Rassegna della Cassazione
Licenziamento collettivo e comunicazione finale della procedura
Annullabilità delle dimissioni
Risarcimento da infortunio sul lavoro
Sulla responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio
Licenziamento orale
Cass. Sez. Lav. 20 maggio 2016, n. 10547
Pres. Venuti; Rel. D'Antonio; P.M. Matera; Ric. M.R.; Contr. T.N.;
Licenziamento - Comunicazione in forma scritta - Necessità - Licenziamento orale - Inefficace - Consegna della busta-paga contenente il TFR - Atto equipollente alla forma scritta - Inammissibilità - Onere di impugnazione del licenziamento orale nel termine di decadenza - Insussistenza
In tema di licenziamento, l'art. 2 L. 604/1966, pur non richiedendo forme sacramentali impone la comunicazione scritta da cui risulti la chiara volontà del datore di lavoro di interrompere il rapporto. Conseguentemente il recesso comunicato oralmente è radicalmente inefficace perché inidoneo ad interrompere il rapporto di lavoro ed è sottratto all'onere di impugnazione nel termine di decadenza.
Nota
La Corte di appello di Brescia confermava la decisione del Tribunale della medesima città, che aveva dichiarato l'inefficacia del licenziamento intimato dal datore di lavoro ad un proprio dipendente in quanto comunicato oralmente e, conseguentemente, la continuità del rapporto con l'obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni fino alla data in cui il lavoratore aveva trovato un altro impiego. La Corte di merito aveva, infine, escluso la decadenza dall'impugnazione del licenziamento, attesa la natura orale dello stesso e la sua soggezione solo al termine prescrizionale.
Avverso tale decisione il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 2, L. 604/1966, considerato che per la forma scritta del licenziamento non sono richieste forme sacramentali e che lo stesso - secondo la prospettazione del ricorrente - può anche essere comunicato in modo indiretto purché chiaro. Tenuto conto che tra i documenti consegnati al lavoratore all'atto del recesso vi erano la busta paga con il TFR e la dichiarazione da trasmettere al nuovo datore di lavoro, gli stessi, a parere del ricorrente, costituivano modalità idonea di comunicazione del licenziamento.
La Cassazione respinge il ricorso evidenziando che l'art. 2 della L. 604/1966 prescrive la forma scritta del licenziamento e pertanto il tentativo di equiparare la consegna della busta paga contenente il TFR alla forma scritta del recesso è del tutto avulso dal dettato normativo il quale, pur non richiedendo forme sacramentali, impone la comunicazione per iscritto del licenziamento da cui risulti la chiara volontà di interrompere il rapporto.
La Corte di merito, a parere dei giudici di legittimità, si è così uniformata alla giurisprudenza della Cassazione (in tal senso, Cass. del 10 settembre 2012, n. 15106), secondo cui il licenziamento orale è radicalmente inefficace per inosservanza dell'onere della forma scritta imposto dal predetto art. 2 e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando a tal fine né il tipo di regime applicabile (reale o obbligatorio) né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, giacché la sanzione ivi prevista non opera unicamente nei confronti dei lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo, in tale ultimo caso, che abbiano optato per la prosecuzione del rapporto). Il licenziamento orale è, inoltre, sottratto all'onere di impugnazione nel termine di decadenza.
Infine, per quanto attiene al risarcimento del danno, correttamente, secondo la Cassazione, la Corte di merito aveva applicato l'ordinario regime risarcitorio - trattandosi di rapporto di lavoro in essere - consistente nel pagamento delle retribuzioni non percepite a causa dell'inadempimento datoriale.
Licenziamento collettivo e comunicazione finale della procedura
Cass. Sez. Lav. 18 maggio 2016, n. 10237
Pres. Amoroso; Rel. Tricomi; P.M. Fresa; Ric. C.A.; Controric. B.D.N. S.p.A..
Licenziamento collettivo - Comunicazione finale della procedura - Omesso invio a uno degli enti destinatari - Inefficacia del licenziamento - Esclusione - Condizioni - Verifica del raggiungimento dello scopo dell'atto e della funzione che l'ente è chiamato a svolgere nell'ambito della procedura - Necessità
Nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, la comunicazione di cui all'art. 4, comma nono, che fa obbligo di indicare puntualmente le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi il controllo sulla correttezza dell'operazione. Ne consegue, alla luce di tale interpretazione finalistica della norma, che, ai fini di una valutazione circa l'osservanza della predetta norma, non può prescindersi dal complessivo effettivo espletamento della procedura, dall'eventuale conseguente raggiungimento dello scopo ed, altresì, in particolare, dall'esame del ruolo in concreto svolto, nella fattispecie, dall'unico organo in relazione al quale la comunicazione de qua è stata omessa.
