Rassegna della Cassazione
Pluralità di fatti contestati e licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare per scarso rendimento
Natura esemplificativa delle ipotesi di giusta causa contenute nei Ccnl
Recidiva prevista dalla contrattazione collettiva come motivo di licenziamento
Licenziamento per giusta causa e dolo
Pluralità di fatti contestati e licenziamento per giusta causa
Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2017, n. 25154
Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. G.N.; Controric. E.S.E. S.p.a.;
Licenziamento per giusta causa - Pluralità di fatti contestati - Legittimità - Idoneità dei singoli addebiti a giustificare il recesso - Eventuale contestazione irrituale di una parte di esse - Conseguenze
Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l'infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento.
Nota
Un dipendente di un’impresa operante nel settore elettrico veniva licenziato per giusta causa, tra l’altro, per aver ripetutamente effettuato, su richiesta telefonica di persona estranea alla società, una serie di attività relative a rapporti intestati a clienti terzi, rilasciando informazioni su di essi in violazione della normativa sulla tutela ed il trattamento dei dati personali ed utilizzando a tal fine strumenti e sistemi informatici aziendali.
La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva il ricorso del lavoratore volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli, ritenendo accertati gli addebiti sopra descritti. Tali fatti sono stati considerati idonei ad integrare una giusta causa di recesso perché avevano consentito al soggetto estraneo all’azienda di ottenere il disbrigo di varie pratiche in violazione delle regole aziendali e, quindi, con modalità suscettibili di strumentalizzazioni illecite, tanto è vero che il terzo era stato condannato in sede penale per i reati di associazione a delinquere finalizzata al furto aggravato di energia elettrica e ricettazione.
Il dipendente ricorreva in Cassazione; l’impresa resisteva con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso, il lavoratore impugnava la sentenza per non aver adeguatamente valutato che solo alcuni degli addebiti oggetto della contestazione disciplinare erano stati accertati e che, quindi, il recesso per giusta causa doveva considerarsi sproporzionato rispetto agli inadempimenti sanzionali.
Il suddetto motivo di ricorso è stato ritenuto inammissibile e comunque infondato in ragione del consolidato principio giurisprudenziale (già affermato in Cass. 24574/2013 e 12195/2014) secondo cui, qualora la giusta causa di licenziamento sia consistente, non in un fatto singolo, ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi costituisce autonomamente una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che non venga dimostrato che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, gli addebiti sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
Il lavoratore lamentava altresì che la Corte territoriale, nel ritenere sussistente una giusta causa di recesso, avesse omesso di tener conto dell’intensità dell’elemento intenzionale, della genericità delle mansioni espletate dal ricorrente, della durata ventennale del rapporto di lavoro nonché dell’assenza di precedenti illeciti disciplinari.
La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile anche tale motivo, in quanto finalizzato ad una generica rivisitazione del giudizio di merito, respingendo il ricorso.
Licenziamento disciplinare per scarso rendimento
Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2017, n. 26676
Pres. Nobile; Rel. De Gregorio Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. A.R.C.; Controric. P.E.
Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare per scarso rendimento - Inadempimento obblighi contrattuali - Negligenza del lavoratore - Necessità - Onere della prova - Fattispecie
Il datore di lavoro che intenda far valere lo scarso rendimento come notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, avuto riguardo alla normale capacita ed operosità della maggioranza dei lavoratori di pari qualificazione professionale ed addetti alle medesime mansioni, ma deve altresì provare che la causa dello scarso rendimento deriva da negligenza nell'espletamento della prestazione lavorativa. Pertanto, in mancanza di prova di un difetto di attività da parte del lavoratore, il solo dato del mancato raggiungimento degli obiettivi programmati dal datore di lavoro non legittima la risoluzione del rapporto per scarso rendimento.
Nota
Nel caso in esame la Corte di Appello di Roma ha rigettato il gravame della società avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso del lavoratore promosso contro il licenziamento intimato per scarso rendimento. Secondo la Corte di Appello non sussistevano gli estremi della negligenza inadempiente, tale da poter giustificare il licenziamento per scarso rendimento del dipendente.
Infatti, secondo la Corte di merito, considerato che il rapporto di lavoro subordinato comporta a carico del dipendente l'obbligo di porre a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative, per legittimare il licenziamento per scarso rendimento occorre che la società provi il comportamento negligente del lavoratore in quanto elemento costitutivo del recesso per giustificato motivo soggettivo e che l'inadeguatezza della prestazione resa non sia imputabile all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore e a fattori socio-ambientali.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la Società contestando alla Corte di aver errato nel ritenere non provato lo scarso rendimento del dipendente.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
Per la Cassazione nel caso in esame non è stato dimostrato che il mancato raggiungimento del risultato produttivo fosse derivato da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale attività e l’esistenza di un'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati per il dipendente e quanto effettivamente realizzato nel periodi di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti.
