Contenzioso

Subordinazione anche se non si dimostra il potere direttivo del datore di lavoro

In via sussidiaria il giudice può valorizzare altri elementi caratterizzanti l’attività svolta

di Valeria Zeppilli

In linea generale, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato può essere decretata dimostrando la soggezione del personale al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Si tratta, infatti, dell'elemento essenziale della subordinazione, che emerge dall'articolo 2094 del Codice civile e che rappresenta il principale elemento discretivo rispetto al lavoro autonomo.

L’assoggettamento, tuttavia, rappresenta solo una modalità di essere del rapporto di lavoro, che può essere desunta da una serie di circostanze e che non coincide quindi con un dato di fatto elementare. Sulla base di tale considerazione, la Corte di cassazione (ordinanza 1095/2023) ha rilevato che, ai fini qualificatori di una prestazione lavorativa, è possibile fare ricorso ad altri elementi laddove l'assoggettamento al potere direttivo, disciplinare e di controllo non possa essere agevolmente apprezzato.

Così – seppure in maniera sussidiaria e tenendo conto della loro natura meramente indiziaria – per accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro sussidiario si possono prendere in considerazione circostanze di varia natura, quali, ad esempio, la continuità della prestazione resa dal lavoratore, il rispetto da parte sua di un orario predeterminato, la corresponsione in suo favore di un compenso prestabilito erogato a cadenze fisse, l'assenza di rischio in suo capo e l'insussistenza di una struttura imprenditoriale anche minima.Resta fermo che si tratta di indizi sui quali può fondarsi una prova presuntiva della subordinazione e che non possono quindi, di per sé, assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto. Oltretutto, affinché costituiscano una prova presuntiva, occorre che siano stati valutati in maniera complessiva e globale.

Chiaramente poi, come ribadito dalla Corte di cassazione, il punto di partenza dell'indagine del giudice rimane sempre la qualificazione data dalle parti al loro rapporto, pur non essendo la stessa né vincolante né esaustiva a fini decisori.Nel caso specifico, si era in presenza di plurimi contratti qualificati come di lavoro autonomo, denominati vagamente «incarichi di consulenza» e nei quali l'oggetto della prestazione da svolgere era indicata in maniera del tutto generica.

Con riferimento a essi, nel corso del giudizio era stato accertato, tra le altre cose, che il lavoratore si avvaleva di strumenti di lavoro forniti dal committente, con conseguente insussistenza del rischio economico, e che la società in favore della quale era svolta la prestazione lavorativa esercitava un controllo sulla sua entità oraria e giornaliera. Inoltre, nonostante il lavoratore operasse a seguito di specifiche richieste di intervento da parte del cliente del committente, era stata comunque riscontrata la disponibilità ad assicurare l'assistenza nell'arco temporale da quest'ultimo richiesto. Infine, funzioni del tutto analoghe a quelle del lavoratore parte in giudizio erano affidate, per un altro cliente, a un dipendente della società.

Nonostante la mancata prova dell'eterodirezione, per i giudici del merito, con decisione avallata dalla Corte di cassazione, ci si trova di fronte a elementi indiziari, significativi della subordinazione e idonei a fondare le pretese del lavoratore di veder diversamente qualificata la propria prestazione, formalmente resa con le modalità del lavoro autonomo.

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