Nota
La Corte d'Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, affermando che la omessa comunicazione alla Commissione Regionale Permanente Tripartita non costituiva violazione dell'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 e non determinava, pertanto, l'inefficacia del licenziamento.
Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando che l'omessa comunicazione ad uno dei destinatari della comunicazione ex art. 4, c. 9, L. n. 223/91 non determina ex se l'inefficacia del licenziamento irrogato, occorrendo verificare, in concreto, se lo scopo della comunicazione sia stato comunque raggiunto e se l'ente, al quale sia stato omesso l'invio, abbia, nell'ambito della procedura, una specifica funzione di controllo.
Tale principio si fonda su una interpretazione teleologica della norma de qua (art. 4, c. 9, L. n. 223/1991), secondo cui ratio della comunicazione finale è quella di garantire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi il controllo sulla correttezza dell'operazione.
La Corte di legittimità, dunque, valorizzando la ratio della norma e discostandosi da un'interpretazione formalista della stessa, è giunta ad affermare, coerentemente ad altre recenti pronunce (v. Cass. 11/06/2015, n. 12122 e Cass. 10/07/2015, n. 14429), che la valutazione circa l'osservanza della predetta norma va fatta tenendo conto dell'eventuale "raggiungimento dello scopo" dell'atto e del "ruolo" in concreto svolto dall'unico organo al quale sia stata omessa la comunicazione finale.
Occorre, dunque, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte, verificare: 1) se la comunicazione finale abbia comunque garantito ai lavoratori interessati (per il tramite delle organizzazioni sindacali e degli enti amministrativi cui la stessa è indirizzata) il controllo sulla correttezza della procedura; 2) se l'organo al quale sia stata omessa la comunicazione abbia realmente una funzione di controllo nell'ambito della medesima procedura. Se tale funzione è esclusa e/o limitata e l'atto ha raggiunto, comunque, il suo "scopo", l'omessa comunicazione ad uno dei destinatari previsti dall'art. 4, c. 9, L. n. 223/1991 non determina l'inefficacia del licenziamento.
La Suprema Corte, quindi, considerato che la Commissione Regionale Tripartita (ente al quale è stato omesso l'invio della comunicazione finale) è deputata esclusivamente all'iscrizione nelle liste di mobilità e che il personale del credito non è comunque incluso tra i beneficiari dell'indennità di mobilità, è giunta alla conclusione che l'omesso inoltro della comunicazione finale alla suddetta Commissione: a) non aveva in alcun modo inciso sul raggiungimento dello "scopo" cui era preordinata l'intera procedura; b) si rivelava ininfluente e inidoneo a compromettere la rilevata correttezza della procedura stessa.
Annullabilità delle dimissioni
Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2016, n. 12215
Pres. Venuti; Rel. D'Antonio; Ric. C.M.M.; Controric. A. S.p.A.;
Lavoro - Lavoro subordinato - Dimissioni - Annullabilità per vizi della volontà - Minaccia di far valere un diritto - Rilevanza come violenza morale - Condizioni - Conseguimento di un vantaggio ingiusto - Necessità
La violenza morale quando si concreta nella minaccia di far valere un diritto è causa invalidante di un contratto (o di un atto unilaterale, quali le dimissioni di un lavoratore dipendente), allorché il suo autore intenda perseguire un vantaggio esorbitante ed iniquo. La minaccia è concretamente ravvisabile, sotto il profilo dell'effettiva funzione intimidatoria del comportamento, soltanto se venga prospettato un uso strumentale del diritto o del potere, diretto non solo alla realizzazione dell'interesse la cui soddisfazione è prevista dall'ordinamento, ma anche al condizionamento della volontà.
Nota
La Corte d'Appello di Salerno aveva confermato la decisione del Giudice di prime cure di rigetto della domanda proposta dal lavoratore di annullamento delle dimissioni con conseguente rigetto anche della domanda di dichiarazione di illegittimità del successivo licenziamento.
Il lavoratore, addetto alla vendita di generi alimentari e non, su una nave da crociera nonché alla gestione della relativa cassa, era stato sottoposto ad una verifica di cassa. Nel corso della verifica era emerso che lo stesso aveva sottratto alla cassa una banconota dal valore di 50 Euro sostenendo che fosse di sua proprietà in quanto lasciatagli da un cliente a titolo di mancia. Successivamente il lavoratore veniva sottoposto da parte dei suoi superiori ad un interrogatorio in merito al medesimo episodio, definito "brutale, umiliante e minaccioso", nel corso del quale gli veniva detto che sarebbe stato denunciato alle autorità. Alla richiesta del lavoratore di evitare in qualche modo la denuncia gli veniva proposto di sottoscrivere una lettera di dimissioni per motivi personali. Immediatamente dopo la consegna della lettera di dimissioni gli veniva consegnata una contestazione disciplinare per i fatti di cui sopra (con successivo licenziamento).
