Licenziamento orale e onere della prova
Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Determinazione della retribuzione adeguata
Statura minima e discriminazione indiretta
Licenziamento orale e onere della prova
Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Cass. Sez. Lav. 13 febbraio 2019, n. 4225
Pres. Bronzini; Rel. Leo; P.M. Celeste; Ric. C.E.; Controric. S. S.p.A.
Infortunio sul lavoro - Condotta abnorme del lavoratore – Responsabilità datoriale – Non sussiste
In caso di infortunio sul lavoro la condotta del lavoratore può comportare esonero totale dell'imprenditore da ogni responsabilità, quando presenti i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.
La Corte di Appello di Bologna respingeva il gravame interposto avverso la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno, conseguente all'infortunio occorsogli allorquando, per recuperare una penna, si era calato in una buca adibita alla raccolta di materiali di risulta ed era stato colpito da un masso.
Il lavoratore lamentava al riguardo che la buca non era stata chiusa, né segnalata e deduceva, altresì, la responsabilità datoriale indiretta per il fatto che un altro dipendente, addetto alla raccolta del materiale di risulta, non si era accorto della presenza dell'infortunato.
Avverso la pronuncia di appello proponeva ricorso il dipendente, articolato su cinque motivi.
Il ricorrente sosteneva che la Corte territoriale fosse incorsa in una contraddizione evidente laddove aveva ritenuto che il lavoratore avesse tenuto una condotta abnorme scendendo nella buca "per raccogliere una biro che gli era caduta: quella stessa biro con la quale stava disegnando il gazebo che doveva essere costruito nel luogo" in cui era accaduto l'infortunio. Il lavoratore lamentava, inoltre, che la sentenza impugnata avesse affermato in modo illogico che anche l'eventuale apposizione di una catena di ferro non avrebbe impedito l'accesso dello stesso alla buca.
Parte ricorrente eccepiva, altresì, che la Corte territoriale aveva erroneamente escluso anche una responsabilità datoriale indiretta collegata all'operato di altro dipendente, con mansioni di gruista, addetto alla raccolta del materiale di risulta il quale, nello spostare dei sassi, li aveva fatti precipitare sulla caviglia e sulla gamba dell'infortunato, ritenendo che non sarebbe risultato provato che la condotta dell'infortunato fosse prevedibile dal gruista.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto osservato che sulla scorta del materiale probatorio acquisito, ed in linea con gli arresti giurisprudenziali di legittimità, i giudici di secondo grado avevano correttamente rilevato che l'infortunato avesse posto in essere una condotta abnorme, consistita nel calarsi in una buca per recuperare una biro, senza avvertire il gruista, proprio mentre quest'ultimo stava procedendo con una pala meccanica alla raccolta del materiale di risulta da collocare nella buca in cui si era verificato l'infortunio.
I giudici di legittimità hanno, inoltre, ritenuto che la Corte distrettuale avesse correttamente escluso anche una responsabilità datoriale indiretta, che avrebbe potuto configurarsi soltanto nel caso in cui fosse ravvisabile una condotta colposa del gruista; condotta insussistente nella specie in quanto non poteva ritenersi che il comportamento dell'infortunato fosse prevedibile dal gruista o che quest'ultimo, dalla sua postazione di lavoro, fosse in grado di scorgere l'infortunato nella buca e, dunque, di fermare l'operazione di raccolta del materiale di risulta nella stessa buca.
Pertanto, la Suprema Corte, dopo aver richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale «la condotta del lavoratore può comportare esonero totale dell'imprenditore da ogni responsabilità, quando presenti i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell'evento» (cfr., tra le molte, Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9698), ha ritenuto che nella specie il lavoratore avesse posto in essere una condotta esorbitante dai limiti del proprio lavoro.
I giudici di legittimità hanno infine osservato che, come condivisibilmente concluso dai giudici di appello, si configurava, nella specie, una ipotesi di c.d. rischio elettivo da parte del lavoratore, idoneo ad interrompere la eventuale condotta colposa dell'imprenditore, poiché l'attività posta in essere dal lavoratore stesso esorbitava dai limiti dello svolgimento del proprio lavoro (cfr. Cass. 20 ottobre 2011, n. 21694).
