L’eccesso di lavoro straordinario e il danno da usura psico-fisica
Eccesso di lavoro straordinario e danno da usura psico-fisica
Malattia e attività idonee a pregiudicare o ritardare la guarigione
Licenziamento disciplinare
Trasferimento d'azienda illegittimo
Rivendicazione di lavoro subordinato
Eccesso di lavoro straordinario e danno da usura psico-fisica
Cass. Sez. Lav., 29 settembre 2021, n. 26450
Pres. Doronzo; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A.; Controric. S.F.
Orario di lavoro – Lavoro straordinario – Superamento dei limiti – Danno non patrimoniale da usura psico-fisica – Prova dell'an debeatur – Presunzione – Sussiste – Quantum – Gravosità della prestazione e disciplina del CCNL – Rilevanza
La prestazione lavorativa "eccedente", che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell' an in quanto lesione del diritto garantito dall'art. 36 Cost., mentre ai fini della determinazione del quantum occorre tenere conto della gravità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento in oggetto.
NOTA
Un lavoratore adiva l'autorità giudiziaria affermando di aver prestato per il proprio datore di lavoro, nel periodo 2006-2008, lavoro straordinario per un numero di ore ben superiore al limite massimo previsto dalla legge e dal contratto collettivo. Il Tribunale di Torino prima e la Corte territoriale poi, in accoglimento parziale della domanda del lavoratore, condannava la società al pagamento delle maggiorazioni retributive e del risarcimento del danno per il lavoro straordinario prestato. Avverso la decisione della Corte di appello di Torino, la società soccombente proponeva ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo.In particolare, secondo la società ricorrente, il giudice di seconda istanza, del tutto erroneamente, sarebbe pervenuto al riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, conseguente a prestazioni lavorative rese oltre i limiti di legge e di contratto, pur in assenza di qualsivoglia allegazione e prova della natura ed esistenza del danno lamentato, della sua entità, del nesso causale dell'asserito danno, con la propria vicenda lavorativa. In altre parole, gli approdi ai quali sarebbe addivenuta la Corte territoriale non risultano coerenti con i principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità, alla stregua dei quali l'accertamento del diritto al risarcimento del danno per lavoro straordinario, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione in ordine alla natura ed alle caratteristiche proprie del pregiudizio che si asserisce risentito. Secondo la società, quindi, del tutto erroneamente il giudice del gravame avrebbe fatto ricorso ad una nozione di prova del danno in via presuntiva, inammissibile nel nostro ordinamento.Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte rigetta il ricorso.E, infatti, secondo la S.C., la pronuncia della Corte distrettuale, nei suoi esiti applicativi, si colloca nel solco di un consolidato orientamento espresso in sede di legittimità, secondo cui la prestazione lavorativa "eccedente", che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura – psicofisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell'an in quanto lesione del diritto garantito dall'art. 36 Cost., mentre ai fini della determinazione del quantum occorre tenere conto della gravosità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolarne il risarcimento.E, dunque, come accertato in molti arresti di legittimità inerenti a fattispecie sovrapponibili a quella scrutinata nella sentenza in epigrafe, non può ritenersi sussistente alcun difetto di allegazione e prova quando, come nel caso di specie, siano stati prospettati dal ricorrente nei gradi di merito sia il numero delle ore straordinarie svolte che il periodo di riferimento. Si tratta infatti di elementi dai quali la Corte territoriale ben può rilevare la "abnormità" della prestazione eseguita e, quindi, tale di per sè da compromettere l'integrità psico-fisica e la vita di relazione del lavoratore.
Malattia e attività idonee a pregiudicare o ritardare la guarigione
Cass. Sez. Lav., 1° ottobre 2021, n. 26709
Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. V.B.; Controric. T. S.p.A.Malattia – Attività idonee a pregiudicare o ritardare la guarigione – Giusta causa – Sussiste – Rientro al lavoro – Irrilevanza – Attività incompatibili con lo stato di malattia – Licenziabilità
Lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a fare presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.
NOTA
La Corte di Appello di Bologna confermava il provvedimento reso dal primo giudice che aveva concluso per la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore assente per malattia che aveva assunto, nel predetto periodo, uno stile di vita non compatibile con la patologia sofferta.Secondo la Corte distrettuale, il fatto che il dipendente avesse spostato involucri di terriccio nonostante lo stato di malattia per lombosciatalgia acuta, poteva agevolmente legittimare l'irrogazione della massima sanzione espulsiva in quanto integrante una condotta inidonea a pregiudicare la guarigione e a ritardare, altresì, il rientro al lavoro.Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in Cassazione il lavoratore assumendo, in sintesi, la riconducibilità della condotta a meri incombenti di vita quotidiana non sussumibili nella nozione di giusta causa e al fatto che il dipendente fosse rientrato al lavoro allo scadere della malattia.Nel rigettare il ricorso, la Corte di Cassazione ha ribadito come lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro «oltre che nelle ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia», anche quando la stessa «valutata con un giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio». Secondo i giudici di legittimità, inoltre, in quest'ultimo caso, non assume alcuna rilevanza la «tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia» potendo, in ogni caso, la parte datoriale procedere al licenziamento disciplinare in ragione della violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà insiti nel rapporto negoziale.