La Corte territoriale aveva rigettato il ricorso sostenendo che non solo nel corso dell'istruttoria non erano emersi elementi idonei a provare che si fosse svolto un interrogatorio nei modi denunciati dal lavoratore, ma anche che la prospettata denuncia non avrebbe comportato un danno al lavoratore idoneo a coartare la sua volontà al punto da costringerlo a rassegnare le dimissioni.
Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto qui interessa, violazione degli artt. 1434 e seguenti c.c. e 428 c.c. censurando il rigetto della domanda di annullamento delle dimissioni.
Il lavoratore, infatti, affermava di essersi trovato - al momento della sottoscrizione - in un turbamento psichico tale da integrare l'incapacità d'intendere e di volere poiché non sapeva che la denuncia non avrebbe comportato alcuna particolare conseguenza.
La Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo e rigettato il ricorso. In particolare, pur ritenendo opinabile la valutazione operata dalla Corte territoriale circa l'incapacità della minacciata denuncia a comportare un vizio della volontà di dimettersi del lavoratore a causa delle limitate possibili conseguenze, la Suprema Corte ha rilevato che la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto. Tale situazione si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto medesimo, sia iniquo ed esorbiti dall'oggetto di quest'ultimo, mirando al condizionamento della volontà del lavoratore, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall'ordinamento.
Nel caso di specie "la prospettazione della denuncia ai carabinieri non si appalesava immotivata e strumentale ma, avuto riguardo al comportamento posto in essere dal lavoratore, costituiva un diritto esercitabile da parte del datore di lavoro".
Conseguentemente il vizio della volontà affermato dal ricorrente è stato ritenuto insussistente e le dimissioni rassegnate valide ed efficaci.
Risarcimento da infortunio sul lavoro
Cass. Sez. Lav. 10 giugno 2016, n. 11981
Pres. Venuti; Rel. Cavallaro; P.M. Celentano; Ric. C.A.; Controric. A.T.M.; Controric. I.N.A.I.L.;
Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Oneri probatori - Tutela della salute e dell'integrità fisica - Responsabilità ex art. 2087 cod. civ. - Responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro - Configurabilità - Esclusione
L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Nota
Il caso di specie riguarda un'azione promossa da un lavoratore al fine di conseguire dal proprio datore di lavoro il risarcimento dei danni patiti a causa della malattia da cui era affetto, di cui il lavoratore ricollegava l'insorgenza alla violazione da parte dell'azienda dell'art. 2087 c.c.
La domanda del lavoratore è stata rigettata sia in primo che in secondo grado. Successivamente il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, affidandosi ad un unico motivo.
Nello specifico, il lavoratore ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto che egli non avesse assolto l'onere probatorio relativo all'eziologia professionale della sua malattia, nonostante egli avesse allegato, a corredo dei propri atti, la documentazione clinica relativa alla malattia, e argomentato la presumibile derivazione di quest'ultima dai microtraumi provocati dalla postura e dalle vibrazioni meccaniche dei mezzi su cui aveva svolto le mansioni di conducente di linea; pertanto, l'onere della prova a suo carico doveva ritenersi assolto, con conseguente accoglimento della propria domanda di risarcimento danni.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, sottolineando innanzitutto che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c., il lavoratore è soggetto all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza non solo del fatto materiale (evento dannoso), ma altresì delle regole di condotta che assume essere state violate e che sono poste a presidio dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. tra le più recenti Cass. n. 8855/2013). Ebbene, nel caso di specie, tale allegazione (e la conseguente dimostrazione) è mancata del tutto, pretendendo piuttosto il lavoratore di far derivare la responsabilità del datore di lavoro dal mero verificarsi dell'evento dannoso a suo carico, sul presupposto che quest'ultimo sarebbe sintomatico della mancata adozione da parte del datore di lavoro di tutte le cautele necessarie per tutelare l'integrità fisica del lavoratore.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha inoltre sottolineato che, per giurisprudenza costante, l'art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate; la responsabilità datoriale può infatti essere individuata solo laddove vi sia una violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento al fine di prevenire infortuni sul lavoro e di assicurare la salubrità e la sicurezza dell'ambiente in cui l'attività lavorativa viene prestata (cfr. tra le tante Cass. n. 8381/2001, n. 3234/1999, n. 5035/1998).