Insiste la Suprema Corte che per poter considerare legittimo il licenziamento per scarso rendimento la società è tenuta a provare il comportamento negligente del dipendente, in quanto elemento costitutivo del recesso per giustificato motivo soggettivo e che l'inadeguatezza del risultato non sia ascrivibile all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore ed a fattori socio-ambientali.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione, il Tribunale aveva correttamente accertato non solo che i parametri usati dall'azienda per confrontare la performance del venditore non erano condivisibili perché disomogenei, ma anche la mancanza di prova della negligenza ed inattività del lavoratore.
Natura esemplificativa delle ipotesi di giusta causa contenute nei Ccnl
Cass. Sez. Lav. 30 novembre 2017, n. 28798
Pres. Macioce; Rel. Tricomi; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. P.V.; Controric. M.I.U.R. + U.S.R.C.;
Licenziamento disciplinare - Elencazione ipotesi contenute nei contratti collettivi - Natura meramente esemplificativa - Sentenza penale di condanna per fatti estranei alla prestazione - Sussistenza di autonomo potere di valutazione del giudice in ordine al venir meno del requisito della fiducia
In tema di licenziamento per giusta causa, anche con riferimento alle ipotesi di illeciti disciplinari tipizzati dal legislatore, deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato.
Nota
La Corte d'Appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza del Tribunale di Locri, ha dichiarato la legittimità del licenziamento senza preavviso intimato da un istituto scolastico ad un assistente amministrativo a seguito di definitiva sentenza penale di condanna emessa nei suoi confronti. In primo grado il recesso era stato dichiarato illegittimo avendo il giudice ritenuto tardiva, in base alle specifiche previsioni del CCNL di comparto, la riattivazione della procedura disciplinare all’esito della sospensione attuata in attesa dell’irrevocabilità della sentenza penale. La Corte d’Appello modifica tale parte della decisione ed afferma nel merito la piena proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condanna a quattro anni e otto mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso riportata dal dipendente, del tutto incompatibile con l’esercizio di un impiego istituzionale da svolgersi, peraltro, all’interno di una scuola.
Avverso tale decisione viene proposto ricorso per Cassazione affidato a più motivi, tra cui, per quanto qui di interesse, la violazione ed erronea applicazione delle previsioni del contratto collettivo nonchè dei criteri di proporzionalità tra fatti contestati e sanzione. In particolare il ricorrente lamenta che i fatti oggetto di accertamento penale non riguardavano la sua attività lavorativa e, come tali, non erano contemplati dal regolamento disciplinare contenuto nel CCNL.
La Suprema Corte respinge il motivo, affermando il principio di cui alla massima già sancito in termini molto simili in recenti precedenti (Cass. 9 gennaio 2017, n. 209, Cass. 25 maggio 2016, n. 10842; Cass. 13 gennaio 2017, n. 1315). E’, infatti, ormai pacifico che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa sicchè non preclude un’autonoma valutazione del giudice del merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore ( Cass. 12 febbraio 2016, n. 2830).
Il ricorso viene, pertanto, respinto.
Recidiva prevista dalla contrattazione collettiva come motivo di licenziamento
Cass. Sez. Lav. 28 novembre 2017, n. 28417
Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Fresa; Ric. C.C.B. S.r.l.; Controric. V.R.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Recidiva prevista dalla contrattazione collettiva come motivo di licenziamento - Valutazione in concreto della gravità dei singoli fatti addebitati - Necessità - Fattispecie
La previsione della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di licenziamento, non esclude il potere-dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva, ai sensi degli artt. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, 2119 cod. civ. e 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Nota
Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta intimato ad un lavoratore, avente ad oggetto ripetuti episodi di negligente esecuzione della prestazione lavorativa.
La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, rilevando che, nel caso di specie, la recidiva era stata invocata come elemento costitutivo della mancanza addebitata al lavoratore, senza che, tuttavia, fosse stata oggetto di puntuale richiamo nella lettera di contestazione, nella quale il datore di lavoro si era limitato ad utilizzare l’inciso “per l’ennesima volta”.
Ricorre per cassazione la Società, deducendo che la Corte di merito aveva dichiarato il licenziamento illegittimo sulla base del solo rilievo che la recidiva doveva ritenersi elemento costitutivo della fattispecie e che, tuttavia, non aveva formato oggetto di contestazione, in tal modo trascurando qualsivoglia necessario esame in merito alla gravità delle mancanze descritte nella lettera di contestazione ed alla loro idoneità a giustificare il recesso.
