Professionista responsabile a prescindere dalla natura del visto di conformità
La Cassazione afferma che l'apposizione di un visto di conformità mendace sulla dichiarazione dei redditi rappresenta un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento fiscale sulla dichiarazione stessa e ad indurre in errore l'Amministrazione finanziaria.
Vicenda processuale - In punto di fatto, nel caso trattato dalla sentenza 8 maggio 2019, n. 19672, della Terza Sezione penale della Corte di cassazione, a un professionista era stato contestato (con conseguente provvedimento di sequestro) il delitto di cui all'art. 3 del Dlgs 10 marzo 2000, n. 74 per aver apposto un visto di conformità nell'ambito di un'associazione per delinquere che operava tramite la ricerca di imprese in decozione, il reclutamento di un prestanome e la costruzione con espedienti e artifici di una contabilità nella quale figurano ingenti crediti di imposta derivanti da operazioni fittizie.
In giudizio, in parziale accoglimento dell'istanza di riesame dell'imputato, il Tribunale annullava l'ordinanza del Gip - con cui era stato disposto il sequestro diretto e per equivalente in relazione ai reati di cui agli articoli 110 del Codice penale (Pena per coloro che concorrono nel reato) e 3 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) del Dlgs n. 74/2000 -, limitatamente ai reati fiscali, disponendo la conseguente riduzione dell'importo sottoposto a sequestro a carico dell'indagato.
L'ordinanza veniva opposta in Cassazione dall'imputato, denunciando in primo luogo violazione di legge sotto il profilo dell'omessa, contraddittoria ed illogica motivazione in ordine al requisito del fumus commissi delicti e alle specifiche esigenze cautelari. In particolare, per quanto di interesse, la motivazione del provvedimento impugnato risulterebbe apparente, tautologica con riguardo alla posizione del ricorrente e a riprova di ciò il giudice premette come mezzo fraudolento il visto pesante e poi sottolinea che sussiste il fumus per aver l'imputato apposto il visto leggero. Non è pertanto sufficiente – secondo il ricorrente - limitarsi alla prospettazione di un fatto di reato, prescindendo da ogni profilo di colpevolezza, ma è necessario valutare le concrete emergenze istruttorie a carico dell'indagato in ordine al fumus commissi delicti e alle esigenze cautelari.
Deduce altresì il ricorrente erronea motivazione e correlata violazione di legge con riferimento alle norme sul sequestro e di quelle fiscali e tributarie di cui agli articoli 35 del Dlgs 9 luglio 1997, n. 241, Dm 31 maggio 1999, n. 164, 16 e 3 del Dlgs n. 74/2000, atteso che, per quanto attiene all'elemento soggettivo, la sua condotta non integra in alcuno dei suoi elementi costitutivi il fatto di reato a lui ascritto perché il fine di evasione è stato perseguito da altri soggetti che hanno indicato gli elementi fittizi e utilizzato tali dichiarazioni Iva. L'apposizione del visto di conformità per essere elemento costitutivo del reato dovrebbe essere alternativa alle operazioni fittizie e comunque dovrebbe essere un visto pesante. L'imputato precisa che egli non provvedeva, peraltro, alla tenuta della contabilità e non era tenuto a verificarne la veridicità, ma solo la regolarità formale per evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili.
La decisione - Con la pronuncia n. 19672/2019, la Terza Sezione penale respinge il ricorso dell'imputato, affermando con orientamento nuovo che il commercialista risponde di frode fiscale anche se ha apposto alla dichiarazione del cliente un visto di conformità "leggero".
La Cassazione riconosce la responsabilità dell'imputato, atteso che il giudice del riesame ha "correttamente" ritenuto di non avere elementi per escludere il dolo, tenuto conto del ruolo assunto dal commercialista nella vicenda processuale de qua. Sollolinea la Corte che, a tale riguardo, le doglianze del ricorrente, per come articolate nei propri atti difensivi, si sviluppano attraverso censure di fatto con cui si cerca di dimostrare che egli fosse vittima dell'operato illecito degli amministratori della società, il tutto attraverso il richiamo di argomentazioni fattuali non valutabili in sede di legittimità, riservate al giudice della cognizione.
Nel merito, con la sentenza in esame, la Cassazione applica al professionista colpevole di aver rilasciato un visto di conformità mendace ai fini degli studi di settore (o comunque una infedele asseverazione) le specifiche sanzioni amministrative previste all'art. 39 del Dlgs n. 241/1997 sia a quelle penali riferibili al caso concreto, non trovando applicazione il principio di specialità di cui all'art. 15 del Codice penale (nonostante, si rileva, l'art. 39 del Dlgs n. 241/1997 contenga la clausola «salvo che il fatto costituisca reato»).
Il richiamato art. 39 prevede infatti al comma 1 che, salvo che il fatto costituisca reato e ferma restando l'irrogazione delle sanzioni per le violazioni di norme tributarie:
a) ai soggetti indicati nell'art. 35 che rilasciano il visto di conformità, ovvero l'asseverazione, infedele, si applica la sanzione amministrativa da euro 258 ad euro 2.582;
b) al professionista che rilascia una certificazione tributaria di cui all'art. 36 infedele, si applica la sanzione amministrativa da euro 516 ad euro 5.165.