In conclusione, la responsabilità di cui all'art. 2087 c.c. permette di imputare al datore di lavoro non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quella condotta che sia astrattamente caratterizzata da negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita, ecc.) in riferimento allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento che in concreto si è poi verificato. Diversamente, si finirebbe per porre a carico del datore di lavoro non soltanto il danno derivante dalla mancata adozione di specifiche misure cautelari, ma altresì quello derivante dalla qualità intrinsecamente usurante dell'ordinaria prestazione lavorativa e/o dal logoramento dell'organismo del dipendente che sia rimasto esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, laddove la Corte ha già avuto modo di precisare che detti eventi restano fuori dall'ambito della responsabilità ex art. 2087 c.c. (Cass. n. 2038/2013), potendo, se del caso, costituire altrettanti presupposti per tutele di tipo previdenziale.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.
Sulla responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio
Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2016, n. 12347
Pres. Venuti; Rel. Cavallaro; Ric. M.B.; Controric. A. S.p.A. + 5
Appalto - Infortunio sul lavoro - Obbligo di protezione - Violazione - Responsabilità committente - Condizioni - Misure adatte a impedire il fatto - Sussistenza - Esclusione
L'art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate.
Nota
La decisione in commento riguarda un infortunio occorso a un dipendente all'interno di un cantiere. La Corte d'Appello di Perugia ha riconosciuto quale esclusiva responsabile dell'incidente una della società appaltatrici (parte a sua volta di una società consortile) escludendo ogni responsabilità in capo alla committente e alla società consortile. La decisione, contestata davanti alla Cassazione dal lavoratore ricorrente, muove dal presupposto che l'incidente (un tamponamento tra biciclette, quella dell'infortunato proveniente dalla via centrale, la seconda da un cunicolo) sia avvenuto in presenza di specifiche ed idonee misure prese dalla committente per evitare incidenti simili (nello specifico: un cartello con l'avviso di "procedere a passo d'uomo" causa lavori straordinari).
Il ricorrente contesta la decisione in quanto non era adeguatamente informato "dei lavori di manutenzione del cunicolo" vicino al quale è avvenuto lo scontro, e tale mancata informazione costituiva inadempimento all'obbligo di protezione dei lavoratori ex art. 2087 c.c.; allo stesso modo, il fatto stesso, pacifico, che l'"evento lesivo" sia avvenuto avrebbe comportato, in capo alla committente, un onere di "prova liberatoria" sul punto non valutato dalla Corte d'Appello. Da segnalare che anche l'INAIL, ricorrente incidentale, ha argomentato che i "cartelli segnalatori" citati sopra non sarebbero stati "adeguati" a segnalare il rischio ed escludere la responsabilità della committente.
I principi e le norme oggetto della decisione s'inseriscono in un costante filone di decisioni sui confini dell'obbligo di protezione in capo al datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ritenuto effettivo anche in caso di "omissione di cautele da parte dei lavoratori" (Cass. 21694/2011).
La pronuncia in commento opta per un approccio analitico ai fatti di causa rilevando come l'art. 2087 e l'obbligo di protezione ivi previsto sia "assimilabile" alle obbligazioni "tradizionalmente definite "di mezzi"". Pertanto, la presenza di misure di sicurezza direttamente riferibili all'infortunio occorso costituisce adempimento sufficiente all'obbligo de quo, ed esclude, per i Giudici di legittimità, la responsabilità della committente, cui il cantiere è riferibile. La pronuncia sul punto è molto chiara: si deve escludere "la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta [del datore di lavoro - Ndr.] sia stata diligente... in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento concreto che in fatto si è cagionato". La valutazione, in breve, non è (solo) astratta e a priori ma (anche) misurata sullo specifico fatto occorso. Pertanto, il tamponamento tra due biciclette con pacifico torto di una (proveniente da un cunicolo sulla strada principale) comporta la responsabilità dei soggetti coinvolti nel sinistro (l'investitore e la sua datrice di lavoro) e non di chi (la committente) aveva prescritto cautele nel transitare dove il sinistro è occorso. Non è "esigibile", continua la Suprema Corte, un "controllo personale di tutti i lavoratori".
Sulla scorta delle considerazioni appena ricordate, il ricorso viene respinto. Restano da segnalare, seppur sorretti da motivazione più sbrigativa, le osservazioni circa l'impresa consortile (la cui responsabilità è esclusa mancando "effettiva ingerenza nella gestione del cantiere") e la responsabilità dell'assicuratore (che non può che essere denunciata da chi ha un "rapporto immediato" con lo stesso, ossia la società assicurata e non il dipendente infortunato).