Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Tutela reintegratoria e fatto insussistente

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Licenziamento collettivo e criterio di scelta

Licenziamento collettivo: ambito di applicazione dei criteri di scelta

Il potere disciplinare non può essere esercitato due volte per gli stessi addebiti

Tutela reintegratoria e fatto insussistente

Cass. Sez. Lav. 20 settembre 2016, n. 18418

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Celentano; Ric. E. s.r.l.; Controric. Z.M.;

Art. 18, 4° comma Stat. Lav. - Fatto sussistente ma non antigiuridico - Tutela reintegratoria - Applicabilità

L'insussistenza del fatto contestato di cui all'art. 18 Stat. Lav., come modificato dall'art. 1, comma 42 della legge n. 92 del 2012, comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.

Nota

Il Tribunale di Bergamo, confermando l'ordinanza adottata dal medesimo Tribunale con rito sommario, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato nei confronti del lavoratore, ritenendo insussistente la giusta causa di recesso addotta dalla datrice di lavoro come motivazione del provvedimento espulsivo.

Avverso tale sentenza proponeva reclamo la società datrice di lavoro eccependo, in via preliminare, l'intervenuta decadenza dall'impugnativa di licenziamento. Nel merito, la società evidenziava che le condotte addebitate al lavoratore, e poste a fondamento dell'atto di recesso, erano consistite nel fatto che questi aveva tenuto un atteggiamento litigioso ed offensivo nei confronti del personale, che lo stesso avrebbe avuto il compito di formare; nell'essersi rifiutato di procedere alla negoziazione del superminimo individuale, pattuito come temporaneo e legato, per l'appunto, all'incarico di formatore, che il lavoratore avrebbe dovuto cessare; nell'accusa, rivolta all'azienda, di essere stato demansionato e mobbizzato. La società reclamante rilevava, pertanto, che tali condotte erano sicuramente idonee ad integrare una ipotesi di giusta causa di recesso, impedendo la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro.

In ogni caso, la società evidenziava, altresì, che erroneamente il giudice dell'opposizione, pure avendo accertato la sussistenza delle condotte contestate, aveva applicato la piena tutela reintegratoria e risarcitoria, riconducendo la fattispecie esaminata nella ipotesi di insussistenza del fatto, di cui al quarto comma dell'art. 18 Stat. Lav., mentre avrebbe potuto, al più, applicare la tutela indennitaria, di cui al quinto comma del succitato art. 18.

La società eccepiva, infine, l'aliunde perceptum, avendo lo stesso lavoratore dichiarato nel verbale di causa di aver trovato lavoro fin dal mese successivo al licenziamento.

La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza impugnata, che per il resto confermava, detraeva dall'indennità dovuta a titolo di risarcimento del danno quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società, affidato a tre motivi.

In particolare, la società ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18 L. n. 300/1970, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012, lamentava che la Corte territoriale, pure avendo considerato provati i fatti contestati, aveva erroneamente ritenuto di dover applicare la tutela reintegratoria, senza con ciò considerare che la legge n. 92/2012 prevedeva la sanzione "forte" della reintegra solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicchè ogni valutazione che atteneva al profilo della proporzionalità della sanzione, rispetto alla gravità della condotta contestata, non avrebbe dovuto essere considerata idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, potendo esclusivamente determinare l'applicazione della sanzione indennitaria.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

La Cassazione osservava che la sentenza della Corte territoriale doveva ritenersi in linea con quanto recentemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia (in tal senso, cfr. Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540), secondo cui l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 Stat. Lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra la sanzione espulsiva ed il fatto di modesta illiceità.

In altre parole, l'assenza di illiceità e/o la completa irrilevanza giuridica di un fatto materiale, pur sussistente, devono essere ricondotte all'ipotesi dell'insussistenza del fatto contestato, di cui al quarto comma dell'art. 18 Stat. Lav. che prevede la reintegra nel posto di lavoro; mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l'applicazione della c.d. tutela reale (cfr. Cass. 6 novembre 2014, n. 23669).

Applicando tali principi al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse legittimamente applicato la tutela reintegratoria, avendo accertato l'insussistenza di illiceità e/o antigiuridicità dei fatti addebitati.

Si evidenzia, conclusivamente, che di non poco conto è l'affermazione, seppure sintetica e non riferita al caso concreto esaminato, resa dalla Suprema Corte secondo cui la minore o maggiore gravità del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l'applicazione della c.d. tutela reale. 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 29 settembre 2016, n. 19315

Pres. Venuti; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.A.; Controric. T. S.p.A..

