Rassegna di Cassazione
Dirigenti e demansionamento
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta
Dirigenti e demansionamento
Cass. Sez. Lav. 19 febbraio 2021, n. 4561
Pres. Balestrieri; Rel. Garri; Ric. I.T.; Controric. S.U.A.D.T. S.p.A.
Dirigente – Demansionamento – Modifica quantitativa – Non sufficienza – Incidenza sul ruolo – Modifica qualitativa – Necessità – Onere della prova a carico del lavoratore – Configurabilità
Non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrare un demansionamento, dovendo invece farsi riferimento all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo.
NOTA
Il dirigente di una società adiva il Tribunale dell'Aquila al fine di ottenere il risarcimento del danno derivatogli dall'illegittimo demansionamento sofferto per effetto della riorganizzazione compiuta dalla propria datrice di lavoro, a fronte della quale riorganizzazione sosteneva gli fossero stati «sottratti alcuni importanti incarichi rivestiti con conseguente svilimento della sua professionalità».
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda del dirigente limitatamente al riconoscimento della c.d. diaria forfettizzata, dallo stesso richiesta insieme alle domande di danno biologico e patrimoniale, e rigettava tutte le altre domande connesse con il lamentato demansionamento.
Il dirigente appellava la sentenza di primo grado davanti alla Corte di appello dell'Aquila, la quale accertava che a, seguito della riorganizzazione della pianta organica della società, il dirigente «aveva continuato a svolgere mansioni che erano comunque riconducibili alla qualifica dirigenziale rivestita ed aveva conservato il ruolo di dirigente del settore investimenti» e che quindi «non aveva in concreto subito un demansionamento effettivo tenuto conto del fatto che, pur se svolte in un ambito meno esteso, il contenuto professionale delle mansioni non era qualitativamente inferiore». Sempre la Corte territoriale chiariva che «non era riscontrabile in concreto un impoverimento del bagaglio professionale maturato» e che erano del tutto insufficienti per dimostrare il danno biologico lamentato «le certificazioni mediche e la relazione di parte depositate in giudizio». Avverso tale sentenza ricorreva davanti alla Corte di Cassazione il dirigente, il quale lamentava che sia il Tribunale che la Corte di appello avevano erroneamente «ritenuto che il solo limite all'esercizio del potere organizzativo del datore di lavoro, quando incide sulla posizione del personale in azienda, è quello del rispetto degli inquadramenti professionali» e che, pertanto, nell'accertare l'equivalenza delle attività esercitate dal dirigente non avevano tenuto conto delle caratteristiche dell'attività effettivamente svolta negli anni dal dirigente. La Corte di legittimità rigetta integralmente il ricorso del dirigente decidendo come da massima ed affermando che «grava sulla parte che assume di essere stata demansionata allegare e provare le circostanze di fatto dalle quali evincere un sostanziale svuotamento del ruolo in precedenza affidatogli».
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage
Cass. Sez. Lav. 22 febbraio 2021, n. 4673
Pres. Arienzo; Rel. Blasutto; P.M. Mastroberardino; Ric. P.P.; Contr. F. S.p.A.
Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Soppressione posizione – Obbligo di repêchage – Onere di allegazione - Onere probatorio - A carico del datore – Sussiste
Al fine di stabilire la legittimità del licenziamento per motivo oggettivo occorre accertare non solo l'effettività della soppressione del posto e la riferibilità della soppressione ad una scelta datoriale (insindacabile dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità), ma altresì la sussistenza dell'ulteriore requisito - anch'esso costitutivo - relativo all'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse. In tal senso, circa il riparto degli oneri probatori, deve escludersi che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.
Obbligo di repêchage – Utilizzabilità del dipendente – Buona fede e correttezza – Indagine sul reimpiego – Criterio del bagaglio professionale – Ammissibilità – Criterio della mera comparazione di ruoli e mansioni – Esclusione
Al fine di verificare l'utilizzabilità del dipendente in altre posizioni lavorative, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, il datore di lavoro è tenuto ad effettuare l'indagine circa la sussistenza di posti vacanti nella struttura produttiva, tenendo conto del bagaglio professionale del lavoratore e non della natura delle mansioni di fatto svolte dal lavoratore, potendogli prospettare la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.
NOTA
La Corte d'Appello di L'Aquila aveva ritenuto non giustificato il licenziamento per soppressione della posizione irrogato dalla società datrice ad un dipendente in quanto, pur avendo accertato che il posto di lavoro era stato effettivamente soppresso, aveva valutato che l'assunzione, poche settimane prima del licenziamento, di un altro lavoratore con mansioni analoghe si ponesse in contrasto con l'asserita volontà datoriale di riduzione dei costi.
