Contenzioso

Rassegna di Cassazione

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a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sulla nozione di insubordinazione ai fini del licenziamento disciplinare
Trasferimento di ramo d'azienda
Giusta causa di dimissioni
Criteri per la determinazione della genuinità dell'appalto


Sulla nozione di insubordinazione ai fini del licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. ord. 11 febbraio 2020, n. 3277

Pres. D'Antionio; Rel. Arienzo; Ric. S.M.; Controric. S.S.E.V.L.

Insubordinazione - Procedimento disciplinare - Sanzioni conservative - Insussistenza - Licenziamento per giusta causa - Sussistenza - Fattispecie: condotte intimidatorie e aggressive nei confronti del superiore e dei colleghi.

La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma include anche qualsiasi altro comportamento che pregiudichi l'esecuzione e il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale. Ne consegue che è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che tenga condotte aggressive e intimidatorie nei confronti del superiore gerarchico e di altri colleghi in quanto idonee a pregiudicare il corretto svolgimento delle attività aziendali e, dunque, a ledere il vincolo fiduciario.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello de L'Aquila respingeva il gravame proposto da un lavoratore avverso la decisione del Tribunale di Lanciano che aveva rigettato la sua domanda di accertamento della legittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa. La condotta del lavoratore si sostanziava nell'abbandono del posto di lavoro, nell'avere lo stesso, con fare intimidatorio e violento, appoggiato la propria testa contro quella del suo responsabile con chiaro intento di minaccia fisica, nell'avere, in presenza di colleghi, gettato via, con fare rabbioso, uno strumento aziendale rischiando di colpire con lo stesso gli altri lavoratori presenti nell'area. La Corte, in particolare, aveva rilevato che il comportamento del lavoratore aveva assunto le caratteristiche, per il contenuto aggressivo, non solo verbale ma anche fisico, di sfida e disprezzo, con travalicamento dei limiti di correttezza, per assumere i caratteri di una condotta sicuramente riprovevole, integrante una negazione pubblica e palese del dovere di obbedienza ed una sfida aperta al potere discrezionale del superiore, idonea a ledere il vincolo fiduciario e tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.
Per la cassazione della sentenza ricorreva il lavoratore eccependo, tra il resto, la violazione del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro - Categoria Autoferrotranviari - Internavigatori (TPL mobilità) -, sostenendo che lo stesso, nel prevedere i provvedimenti disciplinari conservativi, vi riconduce condotte quali «atti di insubordinazione lievi nei confronti dei superiori e ad altre condotte di trasgressione dell'osservanza del contratto, e a mancanze che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene ed alla sicurezza dello stabilimento», e che pertanto il fatto a lui contestato non poteva che rientrare in tale previsione poiché «le condotte da lui poste in essere non erano espressive, a suo dire, di grave insubordinazione, in quanto collegate alla legittima aspirazione ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto al cambio in relazione alle pause regolate in base alla previsione di una turnazione nella relativa fruizione».
La Corte di legittimità ha respinto il ricorso rilevando che la Corte di merito, conformemente all'orientamento di legittimità secondo cui «alla ricorrenza di una delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva non può conseguire automaticamente il giudizio di legittimità del licenziamento, ma occorre sempre che la fattispecie tipizzata contrattualmente sia riconducibile alla nozione di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore», ha verificato tale requisito precisando che «la condotta addebitata integrasse senz'altro una manchevolezza che, per la sua gravità, risultava punibile con il licenziamento, da considerarsi, quindi, sanzione proporzionata al fatto».
La Corte di legittimità ha quindi rigettato il ricorso ricordando che «in materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario». In particolare, ha concluso affermando che, con riferimento al caso di specie, «privilegiando una nozione ampia di insubordinazione, quest'ultima, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale».

Trasferimento di ramo d'azienda

Cass., Sez. Lav., 9 marzo 2020 n. 6649

Pres. Berrino Rel. Cinque; Ric. I. spa; Controric. M.G., T.S.

