Rassegna della Cassazione
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento di lavoratrice in stato di gravidanza
Licenziamento per violazione del divieto di fumo
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage
Durata del periodo di prova
Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015 n. 13699
Pres. Stile; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. T.C. Soc. Coop.; Contr. D.A.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale Mancato superamento del periodo di prova - Determinazione del periodo di prova - Differenti discipline previste dal contratto collettivo e dal contratto individuale - Prevalenza del contratto collettivo se più favorevole
In tema di periodo di prova, la disciplina del contratto collettivo prevale su quella del contratto individuale nel caso in cui preveda un periodo di prova più lungo. E' evidente, infatti, che qualora il datore di lavoro intenda sostituire a un periodo di prova più breve un periodo di prova più lungo, tale da legittimare il recesso allorquando il più lungo periodo pattuito per l'esperimento non sia ancora trascorso, ciò si risolve in un indubbio pregiudizio per il lavoratore. E' nullo, pertanto, il licenziamento per mancato superamento della prova intimato dopo la scadenza del periodo di prova previsto dal contratto collettivo.
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Cooperative di produzione e lavoro - Delibera di esclusione del socio lavoratore connessa al licenziamento - Art. 18 dello Statuto dei lavoratori - Applicabilità - Conseguenze.
In tema di società cooperativa di produzione e lavoro, ove la delibera di esclusione del socio si fondi esclusivamente sull'intimato licenziamento, trova applicazione, in forza del rinvio operato dall'art. 2 della legge n. 142 del 2001, l'art. 18 dello statuto dei lavoratori; ne consegue che, l'illegittimità del licenziamento comporta anche quella della delibera di esclusione del socio e il ripristino del rapporto associativo.
Nota
La sentenza in commento trae origine da una pronuncia del Tribunale di Novara con cui era stato rigettato il ricorso proposto da un lavoratore, dipendente e socio di una società cooperativa, avverso il licenziamento intimatogli per mancato superamento del periodo di prova. In particolare, il lavoratore aveva impugnato il recesso sostenendo che all'epoca del licenziamento era stato ormai superato il periodo di prova previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro e richiamato nella lettera di licenziamento. Il Giudice di primo grado aveva dichiarato legittimo il licenziamento ritenendo, invece, applicabile alla fattispecie la previsione del Regolamento interno richiamato dal contratto di lavoro, il quale fissava la durata della prova in un periodo più lungo rispetto a quello previsto dal contratto collettivo. Non risultava, quindi, superato il periodo dell'esperimento alla data del recesso. La Corte d'Appello, successivamente adita, accoglieva il gravame evidenziando innanzitutto la contraddittorietà tra la lettera di assunzione (ove era fatto riferimento al Regolamento interno con specifico riferimento al periodo di prova) e quella di licenziamento, ove era richiamato il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. La Corte, peraltro, sottolineava che la norma del contratto collettivo, che prevedeva un periodo di prova più breve, essendo norma più favorevole per il lavoratore, non poteva che prevalere su quella del contratto individuale. La Corte annullava, pertanto, il licenziamento e disponeva la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. La società proponeva ricorso per Cassazione lamentando con il primo motivo come la sentenza impugnata avesse erroneamente ritenuto la prevalenza della disciplina contrattuale collettiva - richiamata per errore dalla società al momento del recesso - considerato che era chiaramente stabilita nella lettera di assunzione l'applicazione della disciplina in materia di prova di cui al Regolamento interno. La Suprema Corte ha dichiarato infondato il motivo di ricorso affermando come la Corte di merito avesse correttamente ritenuto che nella fattispecie dovesse trovare applicazione la disciplina contrattuale collettiva, in quanto invocata dalla stessa società nella lettera di recesso