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Cass. Sez. Lav. 12 febbraio 2019, n. 4076
Pres. Manna; Rel. Marotta; P.M. Patrone; Ric. N.C.; Controric. G. s.r.l.;
Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Omessa indicazione - Vizio formale - Conseguenze - Tutela indennitaria
In materia di licenziamento collettivo, nel regime di cui alla l. n. 92/2012 che ne ha raccordato la disciplina alla nuova articolazione delle tutele offerte dall'art. 18 St. lav. e riscritto il regime sanzionatorio applicabile anche in subiecta materia, l'omessa indicazione dei criteri di scelta o l'omessa indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta integrano violazioni procedurali che comportano la sola tutela indennitaria, non configurando (anche) violazione dei criteri di scelta
NOTA
Con ricorso al Tribunale di Napoli un dipendente impugnava il recesso intimatogli nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta ed, in subordine, per violazione delle regole formali relative alle comunicazioni. Il Tribunale riteneva fondata la censura relativa ai vizi formali della comunicazione ex art. 4, co. 9, della I. 223/1991, considerandola priva di una puntuale indicazione dei criteri di scelta previsti dalla legge, delle loro modalità applicative e sfornita di una comparazione tra i dipendenti addetti all'area per la quale si era ravvisata l'eccedenza. Per l'effetto dichiarava risolto il rapporto lavorativo ed applicava la tutela indennitaria di cui all'art. 18, co. 5, l. n. 300/1970, condannando la società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 18 mensilità. La pronuncia era confermata in sede di opposizione, ove si evidenziava che al vizio formale non doveva necessariamente corrisponderne uno sostanziale per violazione effettiva dei criteri di scelta e che, nella specie, l'opponente non aveva dimostrato anche tale seconda violazione. Il reclamo proposto dinanzi alla Corte d'appello veniva parimenti respinto sulla base delle medesime considerazioni.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione censurando la sentenza per aver ritenuto che la sola mancata esplicitazione dei criteri di scelta nella comunicazione finale della procedura di mobilità ex art. 4, co. 9, l. n. 223/1991 non implicherebbe necessariamente la loro violazione, essendo comunque consentito anche in sede giudiziale il positivo riscontro in ordine all'esistenza e alla corretta applicazione dei criteri. La Suprema Corte respinge il ricorso affermando il principio di cui alla massima, già sancito in vari precedenti, alcuni anche molto recenti (Cass. 13 giugno 2016, n. 12095; Cass. 2 febbraio 2018, n. 2587; Cass. 17 luglio 2018, n. 19010). La Cassazione ricorda che, al fine di individuare le tutele previste dall'art. 5, co. 3 L. 223/1991, va operata una netta distinzione tra "vizio formale" del procedimento e "vizio sostanziale" consistente nella violazione dei criteri di scelta, essendo applicabile la tutela reale solo nel secondo caso, che si verifica non già nell'ipotesi di incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, co. 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano contra legem o, seppur legittimi, siano stati malamente applicati. La Suprema Corte precisa, poi, che è possibile che tra la violazione formale e quella sostanziale vi sia una situazione intermedia che determina una violazione del diritto di difesa - assolvendo la comunicazione in esame sia alla funzione di porre le associazioni sindacali in condizione di contrattare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sia a quella di assicurare ad ogni singolo lavoratore la previa individuazione di tali criteri ai fini della verificabilità dell'esercizio del potere del datore di lavoro - ma, secondo la Corte, ciò non è in concreto accaduto nel caso in esame. Nella specie, infatti, non è stato dedotto dal dipendente un pregiudizio per l'esercizio delle proprie ragioni in sede di verifica dei criteri di scelta applicati dal datore di lavoro ed, inoltre, un accertamento in concreto del rispetto di tali criteri (pur a fronte di una comunicazione ex art. 4, co. 9, difettosa o non puntuale) vi era stato nella prima fase del giudizio e non ha formato oggetto di reclamo.
Il ricorso viene, pertanto, respinto.
Determinazione della retribuzione adeguata
Cass. Sez. Lav. 1 febbraio 2019, n. 3137
Pres. Manna; Rel. Marotta; P.M. Patrone; Ric. S&R.; Controric. B.