Cessione di ramo d'azienda – Preesistenza - Autonomia funzionale - Necessità

La cessione del ramo d'azienda deve riguardare una entità economica che conserva la propria identità intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica, sia essa essenziale o accessoria, preesistente al trasferimento.
NOTA
Il Tribunale di Trieste, in accoglimento dei ricorsi proposti dai lavoratori G.M. e T.S., aveva dichiarato illegittima la cessione dei contratti di lavoro dei medesimi da I. spa a I. Mercato, avvenuta anni addietro, osservando l'insussistenza, nel caso di specie, di ramo d'azienda preesistente al trasferimento, nonchè economicamente e funzionalmente autonomo.
Secondo la sentenza di prime cure, non poteva infatti considerarsi tale, ai fini della corretta applicazione della disciplina dettata dall'art. 2112 c.c., l'entità aziendale formalmente individuata dalle parti al momento del trasferimento e quindi ceduta.
La pronuncia veniva nel merito confermata dalla Corte d'Appello territoriale, investita del gravame. Anche in questa fase l'organo giudicante aveva ritenuto non provato in causa che, prima dello scorporo di I. Mercato, avvenuto con accordo tra le parti sociali, esistesse in I. spa un ramo d'azienda che potesse intendersi quale "un autonomo e stabile gruppo di lavoratori funzionalmente organizzato in modo unitario, dotato- nel suo complesso- di tutte le competenze ed esperienze tecniche e professionali necessarie e sufficienti a svolgere, mediante l'utilizzo di propri (e idonei) beni strumentali (materiali e immateriali, mobili e immobili), l'attività di consulenza informatica, sviluppo di software, manutenzione e assistenza dei clienti, rivolta in modo specifico e prevalente (se non esclusivo) a soggetti privati o enti pubblici diversi dalla Regione F. ed enti con questa convenzionati", con ciò offrendone la definizione ai fini della valutazione di legittima trasferibilità.
La società proponeva ricorso per la cassazione della pronuncia, lamentando, per quanto qui di rilievo, la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2112 c.c., sostenendo la sussistenza, nel caso di specie, di tutti i requisiti previsti dalla norma (in particolare al 5 comma, n.d.r.) ai fini dell'applicabilità della disciplina speciale da essa dettata e rilevando altresì come l'avvenuto scorporo del ramo ceduto, fosse stato a suo tempo oggetto di apposito accordo sindacale seguito alla procedura prevista dall'art 47 della L. 428/90; in ragione di ciò, l'individuazione del ramo effettuata in quella sede e non impugnata, doveva ritenersi non più contestabile.
Il Supremo Collegio ha invece ritenuto perfettamente conforme alla giurisprudenza comunitaria (ex plurimis Corte di Giustizia, sentenza 28 settembre 2015, C - 4587/12, nonché 11 luglio 2028, C - 60/17), nonché di legittimità (Cass. 26 luglio 2016, n. 15438), il percorso definitorio e decisorio della sentenza impugnata, ricordando come possa correttamente definirsi ramo d'azienda solo quell'entità economica avente propria identità, quale insieme di mezzi organizzati per lo svolgimento di una precisa attività, e, in conclusione, autonomia funzionale ed economica. A questi requisiti deve, altrettanto necessariamente, affiancarsi quello della sua preesistenza al trasferimento.
Solo in presenza degli indicati presupposti potrà dedursi una legittima cessione di ramo d'azienda.
Di rilievo nella pronuncia anche il passaggio che precisa come l'impugnazione dell'accordo tra parti sociali previsto dall'art. 47 della L. 428/90 per le ipotesi di trasferimento d'azienda che occupi più di quindici lavoratori o di suo ramo, come sopra definito, non possa considerarsi, in assenza di espressa previsione di legge, condizione di procedibilità o proponibilità della domanda di accertamento dell'illegittimità della cessione dei rapporti di lavoro avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., nonchè di conseguente ripristino dei rapporti stessi presso l'originario datore di lavoro.

Giusta causa di dimissioni

Cass. Sez. Lav. 6 marzo 2020, n. 6437

Pres. Berrino; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. S.; Controric. C.N.P. s.p.a

Dimissioni - Giusta causa - Immediatezza - Necessità - Carattere relativo - Sindacabilità in Cassazione - Limiti