e prevalendo quale norma più favorevole al lavoratore, non sussistendo peraltro elementi per ritenere che il richiamo al contratto collettivo contenuto nella lettera di licenziamento fosse frutto di mero errore materiale. La Cassazione ha poi chiarito che qualora il datore di lavoro intenda sostituire a un periodo di prova più breve un periodo di prova più lungo - tale da legittimare il recesso allorquando il più lungo periodo pattuito per l'esperimento non sia ancora trascorso - ciò si risolve in un indubbio pregiudizio per il lavoratore. Da ciò deriva la nullità del licenziamento per mancato superamento della prova intimato dopo la scadenza del periodo di prova previsto dal contratto collettivo. Come quarto motivo di ricorso la società ha dedotto la possibilità di prevedere nel contratto individuale un periodo di prova più lungo rispetto a quello previsto dal contratto collettivo. La giurisprudenza afferma, infatti, che una simile previsione del contratto individuale è legittima (sempre che non superi il limite di 6 mesi previsto dalla legge) soltanto quando le mansioni su cui verte la prova siano di complessità tale da giustificare un periodo di prova più lungo rispetto a quello previsto dal CCNL. In questo caso la previsione di un periodo di prova più lungo risponde anche all'interesse del lavoratore, il quale ha più tempo per dimostrare di poter svolgere le mansioni affidategli. La Corte lo ha tuttavia ritenuto non pertinente nella fattispecie, non discutendosi in questo caso dell'insufficienza temporale del periodo di prova.
Con altro motivo di ricorso la società lamentava inoltre come al socio dipendente di cooperativa, una volta escluso dalla società, spetta unicamente l'indennità di cui alla L. n. 604/66 e non già la tutela reale disposta dalla Corte territoriale. Nel dichiarare infondato il motivo, la Suprema Corte ha richiamato un proprio precedente orientamento secondo il quale in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, ove la delibera di esclusione del socio si fondi esclusivamente sull'intimato licenziamento, trova applicazione, in forza del rinvio operato dall'art. 2 della legge n. 142 del 2001, l'art. 18 dello statuto dei lavoratori; ne consegue che, l'illegittimità del licenziamento comporta anche quella della delibera di esclusione del socio e il ripristino del rapporto associativo.
Licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015, n. 13792
Pres. Stile; Rel. De Marinis; Ric. D.D.; Controric.T. S.r.l.;
Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Insubordinazione - Giusta causa – Sussistenza
Costituisce grave insubordinazione ai sensi dell'art. 76, lettera m), del CCNL per l'industria della tintoria, stamperie e finitura tessile - tale da giustificare il licenziamento per giusta causa - la complessiva condotta del lavoratore che si estrinsechi in: a) iniziale reazione seguita ad una semplice richiesta di delucidazioni da parte del datore di lavoro su questioni inerenti ai compiti d'ufficio del dipendente; b) innalzamento del tono della voce da parte di quest'ultimo nei confronti del datore di lavoro, che non l'aveva provocato né alimentato; c) turpiloquio, dovendosi dar rilievo al turpiloquio non in sé ma come manifestazione della più generale condotta irriguardosa del lavoratore nei confronti del datore di lavoro; d) volontario abbandono dell'azienda.
Nota
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore che abbia posto in essere una pluralità di condotte atte a negare l'autorità del datore di lavoro nonché a creare nocumento alla disciplina aziendale.
Segnatamente, la Cassazione analizza l'idoneità di tali condotte ad integrare la fattispecie della "grave insubordinazione", prevista dall'art. 76, lettera m), del CCNL per l'industria della tintoria, stamperie e finitura tessile - applicato dalla società resistente - e sanzionata con il licenziamento.
Il Giudice di prime cure aveva, da un lato, dichiarato l'illegittimità del recesso, ordinando la reintegrazione del lavoratore; dall'altro, accolto la domanda riconvenzionale del datore di lavoro, volta all'ottenimento di un ristoro del danno non patrimoniale "legato a comportamenti lesivi del buon nome dei titolari dell'azienda e, comunque, volutamente inadempienti" posti in essere dal dipendente.
La Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava la legittimità del licenziamento, confermando, per il resto, la statuizione di primo grado.
Con ricorso per cassazione, il dipendente formulava, tra gli altri, due motivi di censura volti alla riforma della decisione della Corte territoriale nella parte in cui aveva dichiarato l'idoneità della condotta contestata a legittimare l'applicazione della massima sanzione del licenziamento per giusta causa, contestandosi, in particolare, la sussumibilità dei fatti addebitati nella fattispecie della "grave insubordinazione" contemplata dalla norma collettiva sopra citata.
La Suprema Corte, dopo aver effettuato un'analitica ricostruzione dei fatti, ha respinto le censure del ricorrente, confermando la statuizione dei Giudici d'appello.
Segnatamente, a parere della Cassazione le condotte rilevanti possono essere così riassunte: "a) l'iniziale reazione seguita ad una semplice richiesta di delucidazioni da parte del titolare dell'azienda su questioni inerenti ai compiti d'ufficio del ricorrente (...) b) l'innalzamento del tono della voce nei confronti di persona che non aveva provocato né alimentato (...) c) il trascendere nel turpiloquio", dovendosi dar rilievo al "turpiloquio non in sé ma come manifestazione della più generale condotta irriguardosa (...); d) il culminare della vicenda nel plateale volontario abbandono dell'azienda, anche qui non importa se solo otto minuti prima del termine dell'orario di lavoro o meno".
Alla stregua di tale ricostruzione, la Suprema Corte ha condiviso la conclusione dei Giudici d'appello circa la "riconducibilità della condotta all'ipotesi della grave insubordinazione ed alla proporzionalità rispetto ad essa della massima sanzione irrogata", respingendo, per l'effetto, il ricorso del lavoratore.
Licenziamento di lavoratrice in stato di gravidanza
Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015 n. 13692
Pres. Lamorgese; Rel. Nobile; Ric. A. A.; Controric. Z. E.;
Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Divieto di licenziamento della lavoratrice madre - Mancata comunicazione al datore di lavoro dello stato di gravidanza o puerperio - Rilevanza - Colpa grave costituente giusta causa - Esclusione Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Impugnazione - Licenziamento delle lavoratrici per matrimonio, gravidanza e puerperio - Nullità del licenziamento - Decadenza -Applicabilità – Esclusione
La condotta della lavoratrice gestante o puerpera, la quale (...) non porta a conoscenza del suo stato il datore di lavoro, non può in alcun caso concretizzare una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo Il termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento previsto dall'art. 6 legge n. 604 del 1966 deroga al principio generale - desumibile dagli artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l'azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge n. 604 del 1966. E' pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l'impugnativa sia applicabile ai licenziamenti previsti dall'art. 1 legge n. 7 del 1963 (sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio) e dall'art. 2 legge n. 1204 del 1971 (sulla tutela delle lavoratrici madri) ai quali vanno invece applicati i principi generali di cui ai citati artt. 1421 e 1422 cod. civ.
Nota
Il caso in commento ha ad oggetto il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice in stato di gravidanza.
La lavoratrice, operaia agricola, aveva richiesto al Tribunale di Messina di dichiarare la nullità del licenziamento intimatole dal datore di lavoro non appena questi aveva avuto conoscenza del suo stato di gravidanza. Il Tribunale rigettava il ricorso, accogliendo l'eccezione di decadenza dall'impugnazione del licenziamento proposta dal datore.
Con ricorso in Appello la lavoratrice impugnava tale decisione sostenendo che la decadenza de qua non era applicabile all'ipotesi di nullità del licenziamento.
Il datore di lavoro si costituiva in giudizio sostenendo che la lavoratrice era stata licenziata per giusta causa in considerazione della sua protratta e ingiustificata assenza, preceduta da un periodo di assenza per malattia, nel corso della quale non aveva mai dato comunicazione del proprio stato di gravidanza (del quale il datore aveva avuto contezza altrimenti e comunque dopo il licenziamento). In aggiunta, sosteneva che il licenziamento era stato impugnato ben oltre il termine decadenziale di 60 giorni previsto dall'art. 6 della L. 604/1966. Su tali basi, quindi, richiedeva che la sentenza di primo grado fosse confermata.