Penalmente, il professionista può incorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 3 del Dlgs n. 74/2000, dal momento che l'apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l'accertamento e a indurre in errore l'Amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.
Visto "leggero" e visto "pesante" - Nelle trame argomentative della sentenza in narrativa si evidenzia che la responsabilità del professionista non muta a seconda che si tratti di un "visto leggero" (previsto e disciplinato dall'art. 35 del Dlgs n. 241/1997) o di un "visto pesante" (o certificazione tributaria, ulteriore tipologia di controllo prevista invece dall'art. 36 dello stesso decreto legislativo).
Il "visto leggero" rappresenta uno dei livelli di controllo attribuito dal legislatore a soggetti estranei all'Amministrazione finanziaria sulla corretta applicazione delle norme tributarie, in particolare a professionisti abilitati iscritti negli appositi Albi. Con la sua apposizione i professionisti attestano la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze della documentazione e alle norme che disciplinano la deducibilità e detraibilità degli oneri, i crediti d'imposta, lo scomputo delle ritenute d'acconto. Tali controlli hanno lo scopo di evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione di imponibili, imposte e ritenute e nel riporto di eccedenze derivanti da precedenti dichiarazioni. Del resto, l'attività di controllo implica, nel caso del professionista, una regolare tenuta della contabilità, la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e alla relativa documentazione sia per le imposte sui redditi sia ai fini dell'Iva. L'apposizione in esame è obbligatoria per una serie di operazioni tra le quali: la compensazione dei crediti relativi a Iva, imposte dirette, Irap e ritenute di importo superiore a 5.000 euro annui; la presentazione delle istanze di rimborso dei crediti Iva, annuale e trimestrali, di ammontare superiore a 30.000 euro per periodo d'imposta; la presentazione delle dichiarazioni modello 730. Per apporre il visto, il professionista deve essere in possesso dell'abilitazione alla trasmissione telematica delle dichiarazioni fiscali (Entratel) e aver presentato alla Direzione regionale territorialmente competente apposita comunicazione per la relativa iscrizione nell'elenco informatizzato.
Il secondo, il visto "pesante", invece, ha per oggetto la certificazione tributaria che permette il controllo sostanziale sulla corretta applicazione delle norme tributarie che interessano la determinazione, la quantificazione e il versamento dell'imposta. Questo può essere rilasciato dai revisori contabili, iscritti negli albi dei dottori commercialisti ed esperti contabili o dei consulenti del lavoro, con particolari competenze lavorative. Il giudizio è pertanto professionale e il professionista abilitato può rilasciare la relativa certificazione richiesta solo qualora sussista la ragionevole convinzione della corretta osservanza della normativa applicabile. Pertanto, la certificazione tributaria, a differenza del visto leggero, ha carattere facoltativo.
Conclusioni - Per quanto precede, secondo il giudice di legittimità, la responsabilità del professionista deve essere vista a prescindere dalla natura del visto (leggero o pesante), che il legislatore individua alla stregua di un mero carattere distintivo rispetto ai livelli di controllo esercitati. Secondo la Corte, tutte le tipologie di controllo rivestirebbero lo scopo di evitare errori nella determinazione della base imponibile: l'attività stessa del professionista implica comunque la verifica della regolare tenuta della contabilità, oltre che della corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili.
Il visto "pesante", che ha per oggetto la certificazione tributaria (attività che permette il controllo sostanziale sulla corretta applicazione delle norme tributarie in tema di imposte) non differisce quindi nei suoi presupposti applicativi in ordine alla responsabilità del professionista.
Al fine della configurazione del reato contestato, non rileverebbe nemmeno l'eventuale carattere facoltativo dell'attività, riscontrabile ad esempio nella certificazione tributaria.
In ogni caso, il professionista è tenuto a riscontrare la corrispondenza dei dati in dichiarazione con la documentazione e la tenuta della contabilità, oltre che la conseguente corretta liquidazione delle imposte. Tutte le tipologie di attestazione, infatti, sarebbero da intendere basate sull'avvenuta esecuzione dei controlli previsti dalla normativa di settore, individuati dall'art. 2 del Dm 164/1999 (Regolamento recante norme per l'assistenza fiscale resa dai Centri di assistenza fiscale per le imprese e per i dipendenti, dai sostituti d'imposta e dai professionisti ai sensi dell'art. 40 del D.Lgs. n. 241/1997), in base al quale il rilascio del visto di conformità di cui all'art. 35, comma 2, lett. a), del Dlgs n. 241/1997, implica il riscontro della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti d'imposta, lo scomputo delle ritenute d'acconto (comma 1).
Il comma 2 aggiunge che il rilascio del visto di conformità di cui all'art. 35, comma 1, lett. a), del Dlgs n. 241/1997 implica, inoltre:
a) la verifica della regolare tenuta e conservazione delle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditi e delle imposte sul valore aggiunto;
b) la verifica della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e di queste ultime alla relativa documentazione.
Di conseguenza, riconosciuta la responsabilità dell'imputato, il professionista risponde del reato di dichiarazione fraudolenta così come qualificata dall'art. 3 del D.Lgs 74/2000, in quanto l'apposizione del visto viziato costituisce mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l'accertamento delle imposte.
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