Azienda in CIGS - Ritardo nel pagamento delle retribuzioni - Dimissioni - Giusta causa - Declaratoria contrattuale - Interpretazione secondo correttezza e buona fede - Necessità
Il principio dell'immediatezza condiziona la validità e tempestività delle dimissioni del lavoratore per giusta causa e deve essere inteso in senso relativo. Detta valutazione è demandata al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se rispondente al requisito del minimo costituzionale del nucleo motivazionale.
Deve essere esclusa la giusta causa per le dimissioni rassegnate dal lavoratore se l'azienda, che abbia fatto ricorso alla CIGS concorsuale, ritardi per poco tempo nel pagamento della retribuzione nonostante il CCNL preveda espressamente il diritto del lavoratore che si dimetta in tale caso a percepire l'indennità sostitutiva del preavviso. In base a un'interpretazione secondo correttezza e buona fede della declaratoria contrattuale deve, infatti, escludersi che l`inadempienza datoriale, breve ed eccezionale, in quanto in presenza di una situazione di conclamata crisi aziendale, abbia vulnerato l`esigenza garantistica indicata dalle parti sociali posto che il sostentamento del lavoratore risulta comunque assicurato dal trattamento di integrazione salariale
NOTA
Con la sentenza in epigrafe la S.C. torna a disegnare gli incerti perimetri del concetto di giusta causa di dimissioni del lavoratore e ad interrogarsi sui limiti di sindacabilità, in sede di legittimità, del disposto dell'art. 2119 c.c.
Questi i fatti di causa: nel febbraio 2009 un lavoratore si dimette per giusta casa e conviene in giudizio l'ex datrice di lavoro per il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. A supporto della sua richiesta il lavoratore deduce di essere stato costretto a dimettersi dal comportamento del datore che, dopo avergli comunicato l'avvio della procedura di CIGS con decorrenza della sospensione dal 15 dicembre 2008, ha poi ritardato il pagamento della retribuzione relativa ai primi 15 giorni di dicembre (ossia quelli precedenti all'intervento dell'integrazione salariale). Tale inadempimento (i.e. il ritardo nel pagamento della retribuzione, seppur di soli 15 giorni) avrebbe integrato – secondo il lavoratore – una giusta causa di dimissioni (con conseguente obbligo del datore di corrispondergli l'indennità sostitutiva del preavviso), stante la tipizzazione operata dalle parti sociali nell'art. 4 del ccnl di settore.
In entrambi i gradi di giudizio di merito la tesi attorea viene disattesa.
Secondo i Giudici, infatti, il temporaneo inadempimento al pagamento delle retribuzioni per i primi 15 giorni del dicembre 2008, coincisa temporalmente con la richiesta della società di ammissione al concordato preventivo, non costituisce un ritardo intollerabile nell'adempimento delle obbligazioni poste a carico del datore - tale, insomma, da legittimare le dimissioni per giusta causa dei lavoratori. Il ritardo nel pagamento della retribuzione si presenta infatti come un episodio del tutto eccezionale, motivato da una conclamata crisi aziendale e sostanzialmente tollerato dai lavoratori le cui reazioni sono avvenute a distanza di quasi due mesi dalla maturazione del diritto, a conferma della volontà collaborativa necessaria in un momento così complesso per l'impresa. Tra l'atro, secondo i Giudici, la possibilità per il dipendente di fruire della cassa integrazione concorsuale e quindi di disporre di – seppur minimali - mezzi di sostentamento rende la situazione de quo non sovrapponibile all'ipotesi prospettata dalle parti sociali all'art. 4 del ccnl di settore.
Avverso tale decisione il lavoratore propone ricorso per Cassazione articolato in tre diversi motivi; tutti – lo si anticipa sin d'ora – considerati dalla S.C. infondati.
Secondo il ricorrente, la Corte Territoriale ha disatteso, nella sua decisione, i più elementari canoni di ermeneutica contrattuale che avrebbero imposto - nel processo di applicazione della clausola elastica di cui all'art. 2119 c.c. e nell'elaborazione del giudizio inerente alla legittimità delle dimissioni per giusta causa - il richiamo ineludibile alla declaratoria contrattuale collettiva di settore, con la quale (all'art. 4) le parti sociali hanno regolamentato il diritto del lavoratore a rassegnare le dimissioni, ed a percepire l'indennità di preavviso, in ipotesi di ritardo nel pagamento della retribuzione. In altri termini – in base alla tesi attorea - di fronte alla decisione delle parti sociali di assegnare ad un ritardo nella corresponsione delle retribuzioni che si protraesse oltre i 15 giorni, l'effetto di consentire al lavoratore di poter risolvere per giusta causa il rapporto di lavoro, il Giudice non avrebbe potuto operare una ulteriore valutazione in ordine alla gravità o meno dell'inadempimento, avendo già provveduto a tanto le parti sociali.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. disattende tutte le doglianze contenute nel ricorso. In primo luogo, la S.C. ricorda che quando si verte in materia di applicazione di norme elastiche, quali l'art. 2119 c.c., detta applicazione non può essere censurata in sede di legittimità se essa rappresenta la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto. In altre parole l'accertamento della ricorrenza concreta di elementi fattuali integranti gli estremi della giusta causa attiene al piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e quindi incensurabile in cassazione se rispondente al requisito del minimo costituzionale del nucleo motivazionale.
Ebbene, secondo la S.C., la struttura motivazionale che innerva la sentenza impugnata non presenta alcuna delle carenze censurabili in sede di legittimità, mostrandosi adeguatamente argomentata e conforme, nelle valutazioni del materiale probatorio, ai principi di legge e agli insegnamenti della Corte di Cassazione. E, infatti, del tutto correttamente, la Corte territoriale – una volta scrutinato il quadro fattuale emerso in sede istruttoria – ha considerato la reazione del lavoratore rispetto alla maturazione del diritto priva del requisito dell'immediatezza (requisito indispensabile per la validità e tempestività delle dimissioni del lavoratore per giusta causa) e quindi ha escluso l'esistenza di una condotta, di parte datoriale, meritevole di essere sanzionata, tenuto conto anche della crisi in cui versava la società al momento dell'inadempimento e del sostegno al reddito di cui godeva il lavoratore grazie alla cassa integrazione. Su questa scia, la Corte di merito, in conformità al criterio di correttezza e buona fede che governa l'ermeneutica contrattuale e della ragionevolezza, procedendo ad un ponderato bilanciamento degli interessi delle parti, ha giustamente ritenuto non applicabile ai fatti di causa la disposizione collettiva dell'art. 4 del ccnl di settore, la cui ratio è quella di garantire il lavoratore dei necessari mezzi di sostentamento, a fronte di un comportamento inadempiente della parte datoriale che risulti meritevole di sanzione. Ebbene, sulla base di una valutazione ampiamente motivata, e quindi insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, la Corte territoriale è pervenuta alla congrua conclusione che nel caso che qui ci occupa l'inadempienza della società all'obbligazione retributiva, protrattasi per un breve lasso temporale, e in presenza degli altri elementi fattuali emersi nel corso dell'istruttoria (i.e. l'integrazione salariale e l'assenza del requisito dell'immediatezza), non vulnerava l'esigenza garantistica posta dalle parti sociali a fondamento della clausola di cui all'art. 4 c.c.n.l. di settore e pertanto non costituiva giusta causa di recesso.