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo - Stato di detenzione del lavoratore per fatti estranei al rapporto di lavoro - Sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione - Conseguenze - Limiti - Valutazione dell'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente - Necessità - Criteri

Lo stato di detenzione del dipendente per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma integra gli estremi della sopravvenuta temporanea impossibilità della prestazione e giustifica il licenziamento solo ove costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente detenuto.

Nota

La società proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma con cui era stata accolta la domanda del dipendente diretta ad ottenere l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il recesso era stato comunicato al dipendente in data 22.11.11 a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna con cui era stata disposta, nei confronti del dipendente, la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per cinque anni.

La Corte d'Appello di Roma accoglieva l'impugnazione della società dichiarando legittimo il licenziamento.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione il dipendente lamentando che l'impossibilità sopravvenuta temporanea allo svolgimento delle mansioni, iniziata nel 2004, era nota alla società da lungo tempo e tale impossibilità doveva essere valutata alla stregua di quanto previsto dall'art. 3 della L. n. 604 del 1966, relativo ai casi di licenziamento per giustificato motivo con preavviso, avendo la società atteso diversi anni prima di comunicare il licenziamento al dipendente.

La suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione, la circostanza che la società abbia atteso circa sette anni prima di adottare il licenziamento è irrilevante non trattandosi di licenziamento disciplinare. Per la Corte la società ha correttamente motivato il licenziamento facendo riferimento all'intollerabile decorso di oltre sette anni di non esecuzione della prestazione lavorativa per fatto imputabile al lavoratore. Infatti, l'impossibilità sopravvenuta parziale per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento ove, in base ad un giudizio "ex ante" - che tenga conto delle dimensioni dell'impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva in essa attuato, della natura ed importanza delle mansioni del lavoratore, nonché del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell'impossibilità sopravvenuta, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell'assenza - costituisca un giustificato motivo oggettivo di recesso, non persistendo l'interesse dal datare di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente.

Nel caso di specie il licenziamento, adottato dopo oltre sette anni di mancata esecuzione della prestazione lavorativa per causa imputabile al lavoratore, non può che ritenersi legittimo anche alla stregua dei parametri di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3, in materia di giustificato motivo oggettivo, non rilevando, a fronte di tale obiettivamente rilevante arco temporale, le dimensioni dell'azienda datrice di lavoro.

E' significativo infine evidenziare che in casi analoghi la Cassazione abbia ritenuto ingiustificato il licenziamento adottato dopo soli due mesi di assenza della prestazione. 

 

Licenziamento collettivo e criterio di scelta

Cass. Sez. Lav. 19 settembre 2016, n. 18306

Pres. Amoroso; Rel. Boghetich; P.M. Celentano; Ric. A.N.F.E.; Controric. A.A.;

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Requisiti della comunicazione ex art. 5, comma 9 L. 223/91 - Specificità - Indicazione puntuale delle modalità di applicazione e di concorrenza dei criteri di scelta - Necessità

In caso di licenziamenti collettivi occorre la puntuale indicazione, come prescrive l'art. 4, comma 9, L. 223/91, dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e delle loro modalità applicative, non potendosi il datore di lavoro limitare alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, ma deve - nella comunicazione - operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione.

Nota

Con ricorso al Tribunale di Palermo un lavoratore ha impugnato il licenziamento collettivo intimatogli sostenendo l'avvenuta violazione dei criteri di scelta. Il Tribunale ha accolto la domanda dichiarando l'illegittimità del recesso e la decisione è stata confermata sia in sede di opposizione che di reclamo.