Licenziamento disciplinare
Cass. Sez. Lav., 1° ottobre 2021, n. 26710
Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. C.S.; Controric. P.I. S.p.A.
Giusta causa – Proporzionalità della sanzione – Correttezza e buona fede – Contraffazione – Inadempimento grave – Sussistenza
È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente con mansioni di specialista finanziario che abbia apposto le firme contraffatte di due clienti nel corso di una serie di operazioni concernenti la revoca della richiesta di finanziamento del quinto dello stipendio e la sottoscrizione di quote di fondi di investimento. Tale condotta viola, infatti, i doveri di correttezza e buona fede, tradisce un atteggiamento spregiudicato, posto in essere in deliberata violazione delle regole che governano e strutturano il rapporto di lavoro subordinato, in consapevole rottura del rapporto di fiducia intercorrente sia con la parte datoriale che con la clientela.
NOTA
La Corte d'Appello di Caltanissetta confermava la pronuncia del giudice di prima istanza con la quale era stata respinta la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso intimatogli per violazioni dolose di leggi, regolamenti e dei doveri d'ufficio, di gravità tale da non consentirne la prosecuzione. La Corte distrettuale perveniva a tale convincimento all'esito di un'ampia ricognizione del quadro probatorio acquisito, alla cui stregua era emersa l'evidenza del compimento, da parte del dipendente, di gravi irregolarità rilevate nel contesto di attività di vigilanza dal servizio ispettivo, che aveva riscontrato l'apposizione da parte del ricorrente – specialista finanziario – di firme contraffatte di due clienti, nel corso di una serie di operazioni concernenti la revoca della richiesta di finanziamento del quinto dello stipendio e la sottoscrizione di quote di fondi di investimento. Il giudice del gravame rimarcava che la condotta falsificante posta in essere dal ricorrente, pur scriminata sul piano penalistico, restava trasgressiva dei doveri di correttezza inerenti alla obbligazione lavorativa, tradiva un atteggiamento spregiudicato, posto in essere in deliberata violazione delle regole che governano e strutturano il rapporto di lavoro subordinato, in consapevole rottura del rapporto di fiducia intercorrente sia con la parte datoriale che con la clientela. Avverso la decisione della Corte d'Appello, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione lamentando la violazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione espulsiva irrogatagli. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità secondo i quali «la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare deve essere in ogni caso elaborata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, anche quando si riscontri l'astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo» e che «l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore». La Corte di legittimità ha quindi rigettato il ricorso affermando che «nello specifico la Corte distrettuale si è attenuta ai suenunciati principi giurisprudenziali, procedendo ad una ricognizione approfondita delle acquisizioni probatorie; qualificando in termini di gravità la condotta del lavoratore, il quale aveva arrecato un evidente vulnus ai principi di correttezza e buona fede poste a presidio della nascita e dell'adempimento delle obbligazioni che scandiscono il rapporto di lavoro, mediante la contraffazione, in due occasioni, delle sottoscrizioni apposte da clienti, a moduli relativi alla definizione di operazioni finanziarie; operando, dunque, una corretta sussunzione dei fatti descritti nell'ambito della categoria dell'inadempimento grave, rubricato all'art.2119 c.c. per la violazione del complesso di regole in cui si sostanzia la civiltà del lavoro in un determinato contesto storico-sociale ovverosia degli standards normativi che rispetto a detti principi si trovano in rapporto essenziale ed integrativo».
Trasferimento d'azienda illegittimo
Cass. Sez. Lav., 28 settembre 2021, n. 26262
Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Sgroi; Ric. B.G.+5; Controric. T.I. S.p.A.Lavoro subordinato – Trasferimento d'azienda (nella specie ramo) – Illegittimità – Ripristino rapporto di lavoro con il cedente – Vicende del rapporto di lavoro (di fatto) con il cessionario – Irrilevanza – Esistenza di due rapporti giuridici con cedente e cessionario
In caso di trasferimento d'azienda illegittimo, a fronte di una prestazione solo apparentemente unica, i rapporti di lavoro esistenti sono due: uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa. In altre parole, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n'è un'altra giuridicamente resa in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per il rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto.
