Contenzioso

Licenziamento ritorsivo sempre nullo, con prova a carico del lavoratore

Ma se un trasferimento è contrario alla legge il dipendente non è automaticamente giustificato a non rispettare tale disposizione

immagine non disponibile

di Angelo Zambelli

Il trasferimento di un lavoratore contrario alla legge non giustifica automaticamente il dipendente a non rispettare tale disposizione. La Corte di cassazione, con la sentenza 26395/2022, ricollega il rifiuto del lavoratore alla più ampia tematica relativa all'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive.

In particolare, il caso oggetto della sentenza trae origine dal ricorso di un lavoratore che contestava la legittimità del provvedimento espulsivo intimatogli, in virtù del suo rifiuto - in via di eccezione di inadempimento secondo l’articolo 1460 del Codice civile - di ottemperare all'ordine di trasferimento considerato illegittimo perché ritorsivo. Mentre in primo grado il lavoratore risultava soccombente, la Corte d'appello di Roma dichiarava la nullità del licenziamento intimato e condannava la società alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente nonché al pagamento di una indennità risarcitoria.

Per la Corte territoriale, l'assenza del lavoratore, posta alla base del licenziamento, non poteva qualificarsi come ingiustificata: questa costituiva, infatti, il legittimo esercizio da parte dello stesso dipendente del suo potere di autotutela contrattuale rispetto al provvedimento di trasferimento, il cui carattere ritorsivo risultava da determinati «indici presuntivi». Proprio da questi caratteri presuntivi, il giudice di secondo grado ha altresì dedotto che tale intento illecito era stato determinante anche nella conseguente scelta datoriale di procedere al licenziamento del dipendente.

La Cassazione, confermando la sentenza della Corte d'appello di Roma, ha ribadito che, relativamente al licenziamento ritorsivo, questo si configura qualora «l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso».

È stato così dato seguito all'orientamento giurisprudenziale maggioritario in virtù del quale, il licenziamento ritorsivo si concretizza in «un'ingiusta e arbitraria reazione del datore essenzialmente quindi di natura vendicativa a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi» (Cassazione 14928/2015). Il licenziamento per ritorsione, pertanto, è sempre nullo, a patto che il motivo ritorsivo, e quindi illecito, sia stato determinante per il recesso e «sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni» (Cassazione 17087/2011).

Sul punto, la Suprema corte ha difatti precisato che l'onere di provare la natura ritorsiva determinante del licenziamento grava sul lavoratore, in base all'articolo 2697 del Codice civile, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni, come nel caso in esame. Ciò considerato, la Corte di cassazione sembra tuttavia ribadire l'orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo cui il trasferimento predisposto contra legem non giustifica automaticamente il rifiuto del lavoratore all'osservanza del provvedimento, ciò in quanto «l'inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo deve essere valutata... alla luce del disposto dell'articolo 1460 Codice civile, comma 2, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede» (Cassazione 13895/2022).

Va ricordato, a tal proposito, che proprio in relazione alla portata dei principi di buona fede e correttezza si rilevano importanti oscillazioni da parte della giurisprudenza, che portano a soluzioni parzialmente discostanti rispetto al disposto dell'articolo 1460 del Codice civile, fra cui rientra quella che considera soddisfatto il rispetto dei canoni suindicati «nel caso in cui il dipendente continui ad offrire le prestazioni corrispondenti alla qualifica originaria» (Cassazione 434/2019).

In ogni caso, la sentenza in esame conferma una volta di più l'effettività delle tutele che il nostro ordinamento giuridico predispone avverso condotte antigiuridiche contrarie a correttezza e buona fede, principi che devono necessariamente permeare i rapporti di lavoro da ambo le parti.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©