Contenzioso

Rassegna di giurisprudenza

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trattamento economico per i lavoratori di cooperative
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e licenziamento
Demansionamento e risarcimento del danno
Contratto di appalto e subordinazione

Trattamento economico per i lavoratori di cooperative

Cass. Sez. Lav. 20 febbraio 2019, n. 4951

Pres. Bronzini; Rel. Ponterio; Ric. S.S.F.; Controric. D.C.

Lavoro - Lavoro subordinato – Cooperative - Caratteri del rapporto individuale - Trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi della contrattazione collettiva - Applicabilità - Fondamento.

Ai lavoratori di cooperative deve essere garantito un trattamento economico complessivo non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni similari, dal CCNL di settore o categoria affine sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

NOTA
Nel caso de quo, un dipendente rivendicava il diritto di essere retribuito in ragione dei valori tabellari del CCNL "Pulizie Multiservizi", anziché di quelli del CCNL "Portieri e Custodi", richiamato nel regolamento della cooperativa.
La Corte d'Appello, riformando la statuizione di primo grado, accoglieva la domanda del lavoratore, argomentando che l'obbligo per la cooperativa di applicare il trattamento economico previsto dal CCNL del settore o della categoria affine a quella in cui la stessa opera, derivasse dalla legge (art. 3, L. n. 142/2001) e non dall'adesione della cooperativa ad una determinata associazione sindacale e che tale obbligo, in quanto posto da una norma imperativa, dovesse prevalere sui diversi accordi eventualmente stipulati con il singolo socio lavoratore. Concludeva, quindi, che, in base al settore in cui operava il datore, secondo il suo oggetto sociale (servizi per la conservazione e tutela del patrimonio mobiliare e immobiliare di operatore logistico di controllo degli accessi) e alle prestazioni rese dal dipendente, il CCNL di riferimento non potesse essere quello "Portieri e Custodi", relativo ai rapporti di lavoro dei dipendenti di proprietari di fabbricati, bensì quello del settore "Pulizia Multiservizi", concernente i rapporti di lavoro degli addetti alle pulizie, alla manutenzione, al controllo degli accessi degli immobili e, in generale, ai servizi integrati svolti a favore di terzi da imprese del settore pulizie o altre imprese di servizi.
Avverso tale decisione, la cooperativa proponeva ricorso per Cassazione, lamentando che l'art. 3 cit.
imponesse alle società cooperative solo di applicare un trattamento economico complessivo "non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine", lasciando alle stesse la facoltà di scegliere i parametri retributivi anche di categorie affini a quelle in cui la cooperativa medesima operava, come nel caso di specie il CCNL "Portieri e Custodi", applicato dal datore.
Il Supremo Collegio, richiamando la sentenza della Corte cost. n. 51/2015, rammenta, anzitutto, che l'attuazione per via legislativa dell'art. 36 Cost., nella perdurante inattuazione dell'art. 39 Cost., non comporta il riconoscimento di efficacia erga omnes del contratto collettivo, bensì unicamente l'utilizzazione dello stesso quale parametro esterno, con effetti vincolanti.
Tanto premesso, i Giudici di legittimità soggiungono che l'art. 7, L. n. 31/2008 presuppone un concorso tra contratti collettivi nazionali applicabili in un medesimo ambito («in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria») e attribuisce riconoscimento legale ai trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai CCNL sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria e, dunque, presumibilmente capaci di realizzare assetti degli interessi collettivi più coerenti col criterio di cui all'art. 36 Cost., rispetto ai CCNL conclusi da associazioni comparativamente minoritarie nella categoria. Precisamente - come si legge nella sentenza della Corte cost. n. 51 cit. - «nell'effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l'andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l'articolo censurato (art. 7 cit.) si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l'indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative».
Tanto chiarito, la Cassazione ribadisce che da tale assetto delle fonti regolatrici del rapporto di lavoro non deriva alcun rischio di lesione del principio di libertà sindacale e del pluralismo sindacale. Difatti - argomentano i Giudici di legittimità - la scelta legislativa di dare attuazione all'art. 36 Cost., fissando standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale, a tal fine generalizzando l'obbligo di rispettare i trattamenti minimi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, non fa venir meno il diritto delle organizzazioni minoritarie di esercitare la libertà sindacale attraverso la stipula di contratti collettivi, ma limita nei contenuti tale libertà, dovendo essere comunque garantiti livelli retributivi almeno uguali a quelli minimi normativamente imposti. Parimenti, le singole società cooperative potranno scegliere il contratto collettivo da applicare, ma non potranno riservare ai soci lavoratori un trattamento economico complessivo inferiore a quello che il legislatore ha ritenuto idoneo a soddisfare i requisiti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione.
Ebbene - conclude il Supremo Collegio - la Corte di merito ha, quindi, correttamente escluso l'utilizzabilità del CCNL "Portieri e Custodi", quale parametro ai fini del trattamento economico minimo, in quanto relativo ad un settore non sovrapponibile a quello oggetto dell'attività della datrice. Segnatamente, l'ambito di applicazione del predetto CCNL è espressamente definito come relativo ai rapporti dei lavoratori dipendenti da proprietari di fabbricati e da quelli addetti ad amministrazioni immobiliari o condominiali. Tale contratto, se pure sottoscritto dalle sigle sindacali confederali dei lavoratori (Cgil, Cisl e Uil), risulta stipulato, per parte datoriale, da un'unica organizzazione sindacale, la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia), il che - ragionano gli Ermellini - rende evidente il ristretto ambito applicativo della stesso e, nel contempo, non soddisfa il requisito previsto dall'art. 7, L. n. 31/2008, che fa riferimento al contratto collettivo sottoscritto, anche per parte datoriale, dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 13 marzo 2019, n. 7167

