Contenzioso

Doppia retribuzione per il dipendente in caso di trasferimento di azienda nullo

di Aldo Calza

La Corte di appello di Roma (sentenza 8776 del 3 novembre 2014) è intervenuta sulla complessa questione concernente il diritto dei dipendenti addetti a un ramo di azienda ceduto ex articolo 2112 del codice civile di percepire dal cedente la retribuzione per il periodo successivo alla pubblicazione della sentenza che dichiari la nullità del trasferimento di azienda, ciò anche qualora i dipendenti medesimi non abbiano subito alcuna perdita di natura economica, avendo regolarmente percepito la retribuzione, per il medesimo periodo, da parte del cessionario.

In base all’articolo 2112 del codice civile il rapporto di lavoro dei dipendenti addetti al ramo trasferito prosegue, senza soluzione di continuità, in capo al cessionario, che assume dunque tutte le obbligazioni inerenti il rapporto di lavoro, compresa ovviamente quella retributiva. Il profilo affrontato dalla Corte di appello riguarda le ipotesi nelle quali, per effetto di una sentenza che dichiari la nullità del trasferimento di azienda, i dipendenti ottengano la ricostituzione del rapporto di lavoro in capo al cedente con effetto dalla data dell’illegittimo trasferimento.

Nel caso esaminato, la cedente non aveva ottemperato alla sentenza pronunziata a suo sfavore, lasciando che il dipendente ceduto continuasse a lavorare presso il cessionario e a percepire le retribuzioni da quest’ultimo. Il lavoratore, pur lavorando presso il cessionario, aveva dichiarato la disponibilità a riprendere servizio presso il cedente e aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data della sentenza in poi.

La società cedente si era opposta al decreto ingiuntivo affermando che il dipendente, avendo continuato a lavorare anche dopo la sentenza e senza soluzione di continuità, percependo regolarmente la retribuzione da parte del cessionario, non aveva in realtà maturato alcun diritto di natura retributiva nei confronti del cedente.

La Corte di appello di Roma ha respinto le difese della cedente con motivazione molto approfondita e articolata. In primo luogo, la Corte ha chiarito che nel caso di accertamento della nullità del trasferimento di azienda e di conseguente ripristino dei rapporti di lavoro in capo al cedente, non si applica il disposto di cui all’articolo 18 della legge 300/1970, in quanto il rapporto non si è mai estinto, ma è proseguito alle dipendenze del cessionario. Al contrario, trattandosi di una ipotesi di nullità del recesso, si applica il regime comune delle obbligazioni (articolo 1218 del codice civile).

Sulla base di ciò, la Corte ha introdotto una distinzione tra il credito maturato dal dipendente dalla data dell’illegittimo passaggio al cessionario alla data della sentenza e il credito maturato successivamente. Il primo credito ha natura certamente risarcitoria ed è pertanto sensibile agli eventuali guadagni ottenuti aliunde dal dipendente; dal danno vanno dunque dedotte le retribuzioni versate al dipendente, nelle more del giudizio, dal cessionario.

Il secondo credito invece, quello sorto dopo la sentenza, non ha natura risarcitoria, ma retributiva ed è dunque insensibile all’aliunde perceptum. È sufficiente che il lavoratore manifesti la propria disponibilità a riprendere il servizio, perché in capo al cedente sorga l’obbligo retributivo, così come tutte le ulteriori obbligazioni derivanti da un rapporto di lavoro a tutti gli effetti in essere.

Il fatto dunque che il dipendente, anche dopo la sentenza, non abbia subito alcun danno di natura patrimoniale, non libera il cedente dall’obbligo di versare in suo favore l’intera retribuzione maturata dalla data della sentenza alla data di effettiva riammissione in servizio.

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