Rapporti di lavoro

Ritorsivo o discriminatorio licenziamento sempre nullo

Le modifiche introdotte dal Dlgs 24/2023 sembrano quasi creare una fattispecie ibrida tra le due ipotesi

immagine non disponibile

di Angelo Zambelli

La tutela per il licenziamento del whistleblower è stata di recente oggetto di modifiche da parte del Dlgs 24/2023, attuativo della direttiva Ue 2019/1937.

In precedenza, questa protezione era riconducibile alla previsione di un generico «divieto di atti di ritorsione o discriminatori» nei confronti del segnalante per motivi collegati alla segnalazione (articolo 6, comma 2-bis, del Dlgs 231/2001, introdotto dalla legge 179/2017).

Nonostante la norma menzionasse indifferentemente discriminazione e ritorsione, e sebbene la sanzione fosse in entrambi i casi quella della nullità, le due fattispecie non erano affatto sovrapponibili, soprattutto in punto di regime processuale, più favorevole al lavoratore per il licenziamento discriminatorio, in cui non è necessario dimostrare la volontà di nuocere.

A livello concettuale, era innegabile che la definizione – di matrice interpretativa – di licenziamento ritorsivo, quale ingiusta e arbitraria reazione a fronte di un comportamento legittimo del lavoratore, meglio si attagliava al licenziamento dovuto alla segnalazione di illeciti, rispetto a quella di licenziamento discriminatorio. Ostava, infatti, alla riconduzione del licenziamento del whistleblower nell’alveo della discriminazione rigorosamente intesa anche il carattere tassativo dei fattori di rischio in presenza dei quali la discriminazione è riconosciuta sulla base della normativa di settore.

Anche nel nuovo contesto normativo le tutele previste per il licenziamento del whistleblower continuano a gravitare intorno ai due poli della discriminazione/ritorsione, sia pure con alcune novità di non banale interpretazione.

Il nuovo decreto alimenta, infatti, l’equivoco circa la sovrapposizione tra ritorsione e discriminazione quando si parla del licenziamento del segnalatore di illeciti.

Così, da un lato, l’articolo 17, comma 4, del Dlgs 24/2023 include espressamente il licenziamento del whistleblower tra le svariate ipotesi di ritorsione che vengono esemplificate, riprendendo pedissequamente quelle contenute nella direttiva, ivi compresa la discriminazione.

Dall’altro, il nuovo decreto modifica l’articolo 4 della legge 604/1966, in tema di licenziamento discriminatorio, includendovi espressamente anche quello «conseguente all’esercizio di un diritto ovvero alla segnalazione, alla denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (Ue) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019».

Ma vi è di più, in quanto viene introdotto un regime processuale, tanto unico quanto eccezionale, per le ritorsioni – che ricomprendono, appunto, anche il licenziamento – contro il whistleblower. La probatio diabolica della volontà di nuocere, tradizionalmente richiesta in caso di licenziamento ritorsivo, viene sostituita da una sostanziale inversione dell’onere probatorio, che ricorda quella prevista dall’articolo 28, comma 4, del Dlgs 150/2011 in materia di discriminazioni: è onere del datore di lavoro, infatti, provare che il licenziamento si basa su fatti estranei alla segnalazione.

Dunque oggi anche la ritorsione, ma solo quella contro il whistleblower, opera oggettivamente e senza la necessità di dimostrare l’elemento soggettivo dell’agente. Il licenziamento ritorsivo del whistleblower sembra, quindi, attirato nell’area del licenziamento discriminatorio, alla luce sia della modifica dell’articolo 4 della legge 604/1966, sia del nuovo regime processuale, portando a chiedersi se sia nata la fattispecie ibrida della discriminazione ritorsiva.

In ogni caso, che venga giudicato ritorsivo o discriminatorio, il licenziamento del whistleblower sarà sempre dichiarato nullo dal giudice.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©