Avverso tale pronunzia la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi, di cui i primi tre incentrati sugli aspetti di merito e gli altri concernenti questioni relative alle spese.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando il principio di cui alla massima, già ribadito in numerosi precedenti (Cass. 10 luglio 2013, n. 17119; Cass. 5 agosto 2008, n. 21138) e chiarendo che detto principio è applicabile anche all'ipotesi in cui il criterio di scelta applicato sia unico, dovendo anche in tal caso il datore di lavoro specificare le modalità di applicazione del criterio affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado il lavoratore di comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato posto in mobilità o licenziato e quindi di poter contestare il recesso datoriale (Cass. 26 agosto 2013, n. 19576; Cass. 5 giugno 2011, n. 12196). Come, infatti, già chiarito in precedenti specifici, non essendo richiesta per la legittimità del licenziamento collettivo la giusta causa od il giustificato motivo, l'effettiva garanzia per il lavoratore licenziato è esclusivamente di tipo procedimentale. In tale sistema, quindi, il datore deve comunicare il criterio di selezione adottato "con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta" ed il lavoratore può contestare che la scelta sia stata fatta in "puntuale" applicazione di tale criterio. Ma, osserva la Corte, se il datore di lavoro non comunica alcun criterio ovvero ne comunica uno decisamente vago, il lavoratore viene privato della tutela assicuratagli dalla legge, perché la scelta in concreto effettuata non è raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato. Si finirebbe, in sostanza, per predicare l'assoluta discrezionalità del datore di lavoro nell'individuazione dei lavoratori da licenziare e tale non è certo l'impianto della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5 (Cass. 23 dicembre 2009, n. 27165; Cass. 23 agosto 2004 n. 16588).

A valle di tale disamina la Cassazione condivide la valutazione operata dalla Corte territoriale, laddove ha ritenuto che nella concreta fattispecie sottoposta al suo vaglio erano stati individuati i criteri di scelta, ma non anche enucleate le specifiche modalità di loro applicazione, non risultando, quindi, in modo chiaro e trasparente, il concreto modo di operatività della concorrenza dei predetti criteri. 

 

Licenziamento collettivo: ambito di applicazione dei criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 26 settembre 2016, n. 18847

Pres. Di Cerbo; Rel. Ghinoy; P.M. Fresa; Ric. I&O S.p.A.; Controric. F.A., T.N., O.T.; Intimata S.F.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione di apertura della procedura con indicazione di esuberi in più unità produttive - Mancato accordo sindacale - Comparazione tra lavoratori di professionalità equivalente addetti a diverse unità produttive - Limiti - Aggravio di costi connessi al trasferimento - Irrilevanza - Applicazione dei criteri di scelta ad una sola unità produttiva - Illegittimità - Reintegrazione

Quando il progetto di ristrutturazione emergente dalla comunicazione di apertura della procedura o dal successivo accordo sindacale (qualora raggiunto) faccia riferimento a più unità produttive interessate dalla ristrutturazione o soppressione, non può poi tenersi unilateralmente conto, nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza territoriale ad una sola di esse. E' infatti illegittima la scelta che trascuri il possesso da parte dei lavoratori di professionalità equivalente a quella degli addetti ad altre unità produttive parimenti indicate nella comunicazione di apertura, in quanto, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l'azienda e interferenza sull'assetto organizzativo, atteso che, pur nell'ambito dell'assetto produttivo come prefigurato dall'imprenditore, ma al fine di limitare l'impatto sociale della riduzione di personale, non si può aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa collocazione alla perdita del posto di lavoro.

Nota

Una società di call center avviava una procedura di licenziamento collettivo per riorganizzazione aziendale, indicando lavoratori in esubero nelle due unità produttive ubicate nel Lazio. Nella comunicazione di apertura della procedura paventava la possibile unificazione di tali sedi, senza prendere in considerazione la terza unità produttiva, ubicata in Puglia.

A seguito del mancato accordo con le organizzazioni sindacali, l'azienda procedeva a licenziare solamente i lavoratori addetti ad una delle due unità produttive presenti nella regione Lazio, valorizzando a tal fine, in sede di applicazione dei criteri di scelta e in particolare del criterio legale relativo alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (art. 5, L. 223/1991), l'appartenenza a tale sede.

Una parte dei lavoratori licenziati promuoveva ricorso, secondo il c.d. Rito Fornero, per ottenere la declaratoria d'illegittimità dei licenziamenti.

La Corte d'Appello di Roma, in sede di reclamo, conferma l'illegittimità del licenziamento collettivo con conseguente reintegrazione dei lavoratori ai sensi dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970. La Corte territoriale riteneva che la società avesse illegittimamente limitato l'applicazione dei criteri di scelta ai soli lavoratori addetti ad una delle due sedi laziali, tenuto conto che la comunicazione di apertura della procedura riferiva esuberi in entrambe tali sedi.

Avverso tale sentenza la società ricorreva in Cassazione; alcuni lavoratori resistevano con controricorso ed uno restava intimato.

