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Il comporto e la computabilità delle assenze per malattia di un soggetto terzo

di Luigi Antonio Beccaria

N. 24

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L’assenza per malattia della figlia e non del lavoratore medesimo non rientra nell’ipotesi speciale di prolungamento del periodo di comporto, per carenza del requisito della patologia tubercolare in capo alla persona del lavoratore in vista della sua guarigione

Massima

  • Licenziamento – superamento periodo comporto – comporto “speciale” – patologie di terzi - applicabile

    L’ambito applicativo dell’art. 10 l. 419/1975, asseritamente violato dal datore di lavoro recedente, deve ritenersi specificamente relativo alla persona stessa del lavoratore, laddove invece nel caso di specie l’assenza è stata giustificata da una diversa esigenza, quella di profilassi relativa ad una persona terza rispetto alle parti del contratto di lavoro, di talché non è pensabile un’interpretazione analogica estensiva relativa anche a persone diverse da quella nei cui confronti è pensata la tutela dell’ulteriore comporto.

Riepilogo dei fatti di causa e della vicenda giudiziale di merito

In data 16 luglio 2018 un lavoratore, già assunto presso una società osservante il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore Industria – Gomma Plastica, veniva licenziata a seguito del superamento del periodo di comporto.

Il provvedimento datoriale veniva ritualmente impugnato dalla lavoratrice avanti al Tribunale di Brescia, competente territorialmente quale giudice di prime cure, il quale rigettava il ricorso, sulla base del fatto che l’art. 39 della fonte collettiva osservata escludeva...

  • [1] In primis il riferimento va a Cass. n. 5296/1983, che ha affermato la seguente massima di diritto: “L’art. 9 l. 14 dicembre 1970 n. 1088 (che obbliga il datore di lavoro a conservare il posto di lavoro al dipendente affetto da tubercolosi per sei mesi dalla dimissione dal luogo di cura per intervenuta guarigione o stabilizzazione della malattia), ha introdotto una forma di comporto ex lege, di modo che il comporto ordinario (secco o per sommatoria) deve ritenersi prolungato per tale periodo qualora sia venuto a scadere nel corso del detto semestre.”

  • [2] Da ultimo, si veda la pronuncia Cass. n. 19936/2023, richiamata in motivazione, secondo cui: “L’ art. 9 della l. n. 1088 del 1970 (confermato in tale parte dall’ art. 10 della l. n. 419 del 1975 ), che ha previsto la sospensione del rapporto di lavoro per tutto il periodo in cui il lavoratore è affetto da tubercolosi fino a sei mesi dopo la data di dimissioni dal luogo di cura per avvenuta guarigione o stabilizzazione della malattia, deve essere interpretato nel senso che la garanzia della conservazione del posto di lavoro non è limitata all’ipotesi di ricovero del lavoratore in un istituto di cura specializzato (sanatorio od ospedale), ma comprende qualsiasi modalità di cura, anche ambulatoriale o domiciliare, atteso che la finalità della citata norma è quella di vincolare il mantenimento del posto di lavoro per tutta la durata in cui il lavoratore ammalato risulti bisognoso di cure nonché per ulteriori sei mesi dopo il verificarsi di uno dei due suddetti eventi (guarigione o stabilizzazione della malattia).”

  • [3] In questo caso il riferimento va a Cass. n. 134/1997, che, in caso di licenziamento sopraggiunto durante il periodo semestrale descritto, ha così statuito: “Il giudice, annullato il licenziamento di lavoratore affetto da tubercolosi, illegittimo perché intimato prima della scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dall’art. 9 della legge n. 1088 del 1970 (periodo non avente una durata massima predeterminata, la sua scadenza essendo fissata al decorso del termine di sei mesi dalla data della dimissione dalla casa di cura per guarigione o stabilizzazione della malattia), deve, non diversamente che negli altri casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia rispetto ai quali sussistano i presupposti della tutela di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro - provvedimento che vale a ripristinare la situazione anteriore al recesso - e condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno, che va liquidato, come ora espressamente previsto dal citato art. 18 così come novellato dall’art. 1 della legge n. 108 del 1990, sulla base del parametro delle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento (salvo il minimo delle cinque mensilità), se il datore di lavoro non eccepisca e provi la sussistenza di fatti o circostanze idonee a determinare una riduzione del presuntivo ammontare del danno, con la conseguenza (dato anche che il lavoratore illegittimamente licenziato non ha l’onere di offrire la propria prestazione lavorativa) che detto criterio non può essere derogato in considerazione della circostanza che al momento del licenziamento il lavoratore, per la durata della assenza, potesse non avere più diritto al trattamento retributivo, se sia mancata la deduzione e la prova da parte del datore di lavoro che la malattia e la correlativa situazione di impedimento alla maturazione della retribuzione si siano protratte anche nel periodo successivo al recesso.”