Pres. Nobile; Rel .Della Torre; P.M. Mastroberardino; Ric. V.D.R. S.r.l.; Controric. S.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Illegittimità - Discrezionalità del giudice - Esclusione - Fattispecie: collocazione del dipendente nel reparto destinato ad essere soppresso per esternalizzazione dell'attività

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Struttura bifasica dell'accertamento giudiziale - Due distinte operazioni concettuali - Prima fase: ricognizione del giustificato motivo oggettivo - Seconda fase (eventuale): verifica della manifesta insussistenza del fatto

L'indagine, che deve compiere il giudice del merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzata dalla "manifesta insussistenza del fatto", si compone di due momenti concettualmente distinti ma coesistenti nell'unitarietà dell'accertamento giudiziale: nel senso che, con il primo di essi, che attiene alla struttura tipica della specifica fattispecie espulsiva, il giudice è chiamato ad accertare il "fatto" del licenziamento in ciascuno degli elementi che concorrono a delinearlo (riorganizzazione, nesso di causalità e obbligo di repêchage); con il secondo, il giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l'eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all'area di una insussistenza che deve porsi come "manifesta" e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento.
NOTA
Il caso trae origine da un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente per soppressione del reparto cui era addetta, disposto in conseguenza dell'esternalizzazione delle relative attività.
Al riguardo, la Corte d'Appello di Roma escludeva che il licenziamento intimato alla lavoratrice potesse considerarsi assistito da un giustificato motivo oggettivo, poiché la dipendente licenziata e gli altri colleghi di lavoro erano stati collocati volontariamente nel reparto destinato ad essere eliminato. Ciò determinava l'insussistenza di un effettivo collegamento tra il riassetto organizzativo e produttivo della società e la soppressione del posto di lavoro e, con essa, la manifesta insussistenza del fatto integrante il dedotto giustificato motivo oggettivo, con conseguente applicazione della tutela di cui al quarto comma dell'art. 18, L. n. 300/1970.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la sentenza impugnata affermando il principio secondo il quale, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo manifestamente insussistente, non è a discrezione del giudice scegliere il regime di tutela da applicare, reale o indennitaria. Infatti, se il fatto indicato nella lettera di licenziamento è manifestamente insussistente, non rimane altro che applicare l'estrema tutela prevista dal quarto comma dell'art. 18 della L. n. 300/1970.
Ciò posto, la Suprema Corte ha altresì osservato che l'indagine che deve compiere il giudice di merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzata dalla "manifesta insussistenza del fatto", si compone di due momenti concettualmente distinti ma coesistenti nell'unitarietà dell'accertamento giudiziale. Con il primo di essi il giudice è chiamato ad accertare il "fatto" del licenziamento e, quindi, «a procedere ad un'opera di ricognizione tanto della effettiva sussistenza di un processo di riorganizzazione o riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del nesso di causalità tra tale processo e la perdita del posto di lavoro ed inoltre dell'impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il proprio dipendente nell'impresa riorganizzata e ristrutturata». Con il secondo momento il giudice «è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l'eventuale riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all'area di una insussistenza che deve porsi come "manifesta" e cioè contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento».
A tali criteri di indagine, ha concluso la Suprema Corte, si sono correttamente uniformati i giudici della Corte d'Appello di Roma, avendo preso in considerazione non solo l'intervenuto riassetto organizzativo e produttivo dell'impresa, pacificamente sussistente, ma anche la questione dell'esistenza di un nesso effettivo tra tale riassetto e la soppressione del posto di lavoro. La dipendente licenziata proveniva, infatti, da un reparto aziendale non coinvolto dalla riorganizzazione ed era stata "artificiosamente" collocata in un reparto destinato ad essere soppresso.
La Corte ha dunque ritenuto che tale condotta datoriale, obiettivamente e palesemente artificiosa, «in quanto diretta all'attribuzione e all'esercizio di un potere di selezione arbitraria del personale da licenziare» integrasse il presupposto per l'applicazione della tutela di cui al quarto comma dell'art. 18, L. n. 300/1970.

Sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 7 marzo 2019, n. 6678

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. M.T.; Controric. S.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale – Impossibilità sopravvenuta della prestazione – Diritto alla conservazione del posto di lavoro - Accomodamenti ragionevoli - Adattamenti organizzativi - Obbligo di verifica a carico del datore di lavoro - Sussistenza - Fondamento – Condizioni.

In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro - purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido - ai fini della legittimità del recesso.
NOTA
Nel caso di specie una lavoratrice aveva impugnato, in quanto discriminatorio, il licenziamento per impossibilità sopravenuta della prestazione intimatole dal suo datore di lavoro.
La Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato in quanto ha ritenuto che non era stata accertata alcuna responsabilità del datore di lavoro in ordine all'insorgenza della patologia sofferta dalla lavoratrice e ha sottolineato, quanto all'obbligo di repêchage, che «il campo di indagine entro cui valutare l'adempimento datoriale era rappresentato esclusivamente dalle due postazioni ritenute, dal consulente tecnico d'ufficio, compatibili con la ridotta capacità lavorativa della lavoratrice, in relazione alle quali era stato dimostrato l'assenza di disponibilità (trattandosi di postazioni occupate da dipendenti della società e da lavoratori di impresa appaltatrice)».
La lavoratrice ha proposto avverso tale sentenza ricorso per cassazione lamentando tra il resto «violazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2003 avendo trascurato, la Corte distrettuale, di valutare gli accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro doveva adottare per il reimpiego della lavoratrice» sulla scorta dell'art. 3 comma 3 bis del d.lgs 216/2003 che afferma che «al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro (…) sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli(…) nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo il principio di diritto secondo cui «in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", sussiste l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs n. 216 del 2003, di recepimento dell'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5».
La Corte ha quindi sottolineato che le misure organizzative che si rendono necessarie nell'ipotesi suddetta non possono incidere negativamente sulle mansioni e sulle condizioni di lavoro degli altri lavoratori. Il datore di lavoro può quindi legittimamente rifiutare di assegnare il lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all'attività in quel momento svolta, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, qualora ciò comporti oneri organizzativi eccessivi, e, in particolare, se derivi a carico di singoli colleghi dell'invalido, la privazione o l'apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa.

