 2022).
Questa discriminazione è suggellata dal comportamento del datore di lavoro che computa nel periodo di comporto anche le assenze correlate alla disabilità del lavoratore, sulla base della definizione di discriminazione indiretta, la quale sussiste quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone portatrici di un particolare handicap a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi, secondo la nota definizione contenuta nell'art. 2, lett. b), direttiva 2000/78/CE. Questa disposizione, come noto, è stata trasfusa nel d.lgs. 216/2003, di attuazione della direttiva, nel senso che "sussiste una discriminazione indiretta nel caso in cui una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone" (art. 2, lettera b).
All'orientamento giurisprudenziale che si allinea a questa previsione e classificazione, possono riportarsi diversi orientamenti che valutano la fattispecie sulla base di diversi presupposti e considerazioni.
Infatti, si sostiene, da un lato, che la tutela antidiscriminatoria è esclusa se il lavoratore interessato è adibito a mansioni compatibili con il suo stato di disabilità, in base ad una ragionevole scelta organizzativa del datore di lavoro, prospettando, in questo senso, una condizione di lavoro del tutto assimilabile a quella dei suoi colleghi (App. Palermo 14 febbraio 2022, n. 111; Trib. Bologna 19 maggio 2022, n. 230)
Dall'altro lato, vi è chi ritiene che l'ordinamento giuridico nazionale prevede un complesso supporto di vantaggi e/o tutele da potersi qualificare come compensativo della situazione relativa all'inclusione delle assenze nel periodo di comporto (App. Torino 3 novembre 2021, n. 604; Trib. Milano 23 gennaio 2017, n. 1883).
Da un altro lato, ancora, altra corrente pone l'accento esimente nel comportamento del lavoratore che non renda edotto il datore di lavoro della sua invalidità, in ragione della circostanza conseguente che l'imprenditore dovrebbe essere in grado di attuare i c.d. accomodamenti ragionevoli (Trib. Vicenza 27 aprile 2022, n. 181).

Il compito del Giudice nel vagliare la fattispecie
In questi termini, secondo tale ultima impostazione, il Giudice dovrebbe vagliare la fattispecie sotto un duplice ordine di considerazioni. Verificare se il datore di lavoro abbia o meno adottato soluzioni ragionevoli e accomodatrici nell'inserimento del lavoratore nelle sue mansioni, nella funzione e nel ruolo, nonché verificare il test di legittimità della normativa nazionale, nei riguardi di quella europea, ovvero che gli strumenti adottati per il perseguimento siano tali da non oltrepassare il limite dell'obiettivo perseguito dalla legge stessa.
Tra le tante situazioni da tenere in debito conto nell'espletamento di questa attività di giudizio, riveste una certa importanza anche quella delle fonti contrattuali collettive di riferimento, atteso che molto spesso i CCNL prevedono aggiustamenti nella disciplina del comporto, i quali fanno venir meno il possibile contesto discriminatorio potenzialmente esistente (ad esempio, periodo di comporto molto lungo; considerazione della situazione psico fisica individuale del lavoratore; esclusione di gravi malattie dal computo del comporto e via dicendo). Proprio la decisione del Tribunale di Vicenza ha accolto le richieste dell'azienda, ritenendo che, a fronte del perseguimento della legittima finalità di bilanciamento dei due interessi, il mezzo utilizzato (ovvero la scelta di includere nel comporto i giorni di assenza per malattia legata all'handicap) sia appropriato e proporzionato. In buona sostanza, la malattia del disabile non può sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile e, dunque, non sempre il licenziamento per superamento del comporto del lavoratore affetto da disabilita rappresenta una discriminazione del medesimo.
In linea generale ed astratta, invero, non vi sono ragioni, nell'ordinamento italiano, per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri con riguardo particolare e specifico alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia: il disabile, infatti, non è di per se necessariamente un lavoratore malato, affetto, cioè, da una patologia che imponga assenze " per malattia" .