La Corte d'Appello, al contrario, accoglieva il ricorso e dichiarava da una parte la nullità del licenziamento in quanto intimato nel corso del periodo di divieto, dall'altra l'inapplicabilità alla fattispecie del termine di decadenza invocato dalla parte datoriale.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il datore di lavoro sostenendo, tra l'altro, che l'assenza ingiustificata della lavoratrice costituiva un'ipotesi di giusta causa di recesso e conseguentemente integrava una deroga al divieto di licenziamento in gravidanza. Secondo tale ricostruzione, quindi, la Corte avrebbe errato nel ritenere inapplicabile il termine di decadenza di 60 giorni. In aggiunta, il datore di lavoro ravvisava un errore della Corte anche nel non aver dato rilievo all'omessa comunicazione da parte della lavoratrice dello stato di gravidanza, avendo ritenuto sufficiente la comunicazione orale del coniuge della lavoratrice in luogo della trasmissione della certificazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. In particolare, il primo motivo è stato ritenuto infondato in quanto, secondo la Cassazione, la condotta della lavoratrice gestante o puerpera, la quale non porti a conoscenza del suo stato il datore di lavoro, non può in alcun caso concretizzare una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo. La Suprema Corte, inoltre, ha ritenuto inapplicabile al caso di specie il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento di cui all'art. 6 L. 604/1966. Tale disposizione, infatti, riveste carattere eccezionale e, pertanto, non può essere applicata neppure in via analogica alle ipotesi di nullità - come quella in commento - che non rientrino nella previsione della citata legge.
Quanto, poi, all'omessa trasmissione del certificato di gravidanza da parte della lavoratrice, la Corte ha precisato che la presentazione del certificato ben può essere sostituita dalla conoscenza effettiva che il datore di lavoro abbia avuto dello stato di gravidanza della lavoratrice, anche altrimenti.
Licenziamento per violazione del divieto di fumo
Cass. Sez. Lav. 10 luglio 2015, n. 14481
Pres. Stile; Rel. Tria; P.M. Celeste; Ric. I.A.; Contr. C.C. S.p.A.;
Art. 7, comma 5, L. 300/70 - Termine di cinque giorni tra la contestazione disciplinare e l'adozione della sanzione - Compiuta difesa del lavoratore - Adozione del provvedimento disciplinare prima della scadenza dei cinque giorni – Legittimità
Il termine di cinque giorni previsto dall'art. 7, comma 5, L. 300/70, tra la data di contestazione dell'addebito e l'adozione del provvedimento disciplinare, ha la funzione di garantire il diritto di difesa dell'incolpato. Conseguentemente, ove il lavoratore abbia pienamente esercitato il proprio diritto di difesa prima della scadenza del termine di cinque giorni, facendo pervenire al datore di lavoro le sue giustificazioni, senza manifestare esplicita riserva di ulteriori difese, il datore di lavoro può legittimamente irrogare la sanzione senza necessità di attendere il decorso della residua parte del termine.
Licenziamento individuale - Stabilimento ad alto rischio incendio - Violazione del divieto di fumo - Recesso per giusta causa – Legittimità
E' legittimo il licenziamento di un lavoratore per inosservanza del divieto di fumo quando, valutate tutte le circostanze oggettive e soggettive, la condotta contestata appaia irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario (nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto adeguata la sanzione del recesso per giusta causa, in quanto nell'ambiente di lavoro vi era un'alta potenzialità di rischio incendio, inoltre il dipendente, che aveva già subìto una sanzione conservativa per violazione del divieto di fumo, svolgeva il ruolo di caporeparto ed in tale veste aveva il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le norme contrattuali compreso il divieto di fumo).