Criteri per la determinazione della genuinità dell'appalto

Cass. Sez. Lav. 11 marzo 2020, n. 6948

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.F.; Controric. U.S. S.c.p.a.

Appalto - Criteri per la determinazione della genuinità dell'appalto - Autonomia organizzativa e gestionale dell'appaltatore - Rilevanza

In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro l'utilizzazione, da parte dell'appaltatore, di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall'art. 1, comma 1, Legge n. 1369 del 1960, solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto dell'appaltatore. D'altra parte, l'anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell'appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell'economia dell'appalto.
Detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, laddove la descritta presunzione della L. n. 1369 del 1960 è stata oggetto di abrogazione e "non è più richiesto che l'appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione", per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell'appaltante, è possibile provare altrimenti - purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa - la genuinità dell'appalto.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, rigettava il ricorso di un lavoratore volto all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di una società committente di servizi appaltati ad altra società, alle cui dipendenze il lavoratore aveva prestato la propria attività dal 1993 e fino al 30/11/2008.
Tanto il Giudice di prime cure quanto quello del grado di appello ritenevano che l'istruttoria espletata in corso di causa avesse escluso la sussistenza, nella fattispecie, di una ipotesi di appalto di manodopera, con conseguente rigetto delle domande del lavoratore.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che, in particolare, censurava la sentenza impugnata per aver escluso la «presunzione assoluta» di sussistenza di un appalto di mere prestazioni di lavoro di cui all'art. 1 L. n. 369/1960 (oggi abrogata dal D.Lgs. n. 276/2003).
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, ricordando che la presunzione legale assoluta citata dall'art. 1 della L. n. 369/1960, si realizza quando l'impresa appaltatrice utilizzi in maniera preponderante capitali, macchine ed attrezzature appartenenti all'impresa appaltante, senza alcun rilevante apporto, da parte dell'appaltatore, di capitale, know how, software e, in genere, di beni immateriali aventi rilievo preminente nell'economia dell'appalto. La Suprema Corte ha poi aggiunto che «la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una presunzione "iuris et de iure") deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell'oggetto e del contenuto intrinseco dell'appalto» (Cass. n. 25064 del 2013, Cass. n. 16488 del 2009; Cass. n. 4585 del 1994).
Si consideri, d'altra parte, che la presunzione posta dalla legge citata era stata pensata in un'epoca che non conosceva ancora l'automazione della produzione e le tecnologie informatiche. Essa necessitava, pertanto, di un aggiornamento, quale si è avuto con il D.Lgs. n. 276/2003 che, oltre ad abrogare la L. n. 369/1960, ha ridefinito il confine tra appalto lecito e appalto di manodopera.
Oggi non è pertanto più richiesto che «l'appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione», per cui l'appalto resta genuino anche se vi è l'impiego di macchine e di attrezzature di proprietà dell'appaltante, a condizione che venga però fornita la prova della sussistenza di apprezzabili indici di autonomia organizzativa in capo all'appaltatore. Così, «mentre in appalti che richiedono l'impiego di importanti mezzi o materiali cd. "pesanti", il requisito dell'autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull'organizzazione di questi mezzi, negli appalti cd. "leggeri" in cui l'attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all'appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti» (Cass. n. 21413 del 2019).
Sulla scorta di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso del lavoratore.

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