Disabilità e malattia
Occorre, dunque, distinguere fra disabilita e malattia: la prima attiene alle difficolta funzionali del lavoratore, difficolta che lo pregiudicano nello svolgimento dell'attività lavorativa (in ragione di tale deficit funzionale sono previste le norme sul collocamento obbligatorio, il principio sul ragionevole accorgimento da adottare da parte del datore di lavoro per consentire l'espletamento dell'attività lavorativa).
La malattia riguarda, per contro, lo stato morboso, stato temporaneo, che impedisce in assoluto al lavoratore di prestare l'attività lavorativa.
Da ciò consegue che, per ipotizzarsi una discriminazione indiretta dovrebbe potersi dire che, in generale, il lavoratore disabile, quando si ammala proprio a causa della sua disabilità, viene trattato meno favorevolmente di un altro lavoratore e, tuttavia, tale affermazione non è vera.
Vi sono, infatti, disabili che non sono affetti da patologie che comportano la necessita di assenze legate ad un particolare stato morboso: si pensi ai disabili non vedenti, non udenti, focomelici, privi di arti o ai disabili psichici o affetti da deficit cognitivo: si tratta di soggetti la cui disabilità di per sé, non porta a stati morbosi e, quindi, alla necessita di assentarsi per malattia.
D'altro canto, vi sono lavoratori, affetti da malattie croniche e/o gravi che non sono disabili e che, proprio in ragione di tali patologie, sono soggetti a periodi più o meno lunghi di malattia (si pensi ai malati oncologici, ai diabetici, ai soggetti che soffrono di emicrania o cefalea).
Vi sono poi disabili, come la ricorrente, affetti da patologie che possono generare stati morbosi e, dunque, "periodi di malattia".
Quanto sopra, a parere del tribunale, porta a ritenere - come detto - che la malattia del disabile non possa sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile e che, dunque, il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto attenga, non già allo status di disabilità ma, piuttosto, alla tipologia di malattia.
Occorre, cioè, valutare se, in concreto, quando si verifichi una assenza per malattia, tenuto conto della natura della malattia in relazione alia natura della disabilità, il licenziamento per superamento del comporto comporti una discriminazione del lavoratore.

La decisione del Tribunale
A parere del tribunale, per verificare se, in concreto, nel caso in esame, la norma collettiva attui una discriminazione indiretta della lavoratrice in relazione al computo del comporto come disciplinato dalla contrattazione collettiva, occorre valutare se tale disciplina sia penalizzante per la disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilita.
Nel caso affrontato dalla sentenza il superamento del periodo di comporto si è verificato per una pluralità di eventi morbosi, verosimilmente tutti riconducibili alla disabilità, come emerge dalla CTU espletata.
Il Giudice ritiene che la disciplina del comporto nel caso di specie sia discriminante, tenuto conto:
- del limitato (laddove confrontato con altre previsioni contrattuali) periodo di comporto previsto dal CCNL di settore applicabile al caso di specie;
- della riconducibilità delle assenze della lavoratrice che hanno determinato il superamento dell'ordinario periodo di comporto alle patologie in relazione alle quali l'invalidità e stata riconosciuta;
- della circostanza per cui la maggior parte delle assenze della lavoratrice (dal 13.10.2015 al 26.3.2016) sono successive all'intervento dei tendini della spalla e giustificate dai tempi richiesti per la riabilitazione e il recupero della spalla medesima e, dunque, pur essendo indubbiamente riconducibili all'invalidità riconosciuta alla ricorrente, si giustificano in relazione all'operazione subita e non, per contro, ad uno stato morboso cronico tale da impedire, per una durata non predeterminabile da parte datoriale, lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Sotto tale profilo, in particolare, se e vero che l'art. 2110 c.c., nel disciplinare il licenziamento per superamento del comporto, risponde alla finalità di salvaguardare, non solo il diritto del disabile alla conservazione del posto, ma anche il diritto del datore di lavoro di risolvere il contratto quando la malattia si protragga per un tempo così lungo da far venir meno l'interesse al rapporto di lavoro con il lavoratore, è altrettanto vero che, a fronte delle ragioni che, nel caso concreto, hanno giustificato le assenze, l'esclusione dal computo dei periodi malattia legati alla disabilità non si sarebbe risolto in un onere sproporzionato per il datore di lavoro, non trattandosi, all'evidenza, per le ragioni esposte, di un lavoratore non in grado di garantire la prestazione per un periodo sufficientemente continuativo.