Nota
La Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale del lavoro di Casale Monferrato, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato da una società ad un proprio dipendente, con mansioni di caporeparto, in quanto sorpreso a fumare una sigaretta all'interno dello stabilimento, in particolare "in mezzo alla porta dell'uscita di emergenza". Il lavoratore proponeva ricorso avverso la predetta statuizione denunciando, in primo luogo, la violazione dell'art. 7, L. 300/1970, in quanto il recesso era stato irrogato prima del decorso del termine minimo di cinque giorni previsto dalla predetta norma. Invero, la contestazione disciplinare era stata inviata al lavoratore il 24 settembre 2008, il giorno successivo questi aveva reso, verbalmente, le proprie giustificazioni ed il 26 settembre 2008 l'azienda gli aveva comunicato il recesso per giusta causa.
La Suprema Corte rigetta il motivo evidenziando che dal dato letterale della disposizione invocata si desume che lo scopo della stessa è di garantire innanzitutto il diritto di difesa dell'incolpato e, in quest'ottica, il comma 5 dell'art. 7, prevede che tra la contestazione dell'addebito e l'adozione della sanzione disciplinare debba intercorrere un termine minimo di cinque giorni. Ove, però, risulti che il lavoratore abbia pienamente esercitato il proprio diritto di difesa prima della scadenza del suddetto termine, facendo pervenire al datore di lavoro le sue giustificazioni, senza manifestare esplicita riserva di ulteriori difese, il datore di lavoro può legittimamente irrogare la sanzione senza necessità di attendere il decorso della residua parte del termine (in tal senso, Cass. 9 febbraio 2012, n. 1884).
Con il secondo motivo il lavoratore censura la sentenza di appello in quanto avrebbe erroneamente accertato la pericolosità della condotta contestatagli e, comunque, la sanzione espulsiva doveva ritenersi sproporzionata.
Anche tale motivo viene respinto, in quanto per i giudici di legittimità, la Corte di merito, anche sulla scorta della CTU esperita in primo grado, aveva correttamente accertato l'alta potenzialità di rischio incendio nell'ambiente di lavoro e, conseguentemente, la necessità di un incondizionato ed assoluto rispetto del divieto di fumo. Deve inoltre considerarsi, prosegue la Cassazione, che al dipendente è stato contestato di aver fumato una sigaretta non solo all'interno dello stabilimento ma, in particolare, "in mezzo alla porta dell'uscita di emergenza" e, quindi, che lo stesso non solo aveva posto in essere un comportamento vietato in linea generale ma di averlo anche fatto in modo da rappresentare un ostacolo per un eventuale deflusso, secondo la logica propria della disciplina della prevenzione antincendi. Infine, il licenziamento doveva ritenersi assolutamente proporzionato in quanto il lavoratore aveva già in passato trasgredito al divieto di fumo - condotta punita con una sanzione conservativa - e, soprattutto, il lavoratore rivestiva il ruolo di responsabile di reparto, sicché il suo comportamento poteva assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo, tanto più che nel suddetto ruolo costui aveva anche il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le norme contrattuali, compreso il divieto di fumo.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage
Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2015, n. 13678
Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Matera; Ric. S.C.; Controric. C.T.L. S.p.A.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Sindacabilità da parte del giudice - Limiti - Effettività delle ragioni giustificatrici dedotte - Necessità - Impossibilità di adibizione del lavoratore ad altre mansioni - Prova - Onere a carico del datore di lavoro – Fattispecie
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto congrua ed immune da vizi logici-giuridici la sentenza della Corte di merito che ha affermato l'impossibilità di ricollocazione del dipendente, unico giornalista, in una posizione professionale prevista da un CCNL non applicato in azienda).