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, affermando innanzitutto che la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva, in relazione a precedenti mancanze, come ipotesi di licenziamento, non esclude il potere-dovere del giudice di valutare la gravità dell’addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva. La giurisprudenza di legittimità si era già espressa in tal senso in passato, affermando che «gli art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604, 2119 c.c. e 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, che costituiscono norme inderogabili in favore del lavoratore come contraente più debole, prevedono per il lavoratore, nei cui confronti debba essere applicata una sanzione disciplinare (e, tra queste, il licenziamento) il principio della proporzionalità della sanzione all'infrazione commessa e quello della difesa. Ne consegue che sono nulle, per contrasto con norme imperative di legge, le clausole della contrattazione collettiva che prevedano l'applicazione automatica di una sanzione disciplinare conservativa o espulsiva che prescinda dalla valutazione della sua proporzionalità rispetto alla infrazione commessa dal lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo; la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in relazione a precedenti mancanze come ipotesi di licenziamento non esclude quindi il potere - dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva» (Cass. n. 14041/2002 e, nello stesso senso anche Cass. n. 26741/2014).
Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la sentenza impugnata aveva totalmente omesso di esaminare e valutare il fatto contestato, limitandosi a rilevare che la recidiva era indicata come elemento costitutivo della mancanza posta alla base del provvedimento espulsivo, senza che tuttavia vi fosse alcuna specifica indicazione degli addebiti di natura disciplinare in precedenza contestati al lavoratore.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata.
Licenziamento per giusta causa e dolo
Cass. Sez. Lav. 4 dicembre 2017, n. 28962
Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. P.I. S.P.A.; Controric. I.V.;
Licenziamento per giusta causa - Previsione contrattuale - Violazione dolosa - Dolo specifico - Necessità - Non sussiste
Ai sensi dell’art. 54, comma VI, lett. C) del CCNL di settore laddove è prevista l’irrogazione del licenziamento senza preavviso nel caso di “violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare danno o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi”, al fine di ritenere integrato il dolo non è necessaria la sussistenza di un dolo specifico, consistente nell’intento di conseguire un profitto e/o interessi personali, bensì è sufficiente che ricorra il dolo generico.
Nota
La Corte di Appello di Salerno confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, con conseguente condanna della società conventa alla reintegra del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato, ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra. Le violazioni contestate al lavoratore, e poste a fondamento del licenziamento impugnato, consistevano nell’esecuzione di molteplici operazioni di rimborso di titoli di Bancoposta intestati a persone decedute, senza che fossero state aperte le relative pratiche di successione e, dunque, senza aver proceduto alla corretta individuazione degli eredi legittimi.
A fondamento della decisione la Corte territoriale sosteneva che, all’esito delle verifiche effettuate dagli organi ispettivi della società, non era affatto emerso che la condotta tenuta dal dipendente fosse finalizzata al conseguimento di un interesse personale, o che comunque tale condotta avesse arrecato alcun tipo di pregiudizio al datore di lavoro.
Pertanto, la Corte territoriale riteneva che le condotte addebitate, lungi dall’integrare gli estremi di violazioni dolose di leggi, regolamenti o dei doveri di ufficio contemplate dall’art. 54 del CCNL di settore, invocato a fondamento del recesso, erano in realtà annoverabili tra le meno gravi infrazioni consistenti nell’abituale negligenza ed inosservanza di leggi, regolamenti ed obblighi di servizio, rispetto alle quali era prevista, per espressa previsione del CCNL, l’irrogazione di mere sanzioni conservative.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso la società, fondato su di un unico ed articolato motivo.
In particolare, la società denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 3 L. n. 604 del 1966, con riferimento alle c.d. clausole elastiche, osservando che la Corte di appello avesse errato nell’escludere il carattere doloso della condotta contestata, in quanto affinchè possa ritenersi sussistente il dolo non è necessario che la condotta sia finalizzata a conseguire un determinato profitto, ma è sufficiente che venga consapevolmente e volutamente posta in essere una condotta irresponsabile, in spregio ai doveri di ufficio, tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, incidendo negativamente sull’aspettativa da parte del datore di lavoro di un futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso.
La Suprema Corte, richiamando propri precedenti conformi (cfr. Cass. 9 luglio 2015, n. 14324), ha osservato che la Corte territoriale aveva erroneamente escluso la riconducibilità degli addebiti formulati nel novero delle infrazioni previste dall’art. 54, comma VI, lett. C del CCNL di settore, invocato a fondamento del licenziamento, sulla base dell’assunto secondo cui la condotta contestata fosse priva del carattere doloso.
La Suprema Corte ha osservato che affinchè possa ritenersi integrata l’ipotesi contrattuale in oggetto - laddove fa riferimento a “violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare danno o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi” - non è necessario che sussista un dolo specifico o intenzionale, ossia caratterizzato dall’intento di conseguire una determinata finalità, bensì è sufficiente che ricorra esclusivamente un dolo generico.
La Cassazione ha, inoltre, escluso che al fine di poter ritenere realizzata l’ipotesi contrattuale in oggetto fosse necessario fornire la prova del danno effettivamente arrecato all’azienda, essendo sufficiente la mera potenzialità dannosa della condotta contestata.