Lavoro subordinato - Contratto collettivo - Criteri di applicazione - In genere - Applicabilità dei criteri di cui all'art. 2070 cod. civ. - Limiti - Determinazione della giusta retribuzione - Fattispecie
Nel vigente ordinamento del rapporto di lavoro subordinato, regolato da contratti collettivi di diritto comune, l'individuazione della contrattazione collettiva che regola il rapporto di lavoro va fatta unicamente attraverso l'indagine della volontà delle parti risultante, oltre che da espressa pattuizione, anche implicitamente dalla protratta e non contestata applicazione di un determinato contratto collettivo. Il ricorso al criterio della categoria economica di appartenenza del datore di lavoro, fissato dall'art. 2070 cod. civ., è consentito al solo fine di individuare il parametro della retribuzione adeguata ex art. 36 Cost., quando non risulti applicata alcuna contrattazione collettiva ovvero sia dedotta l'inadeguatezza della retribuzione contrattuale ex art. 36 Cost. rispetto all'effettiva attività lavorativa esercitata.
NOTA
La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, condannava la società a corrispondere al lavoratore una somma a titolo di differenze retributive.
Per la Corte, la società aveva errato a qualificare il lavoratore come operatore alle trasmissioni con applicazione del c.c.n.l. Imprese Radiotelevisive Private essendo tra le parti intercorso un rapporto di natura giornalistica. Nel corso del giudizio era stata, infatti, accertata la sussistenza di un apporto originale nella mediazione tra la notizia e la diffusione della conoscenza che distingueva la funzione giornalistica in concreto svolta dal ruolo tecnico impiegatizio di cui al formale inquadramento.
Per tale ragione la Corte riteneva che il contratto nazionale di lavoro giornalistico (c.n.l.g.), fosse l'unico utilizzabile quale parametro da assumere per determinare la giusta retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost. data l'impossibilità di fare riferimento al c.c.n.l. Federazione Radio Televisioni che non conteneva disposizioni relative alla mediazione individuale tipica del lavoro giornalistico.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la società lamentando che la Corte territoriale aveva verificato la giusta retribuzione avuto riguardo al c.n.l.g. nonostante le parti avessero manifestato la volontà di regolare il rapporto sulla base del c.c.n.l.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione, anche a voler ipotizzare che davvero le parti avessero manifestato la volontà di regolare il rapporto sulla base del c.c.n.l. per le emittenti radiotelevisive private, resta dirimente il rilievo che la prestazione del lavoratore non fosse corrispondente alla qualifica di cui al contratto formalizzato, ma fosse di natura giornalistica che, come tale, non trovava corrispondenza nelle previsioni del suddetto c.c.n.l. (aventi contenuto meramente tecnico).
In ragione dei summenzionati principi, nel caso di specie è stato ritenuto che, per determinare la "giusta retribuzione" di cui all'art. 36 Cost., il contratto collettivo di riferimento dovesse essere quello del lavoro giornalistico.
Statura minima e discriminazione indiretta
Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2019, n. 3196
Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. T. S.p.A.; Controric. A.T.;
Lavoro subordinato – Requisiti fisici per l'assunzione – Statura minima identica per uomini e donne – Apprezzamento della funzionalità del requisito rispetto alle mansioni – Carenza – Discriminazione indiretta – Previsione in d.m. – Apprezzamento incidentale – Disapplicazione.
In tema di requisiti per l'assunzione, qualora una norma secondaria (nel caso di specie un decreto ministeriale) preveda una statura minima identica per uomini e donne in contrasto con il principio di uguaglianza, perché presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne, integra una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime. Il giudice ordinario ne apprezza incidentalmente la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto l'oggettiva funzionalità, pertinenza e proporzionalità del requisito rispetto alle mansioni oggetto della selezione.
NOTA
Una lavoratrice veniva esclusa da una procedura di assunzione per inidoneità fisica, non raggiungendo la statura minima di 160 cm richiesta per lo svolgimento della mansione oggetto della selezione.
La candidata agiva in giudizio per ottenere la condanna all'assunzione.
Il Tribunale di Roma, con sentenza confermata anche in grado di appello, accoglieva tale domanda, ritenendo che il requisito della statura minima integrasse una discriminazione indiretta, in quanto l'azienda aveva omesso di allegare e dimostrare la rigorosa rispondenza del suddetto requisito alla funzionalità e sicurezza dell'attività da svolgere, tenuto anche conto della possibilità di far svolgere singole manovre ad altro personale.