L'azienda lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5, L. 223/1991, sostenendo che, ai fini dell'applicazione dei criteri di scelta, si dovesse tener conto della situazione in essere al momento dell'adozione dei licenziamenti, piuttosto che quella indicata nella comunicazione di apertura. In particolare, la Società deduceva che nelle due sedi non interessate dai licenziamenti, era stata avviata, successivamente all'avvio della procedura, una cassa integrazione guadagni straordinaria in deroga, che in tali sedi vi erano commesse non interessate dagli esuberi, impiegati dipendenti con professionalità diverse, nonché la rilevante distanza geografica della sede pugliese.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, affermando che lo sviluppo successivo della situazione non poteva giustificare la restrizione dell'individuazione della platea dei lavoratori licenziabili ad una sola delle sede presenti nella regione Lazio, tenuto anche conto che la CIGS del personale addetto alle altre sedi (peraltro di breve durata e non riguardante tutto il personale) non poteva avere alcun impatto sull'applicazione dei criteri di scelta, in quanto le organizzazioni sindacali avevano prestato la loro adesione al solo intervento della CGIS, senza accettare in alcun modo le conseguenze che, da tale accordo, la società aveva unilateralmente preteso di far discendere sulla procedura di licenziamento collettivo.

La Suprema Corte ha poi ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 17177/2013) secondo cui, quando la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo faccia riferimento a più unità produttive interessate dalla ristrutturazione, non può tenersi unilateralmente conto nella scelta dei lavoratori da collocare in mobilità dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza ad una sola di esse, essendo illegittima la scelta che trascuri il possesso nei lavoratori di professionalità equivalente a quella degli addetti alle altre unità produttive indicate nella comunicazione di apertura. In particolare, è stato chiarito che non assume rilievo la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l'azienda e interferenza sull'assetto organizzativo della stessa.

Al contrario (come già affermato da Cass. 203/2015 e 4678/2015) solo qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli licenziabili non deve necessariamente interessare l'intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell'imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell'ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla procedura di licenziamento collettivo. 

 

Il potere disciplinare non può essere esercitato due volte per gli stessi addebiti

Cass. Sez. Lav. 12 settembre 2016, n. 17912

Pres. Venuti; Rel. Berrino; P.M. Celentano; Ric. B.A.S.S.I.I.; Controric. L.G.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Esercizio del potere disciplinare per determinati fatti - Reiterazione per gli stessi fatti - Divieto - Precedenti inadempimenti rilevanti a fini disciplinari - Recidiva - Ammissibilità - Condizioni

Il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate ai fini della recidiva.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento intimato da una società ad un proprio dipendente a causa di recidiva oltre la terza volta per delle mancanze punite con una sanzione conservativa ai sensi del CCNL applicato al rapporto di lavoro. Nello specifico, il datore di lavoro aveva proceduto ad irrogare per i singoli addebiti la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, dopodiché, per quegli stessi addebiti, considerati complessivamente ai fini della recidiva, aveva proceduto ad irrogare la sanzione del licenziamento.

La Corte d'appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, rilevando che il datore di lavoro aveva già consumato il proprio potere disciplinare dopo aver irrogato le singole sanzioni della sospensione dalla retribuzione e dal servizio, pertanto non avrebbe potuto applicare per quelle stesse infrazioni, sia pure unitariamente considerate ai fini della recidiva, la più grave sanzione del licenziamento.

Ricorre per Cassazione la società, con unico motivo di ricorso, deducendo che, in base all'interpretazione letterale della norma collettiva, il licenziamento per recidiva non deve essere associato ad una nuova mancanza disciplinare, potendo in ogni caso essere intimato al raggiungimento della recidiva oltre la terza volta per mancanze già tutte singolarmente punite con sanzioni conservative.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha invece affermato che, proprio in virtù della corretta interpretazione letterale della norma collettiva, il licenziamento è irrogabile a partire dalla quarta mancanza per la quale sia prevista la sospensione, ma sempre che la parte datoriale non decida di punire tale nuova mancanza con una sanzione diversa dal licenziamento. Ed infatti, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, il datore di lavoro non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato (cfr. da ultimo Cass. n. 7523/2009).

Ebbene, nel caso di specie la Corte d'appello, con decisione adeguatamente motivata ed esente da rilievi di legittimità, aveva accertato che la società, pur potendo irrogare il licenziamento per recidiva, oltre la terza volta nell'anno solare, in qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione, in occasione della quarta mancanza non lo aveva fatto, scegliendo di irrogare una sanzione conservativa, consumando in tal modo definitivamente il proprio potere disciplinare. Pertanto, la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©