Nota
La Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un lavoratore, a seguito della soppressione dell'ufficio stampa cui lo stesso era addetto in qualità di responsabile. La Corte territoriale, infatti, ha affermato che il datore di lavoro ha regolarmente offerto la prova sia dell'effettività della ragione dedotta a base del recesso (id est: riorganizzazione aziendale con soppressione di posizione lavorativa), sia dell'impossibilità di utilizzare il lavoratore in diversa collocazione, considerata la peculiarità della posizione ricoperta dallo stesso (unico giornalista in azienda) e l'insussistenza di altre posizioni professionali equivalenti. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali, in particolare, lamentava violazione degli artt. 3 e 5 della L. 604/1966, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto assolto l'onere della prova circa l'effettività della riorganizzazione aziendale e l'impossibilità di un repechage.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribadendo due principi, ormai consolidati in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, secondo cui: 1) se è vero che il giudice non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa - espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - è altrettanto vero che allo stesso compete il controllo in ordine alla effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. 08/11/2013, n. 25197 e Cass. 08/02/2011, n. 3040); 2) sul datore di lavoro grava un duplice onere probatorio, quello di dimostrare la riferibilità del licenziamento alle effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo che lo hanno determinato (id est: nesso causale) e quello di provare l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale (Cass. 26/09/2011, n. 19616, Cass. 25/03/2011 n. 7006, Cass. 02/10/2006, n. 21282).
A supporto del proprio decisum la Cassazione ha, altresì, richiamato l'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui la deduzione di un vizio di motivazione di cui all'art. 360, c. 1, n. 5, c.p.c. (nella versione antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 54, c. 1, lett. b, D.L. 22/06/2012 n. 83, conv. con modif. in L. 07/08/2012 n. 134) conferisce alla Corte di legittimità non certamente il potere di riesaminare il merito della causa ma, solamente, il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame delle risultanze istruttorie effettuato dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare liberamente le fonti del proprio convincimento, valutando le prove e scegliendo quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti oggetto di causa (cfr. ex plurimis Cass. 25/05/2012, n. 8298, Cass. 12/02/2008 n. 3267; Cass. 27/07/2008, n. 2049). In buona sostanza, secondo l'interpretazione ormai costante della giurisprudenza di legittimità, ripresa dalla Suprema Corte nella sentenza de qua, è ammissibile il sindacato sul procedimento logico seguito dal giudice, ma non anche sul risultato di quel giudizio, per cui la Suprema Corte deve limitarsi a controllare se il ragionamento del giudice, espresso nella motivazione, sia sufficiente e idoneo, secondo le regole della logica, a giustificare le conclusioni contenute nel dispositivo, ma non può anche rivedere, né sindacare, nel suo contenuto intrinseco, il giudizio di fatto, rivalutando il materiale istruttorio.
Partendo, dunque, da tali consolidati ed indiscutibili principi, la Suprema Corte è giunta ad affermare che il vizio di motivazione censurato dal ricorrente è privo di fondamento e che la sentenza impugnata non merita di essere cassata, stante l'assenza di incongruenze ed essendo la stessa adeguata e giuridicamente corretta.
La Suprema Corte ha, infatti, osservato come la Corte di merito, con sentenza immune da vizi logici o giuridici,abbia: a) accertato l'effettività della dedotta riorganizzazione aziendale, che non si è risolta nella mera soppressione della posizione lavorativa occupata dal lavoratore (capo dell'ufficio stampa); b) affermato l'impossibilità di utilizzazione del lavoratore in mansioni equivalenti, essendo quella soppressa l'unica posizione richiedente la qualifica rivestita (giornalista) e ritenendo non equivalente la posizione rivendicata dal lavoratore (quadro Q/S), in quanto prevista da altro CCNL.
La Suprema Corte ha ritenuto altresì incensurabile la pronuncia di merito nella parte in cui ha affermato l'irrilevanza della circostanza che altro dipendente abbia acquisito la qualifica di giornalista, in quanto tanto è avvenuto successivamente al licenziamento.