La società ricorreva in Cassazione; la lavoratrice resisteva con controricorso.
Parte ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 25 del D.Lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), in riferimento ad una serie di norme secondarie, tra cui anche un decreto ministeriale di approvazione di una delibera consigliare dell'azienda, che prevedevano i requisiti di statura minima, senza alcuna distinzioni tra uomini e donne, per alcune mansioni. L'azienda deduceva di essersi limitata a prendere atto, nella propria prassi assuntiva, di tali requisiti.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibili e comunque infondati i relativi motivi.
Anzitutto, la Suprema Corte ha preso le mosse dalla definizione di discriminazione indiretta, vale a dire una disposizione, un criterio, una prassi, ecc., apparentemente neutri, che mettono (o possono mettere) i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell'altro sesso. Sul punto, è stato anche ricordato che, ai sensi dell'art. 25, comma 2, D.Lgs. 198/2006, la discriminatorietà può essere esclusa solo quando l'atto abbia ad oggetto requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa e sempre che l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per raggiungerlo siano appropriati e necessari, cioè proporzionati.
La Suprema Corte ha poi ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 23562/2007) secondo cui, qualora una norma secondaria preveda, quale requisito per l'assunzione, una statura minima identica per uomini e donne in contrasto con il principio di uguaglianza, perché presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne, integra una discriminazione indiretta, con la conseguenza che il giudice ordinario ne apprezza incidentalmente la legittimità ed è tenuto a disapplicarla, ove ritenga, in concreto, che il requisito non sia oggettivamente funzionale rispetto alle mansioni oggetto della selezione.
Licenziamento orale e onere della prova
Cass. Sez. Lav. 13 febbraio 2019, n. 4233
Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. D.P.N.M.; Controric. U. S.R.L.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento orale - Accertamento - Distribuzione dell'onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro - Fattispecie.
Qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio l'inefficacia o invalidità di tale licenziamento, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto di lavoro, mentre ricade sul datore di lavoro che eccepisca una diversa causa di estinzione del rapporto medesimo, l'onere di dimostrare i fatti costitutivi su cui tale eccezione si fonda.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento orale di un lavoratore, successivamente dichiarato inefficace dalla Corte d'Appello di Roma.
In particolare, la Corte d'Appello aveva ritenuto pacifica, in fatto, l'estinzione del rapporto di lavoro e statuito che tale circostanza determinasse un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che non gravava sul lavoratore l'onere di dimostrare il licenziamento orale, bensì sul datore di lavoro l'onere di provare l'efficacia e la legittimità del licenziamento.
La Corte di Cassazione adìta ha affermato che qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio l'inefficacia o invalidità di tale licenziamento, ha l'onere di provare la sua estromissione dal rapporto, restando invece a carico della parte datoriale, che eccepisca una diversa causa di estinzione del rapporto medesimo, l'onere di dimostrare i fatti costitutivi su cui l'eccezione si fonda (cfr. da ultimo Cass. 25847/2018). Nello specifico, quindi, l'onere che fa capo al lavoratore non è limitato alla mera prova dell'estinzione del rapporto, ma attiene all'estromissione dal rapporto e dal posto di lavoro, che equivale al rifiuto di parte datoriale di ricevere la prestazione; è difatti solo l'estromissione del lavoratore dal posto di lavoro che inverte l'onere probatorio, ponendo a carico del datore l'onere di provare un fatto estintivo del rapporto diverso dal licenziamento (cfr. Cass. n. 18087/2007).
Ebbene, prosegue la Corte, il giudice di merito non si è attenuto ai principi sopra enunciati in tema di regolazione dell'onere della prova, non avendo verificato se l'estinzione del rapporto di lavoro fosse avvenuta ad iniziativa della società e, soprattutto, se fosse riferibile alla medesima, in maniera tale da concretizzare un'estromissione del dipendente dal posto di lavoro; la mera cessazione dell'esecuzione del rapporto di lavoro tra le parti non coincide, infatti, con l'estromissione dal rapporto e quindi non costituisce elemento sufficiente a dimostrare l'esistenza di un licenziamento orale.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.