NOTA
Nella fattispecie in esame alcuni lavoratori si vedevano riconoscere la illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda che li aveva interessati e conseguentemente accogliere la loro richiesta di riammissione in servizio da parte della cedente. Successivamente venivano emessi dei decreti ingiuntivi per il mancato pagamento delle retribuzioni dovute da parte della cedente, che non aveva dato luogo alla riammissione in servizio. Gli stessi, su istanza della società cedente, venivano però revocati dalla Corte d'Appello di Venezia sulla base del fatto che i lavoratori, che medio tempore erano stati licenziati dalla cessionaria nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, avevano conciliato la causa con quest'ultima relativa all'impugnazione del licenziamento.La Corte d'Appello aveva ritenuto l'unicità del rapporto giuridico tra lavoratore da un lato e cedente e cessionaria dall'altro, pertanto la risoluzione del rapporto originato dal trasferimento di ramo d'azienda con la cessionaria e la rinuncia ad ogni relativa pretesa economica avrebbero determinato, sempre secondo l'argomentazione della Corte territoriale, il venir meno dell'interesse ad agire dei lavoratori anche in relazione alle pretese nei confronti della cedente.Contro tale decisione proponevano ricorso in Cassazione i lavoratori interessati sostenendo, per quanto di interesse, la erroneità della decisione della Corte d'Appello nella parte in cui aveva ritenuto l'unicità del rapporto di cui sopra, escludendo che l'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda avesse dato luogo a due distinti rapporti giuridici con cedente e cessionario, con conseguente ininfluenza delle vicende dell'uno sull'altro.La Suprema Corte ha accolto le censure e cassato la sentenza.In particolare la Suprema Corte ha dapprima rilevato che solo in caso di valido trasferimento d'azienda vi è continuità del rapporto di lavoro, che resta unico ed immutato, mentre laddove questo sia dichiarato illegittimo il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella disponibilità dell'originario cedente. Conseguentemente si creano due rapporti di lavoro, uno de iure con il cedente ripristinato dalla dichiarazione di nullità del trasferimento e l'altro de facto, derivante dallo svolgimento della prestazione in favore del cessionario.Conseguentemente le vicende del rapporto de facto con il cessionario sono ininfluenti rispetto al rapporto con il cedente.
Rivendicazione di lavoro subordinato
Cass. Sez. Lav., 29 settembre 2021, n. 26452
Pres. Doronzo; Rel. Lorito; Ric. S.I. S.r.l.; Controric. G.U.L.
Rivendicazione lavoro subordinato – Indici – Volontà iniziale delle parti – Nomen iuris – Rilevanza – Limite – Comportamento delle parti posteriore – Rilevanza
Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l'iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen iuris non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l'accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista.
NOTA
La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza di primo grado, accertava la natura subordinata e a tempo indeterminato del rapporto intercorso, nel periodo dal 21 aprile 2011 al 30 giugno 2014, fra la società ed il lavoratore, con inquadramento di quest'ultimo nel IV livello del CCNL Emittenti Radiotelevisive, ed ordinava alla società di ripristinare il rapporto di lavoro conferendo allo stesso lavoratore le medesime mansioni in precedenza espletate ("attività di assistente di studio") o altre equivalenti, condannando la datrice di lavoro al pagamento delle indennità di cui all'art. 32, comma, 45, L. 183 del 2010 nella misura di otto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, poiché la stessa avrebbe «scrutinato la fattispecie non trascurando il nomen juris del contratto – che rappresenta solo uno degli elementi di valutazione per qualificarne la natura – ma formulando il proprio giudizio all'esito di un'ampia ricognizione delle testimonianze raccolte, così pervenendo alla qualificazione del rapporto in termini di collaborazione coordinata e continuativa disciplinata dagli artt. 61–69 dlgs 2003».In sostanza la Corte di Appello «all'esito dello scrutinio delle acquisizioni probatorie», riteneva che «le caratteristiche del rapporto di lavoro erano maggiormente confacenti alla nozione della parasubordinazione, avendo l'appellante svolto prestazioni lavorative inserite in un'ampia organizzazione "caratterizzata nel caso in esame da una chiara continuità nel tempo e nella messa a disposizione delle energie lavorative"», e, nel riferirsi al «progetto di lavoro», evidenziava che «esso non appariva enunciato nel contratto sottoscritto dalle parti, onde rinveniva applicazione la sanzione della conversione automatica in rapporto di lavoro subordinato ex art.69 c.1 d.lgs. n. 276/2003».Sul punto la Corte di Cassazione precisa che la Corte di Appello si è conformata all'orientamento della stessa, secondo cui «ammettere la conversione di una mera collaborazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato, in mancanza di progetto, non contraddice principi superiori né costituzionali; si tratta di realizzare una parificazione di disciplina, di garantire uno standard di trattamento minimo per rapporti continuativi (in mancanza di progetto) e connotati da una comune subordinazione di tipo economico; e ciò rientra nella potestà del legislatore oltre ad apparire giustificato, in ragione della comune appartenenza all'area della "dipendenza economica" e della connessione funzionale delle stesse prestazioni lavorative continuative con l'impresa altrui (in ragione cioè della esistenza della para–subordinazione in capo al co.co.co)» e che «l'assenza del progetto prevista dal primo comma dell'art.69 (…) concretizza il venir meno dell'elemento costitutivo della fattispecie legale, che si caratterizza proprio in virtù dell'esistenza di uno specifico progetto con i requisiti e le caratteristiche dettati dalla legge; e tale ipotesi ricorre sia quando non sia stata provata mediante la produzione del contratto o l'espletamento delle prove ammissibili la pattuizione di alcun progetto (così come nella specie), sia quando il progetto effettivamente pattuito non sia conforme alle sue caratteristiche, difettando gli elementi di specificità ed autonomia che sono ritenuti necessari (vedi sul punto Cass. 29/3/2017 n.8142)».Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il ricorso della datrice di lavoro.