Sui ricorsi per cassazione proposti da entrambe le parti, la Suprema Corte, con sentenza n. 9127/2018, in parziale accoglimento del ricorso incidentale della società, aveva cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale osservando che l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore deve necessariamente provare e il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non essendo sindacabile, sotto il profilo della congruità ed opportunità, la scelta datoriale di sopprimere un determinato posto di lavoro.
Pronunciando in sede di rinvio, la Corte d'appello di L'Aquila rigettava il reclamo proposto dal lavoratore, confermando la pronuncia di illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela indennitaria di cui al sesto comma dell'art. 18 legge n. 300 del 1970, con condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
In particolare, la Corte territoriale riteneva che l'onere probatorio dell'impossibilità di repêchage posto in capo al datore di lavoro dovesse essere contenuto entro limiti di ragionevolezza, facendo carico al lavoratore l'onere di allegare circostanze atte a dimostrare l'esistenza nell'ambito della struttura organizzativa di posti di lavoro effettivamente disponibili per mansioni equivalenti e compatibili con la propria professionalità e, con riferimento al caso di specie, riteneva che il lavoratore non avesse specificamente allegato concrete circostanze atte a dimostrare l'esistenza di tali ulteriori posti di lavoro effettivamente disponibili.
Avverso tale decisione, il dipendente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto due profili.
Con il primo motivo di ricorso, il lavoratore sostiene che la Corte d'Appello di Roma abbia errato nel ritenere posto a carico dello stesso l'onere di dimostrare la sussistenza di posti di lavoro disponibili.
Sul punto, la Suprema Corte ritiene che la soluzione prospettata dalla Corte territoriale contrasti con i principi elaborati dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
Infatti, secondo l'orientamento di legittimità oramai consolidato, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.
Sul datore di lavoro – spiega la Corte – incombe l'onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l'esercizio del potere di recesso, ossia l'effettiva sussistenza di una ragione inerente all'attività produttiva, all'organizzazione o al funzionamento dell'azienda nonché l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.
La Cassazione precisa, altresì, che «esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all'interno dell'azienda significa, se non invertire sostanzialmente l'onere della prova (che - invece - l'art. 5 legge n. 604 del 1966 pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all'altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità. Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha, altresì, l'onere della relativa compiuta allegazione».
Sempre nell'ambito del primo motivo di ricorso, la Suprema Corte osserva che, in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale. In tale contesto non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell'organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un'ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro.
Anche il secondo motivo di ricorso - con il quale il lavoratore aveva censurato la decisione della Corte territoriale nella parte in cui aveva ritenuto infungibile la sua posizione, facendo coincidere l'equivalenza con l'identità delle modalità esecutive delle mansioni, in violazione dei criteri interpretativi desumibili dall'art. 2103 cod. civ. – viene ritenuto meritevole di accoglimento.
In particolare, la Suprema Corte ritiene che la Corte d'Appello di Roma abbia errato nel comparare la fungibilità del lavoratore con riguardo alle mansioni e ai ruoli svolti all'interno della compagine aziendale (criterio ritenuto inadeguato), dovendo, di converso valutare la professionalità dei dipendenti assunti.
«Se è vero – ritiene la Corte – che quando la ragione del recesso consiste nella soppressione di uno specifico servizio e non si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell'azienda l'applicazione dei criteri previsti dall'art. 5, L. n. 223 del 1991. Tuttavia, nel caso in esame, la stessa sentenza impugnata, dopo avere dato atto che la soppressione della posizione lavorativa occupata dal lavoratore non era avvenuta nel contesto della soppressione della funzione (che era invece stata mantenuta, ma diversamente distribuita), è pervenuta a formulare un giudizio di esclusione della fungibilità con riguardo alla natura delle mansioni di fatto svolte anziché, come avrebbe dovuto, con riguardo all'eventuale professionalità omogenea».
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso proposto dal lavoratore ha rinviato alla Corte d'Appello di L'Aquila per il riesame del merito delle due questioni oggetto del ricorso.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2
Cass. Sez. Lav. 23 febbraio 2021, n. 4894
Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. K.T. S.r.l.; Controric. A.E.
Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Presupposti di legittimità – Ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa – Impossibilità di ricollocare il lavoratore
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento" concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento medesimo, e cioè sia le ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare il lavoratore.
Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Prova dell'andamento economico negativo – Necessità – Insussistenza
Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'impresa non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare, essendo sufficiente che la scelta imprenditoriale abbia comportato la soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata abbiano inciso sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato.
