Welfare

Welfare, post pandemia cresce la spesa: balzo di 22 miliardi nel 2022

Denatalità e mercato del lavoro mettono però a rischio questi investimenti

di Claudio Tucci

Continua a crescere la spesa in welfare, anche dopo la pandemia. Nel 2020 c’è stato un aumento di 46 miliardi, e tra il 2021 e il 2022 l’investimento nei tre pilastri tradizionali (sanità, politiche sociali, previdenza) e nell’istruzione ha continuato a salire, +22 miliardi, di cui 18 solo nel 2022, raggiungendo i 615 miliardi di spesa complessiva. La previdenza continua ad assorbire circa la metà della spesa in welfare (48,4%), seguita dalla sanità (21,8%), dalle politiche sociali (18,2%) e dall’istruzione (11,6 per cento).

Ma un po' le trasformazioni, rapide, del mercato del lavoro, e soprattutto la forte denatalità, rischiano di modificare, nel medio periodo, questi numeri, mettendo sotto pressione tutto il nostro sistema di protezione sociale. Ad accendere una serie di “spie rosse” su demografia e welfare è il rapporto 2022 del Think Tank “Welfare, Italia” supportata da Unipol Gruppo con la collaborazione di The European House-Ambrosetti, presentato ieri a Roma assieme, tra gli altri, ai ministri dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, per la Famiglia, Eugenia Roccella, al presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo (il capo dello Stato, Sergio Mattarella, in un messaggio ha evidenziato l’importanza della collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore, per potenziare e ammodernare i servizi).

Il tema della denatalità è cruciale. Nel 2035 in Italia ci saranno 2,5 milioni di persone in meno rispetto al 2020 (pari a 4,4 milioni di persone in età lavorativa), che dovranno sostenere 3,6 milioni di over65 in più (nello scenario peggiore, nel 2050, la popolazione calerà di ben 10,5 milioni). Tutto ciò avrà anche ripercussioni, drammatiche, sul capitale umano, legato al rapporto immigrati/emigrati. Stando ai numeri attuali, se non si invertirà trend, nel 2055 l’Italia rischia di perdere circa 147 miliardi di euro se i “cervelli in fuga” nel 2020 non tornassero in “patria” durante la loro vita lavorativa. Dei 121mila italiani infatti che hanno lasciato il nostro Paese nel 2020, il 26% (circa 31mila persone) è in possesso di laurea o di un titolo di studio superiore e, allo stesso tempo, la percentuale di laureati stranieri in Italia (13,3%) è la più bassa nell’intera area Ocse (media del 40,8%). «Abbiamo tante persone che emigrano e non rientrano, e questo è un altro tema su cui riflettere, perché il nostro deve tornare a essere un paese attrattivo», ha detto il presidente di Unipol, Carlo Cimbri.

C’è poi l’inflazione elevatissima che rischia di portare da 2 a 2,3 milioni (+300mila nuclei) il numero di famiglie in povertà assoluta, per un totale di 6,4 milioni di persone. Di qui l’esigenza di intervenire. Tra le misure da mettere in campo, un sostegno più robusto a genitorialità e occupazione femminile, il rilancio della previdenza complementare, e più servizi di welfare, contrattuale e aziendale.

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