Sì alla disdetta unilaterale dell’integrativo ma resta la tutela dei diritti acquisiti
La crisi senza precedenti innescata dalla pandemia sta imponendo alle imprese un radicale ripensamento degli attuali modelli organizzativi. I temi dell’efficientamento e del contenimento del costo del lavoro giocheranno un ruolo decisivo nella partita del rilancio e, ancor di più, della sopravvivenza di molte aziende.
Negli anni della crescita economica caratterizzati da un’economia espansiva, le imprese hanno accordato ai propri dipendenti condizioni migliorative rispetto alla regolamentazione minima dettata dalla legge e dalla contrattazione collettiva nazionale, in un’ottica attrattiva, di condivisione dei risultati e di employer branding.
Tali benefici si sono concretizzati, ad esempio, sotto forma di premi – spesso disancorati da parametri di produttività – legati all’espletamento di determinate mansioni, all’anzianità e, financo, alla “presenza in servizio”; di riconoscimento di mensilità aggiuntive e maggiorazioni su istituti contrattuali.
Se già prima della pandemia, con la crisi del 2008 e il diffondersi del fenomeno del cosiddetto dumping contrattuale, molte realtà hanno messo in discussione la sostenibilità dei sistemi fino ad allora concepiti, la platea degli operatori che, nell’era post Covid, guarderanno alla revisione dei pregressi trattamenti migliorativi e alla riduzione del costo del lavoro è destinata a crescere esponenzialmente, in uno scenario che vede oggi a rischio, in alcuni casi, la continuità aziendale.
Ma la possibilità per il datore di lavoro di intervenire unilateralmente sui trattamenti in corso deve essere attentamente verificata, in base alla fonte istitutiva degli stessi.
Contratti aziendali
Se i trattamenti in corso sono stati istituiti dalla contrattazione aziendale, il datore può intervenire anche unilateralmente su questo fonte. Ciò in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (articolo 2077 del Codice civile), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo e individuale.
In questo caso, le modifiche in senso peggiorativo nei confronti del lavoratore sono quindi ammissibili, ma con alcuni limiti. In primo luogo la modifica, per quanto peggiorativa, è legittima ove non ne derivi la lesione della retribuzione adeguata ex articolo 36 della Costituzione che, di norma, trova il proprio parametro nella contrattazione collettiva nazionale di riferimento.
In secondo luogo, l’intervento peggiorativo sulle voci della contrattazione integrativa trova un limite invalicabile nelle previsioni del contratto individuale e nei cosiddetti diritti quesiti, già entrati a far parte del patrimonio di diritti del lavoratore e, come tali, immodificabili. Rientrano in questa fattispecie, ad esempio, il premio di produttività maturato nell’anno precedente, anche se il pagamento è differito all’anno successivo, o gli scatti di anzianità maturati nella vigenza del contratto poi disdettato.
L’uso aziendale
In assenza di una fonte collettiva, ricorre l’ipotesi della “prassi” o “uso aziendale” in presenza di un reiterato comportamento del datore di lavoro, che riconosce spontaneamente e in via continuativa a tutti i dipendenti, o a categorie di lavoratori omogenee, un trattamento non previsto né dalla contrattazione collettiva né dai contratti individuali di lavoro.
L’attuale orientamento giurisprudenziale in tema di “uso aziendale”, superando un precedente indirizzo, ha statuito che tali condizioni di miglior favore integrano un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro e non si inseriscono, ex articolo 1340 del Codice civile nei contratti individuali.
Pertanto, per agire sugli effetti dell’uso aziendale sarà possibile operare mediante contrattazione collettiva che potrà modificare l’uso sia in melius che in peius.
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