NOTA
La Corte d'Appello di Torino, respingendo il reclamo proposto dalla società, confermava l'ordinanza di primo grado che aveva disposto la reintegrazione del lavoratore ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970, ritenendo che le ragioni indicate nella lettera di licenziamento non fossero dimostrate. In particolare, il datore di lavoro non aveva provato che le ragioni addotte a sostegno della modifica organizzativa avessero inciso sulla posizione del lavoratore licenziato, comportandone la soppressione.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo inter alia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 18, L. 300/1970, 2 e 3, L. 604/1966, 2118 cod. civ. e 12 delle Preleggi, per avere i giudici di merito ritenuto il giustificato motivo di licenziamento manifestamente insussistente per genericità della lettera di recesso, del capitolato e dei documenti allegati dalla società.
La Suprema corte ritiene il ricorso infondato.
Dopo aver premesso che nella comunicazione di licenziamento il datore di lavoro ha l'onere di specificare i motivi del recesso, senza dover però esporre in modo analitico tutti gli elementi in fatto e in diritto alla base del recesso (in tal senso, Cass. 16795/2020), la Corte precisa che al fine di valutare la manifesta insussistenza del fatto devono essere verificate le ragioni alla base del recesso, con specifico riferimento al nesso tra queste e l'individuazione della posizione del lavoratore in esubero.
Inoltre, la Corte di cassazione precisa che – ai fini della legittimità del licenziamento per motivi oggettivi – sebbene l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisca un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, è in ogni caso necessario che le ragioni addotte a sostegno della modifica organizzativa abbiano inciso sulla posizione del lavoratore licenziato e, cioè, che la decisione imprenditoriale abbia effettivamente comportato la soppressione del posto di lavoro. Il recesso sarà ingiustificato, per mancanza di veridicità o per pretestuosità della causale addotta, qualora il giudice accerti in concreto l'insussistenza di dette ragioni (in tal senso, Cass. 15400/2020, Cass. 19302/2019, Cass. 8661/2019, Cass. 31158/2018, Cass. 10699/2017, Cass. 25201/2016).
A ciò si aggiunga che, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della "manifesta insussistenza del fatto" ha ad oggetto entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento, cioè sia le ragioni inerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (in tal senso, Cass. 3819/2020).
Qualora, come nella fattispecie oggetto del giudizio, il giudice ritenga insussistente il primo dei due requisiti, il secondo diviene conseguentemente irrilevante.
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta
Cass. Sez. Lav. 23 febbraio 2021 n. 4896
Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. L.M.; Controric. T.S. S.c.a.r.l.
Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta – Obbligo di repêchage – Modifica delle mansioni/condizioni degli altri dipendenti - Esclusione
In tema di licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore l'obbligo del datore di verificare la possibilità di assegnargli altre mansioni equivalenti o inferiori compatibili con le sue condizioni di salute trova un limite nell`inviolabilità in peius ex art. 2103 c.c. delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro; deve, pertanto, escludersi che le misure organizzative possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle altre condizioni di lavoro degli altri lavoratori (ad esempio, ambiente e luogo di lavoro, orario e tempi di lavoro).
NOTA
La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di prime cure, respingeva la domanda proposta dalla lavoratrice L.M. nei confronti della società T.S. S.c.a.r.l., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di operaia pulitrice di III livello del CCNL Multiservizi.
La Corte di Appello territoriale riteneva legittimo il licenziamento in considerazione dell'insussistenza di un obbligo del datore di lavoro di modificare la propria organizzazione aziendale o di demansionare o trasferire gli altri dipendenti.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice che, tra le altre cose, lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. 604/1966, nonché 1463, 1464 e 2967 c.c., ritenendo che la Corte territoriale avesse errato nel circoscrivere l'obbligo di repêchage del datore di lavoro alle sole mansioni di pari livello e non a tutte le possibilità di effettivo residuale impiego della lavoratrice.
Inoltre, la lavoratrice lamentava l'omesso esame di un fatto decisivo in quanto sarebbe emersa, dalle deposizioni testimoniali acquisite, l'esistenza di mansioni, svolte da altri lavoratori, compatibili con lo stato di salute della lavoratrice; lamentava, infine, l'omessa applicazione dei principi di diritto comunitario (Direttiva 2000/78 CE) recepiti nell'ordinamento interno (D.Lgs. 216/2003) che impongono al datore di lavoro di modificare l'organizzazione aziendale al fine di garantire il ricollocamento del lavoratore disabile.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso, richiamando, in primo luogo, la giurisprudenza comunitaria (CGUE, 4 luglio 2013), che ha definito gli "accomodamenti ragionevoli" posti a carico del datore di lavoro al fine di adempiere all'obbligo di repêchage in caso di sopravvenuta invalidità permanente come «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani».
A livello nazionale, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato che il licenziamento per impossibilità della prestazione lavorativa conseguente a sopravvenuta invalidità permanente può essere escluso qualora vi sia la possibilità di adibire il lavoratore ad altre attività riconducibili alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché detta attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (S.S. U.U. n. 7755 del 1998).
In sostanza, quindi, un'interpretazione dell'art. 3, comma 3 bis, L. 216/2003 costituzionalmente orientata, alla luce della giurisprudenza citata, consente di affermare che il diritto del lavoratore disabile all'adozione di accorgimenti che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell'organizzazione interna dell'impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa stessa nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita (cfr., fra le tante, Cass. 34132 del 2019).
Il giudice di merito può quindi ritenere legittimo il licenziamento non solo a fronte della concreta inesistenza di accorgimenti pratici idonei a rendere utilizzabili le prestazioni dell'inabile ma altresì qualora sia accertata l'assoluta impossibilità di affidare allo stesso mansioni equivalenti e mansioni inferiori, tenuto conto del limite costituito dall'inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle prestazioni lavorative degli altri prestatori di lavoro: deve pertanto escludersi che i suddetti accorgimenti pratici possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle altre condizioni di lavoro degli altri lavoratori.
Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto correttamente assolto l'obbligo della società controricorrente di tutela della lavoratrice disabile in considerazione dell'accertata inidoneità della stessa allo svolgimento delle mansioni affidatele e dell'insussistenza di mansioni equivalenti o inferiori da affidarle, ritenendo irrilevante l'ulteriore disamina degli eventuali accorgimenti da programmare al fine di adattare mansioni, già assegnate ad altri, che si presentavano in ogni caso radicalmente incompatibili con la sua infermità.
Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta
Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2021, n. 4409
Pres. Di Paolaantonio; Rel. Marotta; P.M. Visonà; Ric. L.S.; Controric. E.D.O.
Licenziamento collettivo - Criteri di scelta ex art. 5 Legge 223/1991 - Violazione - Azione di annullamento - Presupposto - Interesse ad agire del lavoratore "qualificato" - Necessità
L'annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell'articolo 5 L 223/1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
NOTA
Il Tribunale accoglieva l'impugnazione del lavoratore all'esito del giudizio proposto ai sensi del rito Fornero e dichiarava l'illegittimità del licenziamento comunicato al termine di una procedura di licenziamento collettivo.
Il Tribunale, in sede di opposizione, riteneva fondata la contestazione del lavoratore relativa alla violazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare e considerava del tutto arbitraria e quindi illegittima la scelta datoriale di distinguere, nell'ambito di una categoria del tutto fungibile, una sottocategoria composta da un solo dipendente che, oltre a ricoprire tale qualifica, era anche in possesso di una laurea in ingegneria, così da sottrarre tale dipendente dal confronto con gli altri.
La Corte d'appello, in riforma di tale decisione, pur considerando illegittima la creazione della sub categoria, non escludeva che il lavoratore non occupasse, in base all'anzianità aziendale, ai carichi di famiglia, il primo posto nella graduatoria dei tre dipendenti dell'area professionale in questione e quindi fosse uno dei due lavoratori di detta categoria da licenziare in ogni caso.
Avverso la sentenza della Corte promuoveva ricorso il lavoratore ma la Cassazione lo ha rigettato.
Ed infatti, per la Suprema Corte l'invalidità per violazione dei criteri di scelta è stata prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3 non già nella forma della nullità, sanzione conseguente alla violazione delle norme di ordine pubblico, ma della annullabilità, vizio connotante la tutela di un interesse di parte, secondo la previsione dell'art. 1441 c.c., comma 1, ovvero, «L'annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge».
Anche, dunque, nella fattispecie del licenziamento per violazione dei criteri di scelta, l'annullamento non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati (come accaduto nel caso di specie) ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto di tale violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento.
Alla luce di quanto sopra, per la Cassazione i giudici distrettuali avevano fatto corretta applicazione della regola generale secondo cui l'annullamento del licenziamento può essere richiesto solo dalla parte che ne ha interesse avendo rilevato che il lavoratore ricorrente sarebbe stato in ogni caso destinatario del provvedimento di licenziamento.