Demansionamento e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav. 25 febbraio 2019, n. 5431

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. D.S.G.; Contr. S.S.L. S.p.A.;

Demansionamento – Inattività del lavoratore – Danno in re ipsa – Insussistenza – Onere di allegazione e prova anche per presunzioni – Necessità.

In tema di demansionamento, il danno patrimoniale che ne consegue può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, che nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di una adeguata allegazione, ad es. deducendo l'esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
NOTA
La Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento dell'impugnativa promossa dalla società, respingeva la domanda di risarcimento del danno alla professionalità avanzata dal lavoratore. La Corte di merito, pur considerando accertata l'inattività in cui era stato posto il dipendente, aveva ritenuto tuttavia che mancassero specifiche allegazioni e prove sul danno professionale, di natura patrimoniale, dedotto dallo stesso lavoratore come in re ipsa. Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per Cassazione denunciando la sentenza nella parte in cui, pur avendo ritenuta "acclarata" la sua inattività, non avesse riconosciuto il danno alla professionalità anche sulla base degli indici presuntivi legati alla durata ed alla gravità del comportamento datoriale.
La Suprema Corte respinge il ricorso, precisando che la Cassazione, da tempo (S.U. 6572/2006 e 26972/2008), ha qualificato come inadempimento contrattuale la violazione degli obblighi di tutela della professionalità, della salute e della personalità morale dei lavoratori, ma ha anche precisato come dall'inadempimento datoriale non derivi automaticamente l'esistenza del danno, non potendosi quest'ultimo ravvisare immancabilmente nella potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. Deve quindi distinguersi tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c., quindi tra il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c. e quello della produzione del pregiudizio, nei differenti aspetti che lo stesso può assumere. Ciò proprio in ragione del fatto che dall'inadempimento datoriale possono derivare, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore (danno professionale in senso patrimoniale, danno biologico, danno all'immagine o alla vita di relazione, cd. danno esistenziale), che possono anche coesistere l'una con l'altra, con conseguente necessità di specifica allegazione e prova da parte di chi assume di essere stato danneggiato. La prova del danno da demansionamento e dequalificazione professionale può essere data dal lavoratore anche ai sensi dell'art. 2729 c.c. attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti. Con particolare riferimento, poi, al danno professionale di natura patrimoniale, si è precisato che lo stesso può consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma tale pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di una adeguata allegazione, ad es. deducendo l'esercizio di una attività soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo.
Ebbene, a parere della Suprema Corte, nel caso di specie, i giudici di merito si sono attenuti a tali princìpi laddove hanno respinto la domanda di risarcimento del danno patrimoniale non ritenendo adeguatamente assolto l'onere di allegazione e prova, sul rilievo che lo stesso lavoratore avesse espressamente formulato la domanda risarcitoria come danno in re ipsa, senza in alcun modo allegare come la forzata inattività avesse causato conseguenze negative in termini di perdita di professionalità in relazione al tipo di attività svolta o di possibilità di reperimento di nuovi lavori.

Contratto di appalto e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 13 marzo 2019, n. 7170

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. A.D.; Controric. T.S.P.A.+2;

Lavoro subordinato – Contratto di appalto – Interposizione illecita di manodopera – Committente che si limita a impartire disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore – Irrilevanza

La circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore non è da sola sufficiente per configurare quell'esercizio di potere direttivo ed organizzativo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato
NOTA
Nel caso che ci occupa il lavoratore, assunto prima con contratto occasionale e successivamente con contratto a progetto dalla società datrice di lavoro, svolgeva la sua prestazione in esecuzione di un contratto di appalto per la fornitura di servizi informatici e software alla società committente. Nell'appalto in esame la società datrice di lavoro rivestiva il ruolo di subappaltatore.
Il lavoratore conveniva in giudizio la società committente e la società datrice di lavoro per sentire dichiarare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società committente, sostenendo la non genuinità dell'appalto e la conseguente interposizione illecita di manodopera, nonché l'illegittimità dei recessi intimatigli, richiedendo la reintegra nel posto di lavoro (in via principale presso la committente e in subordine presso la società datrice di lavoro) oltre al risarcimento del danno.
Le richieste del lavoratore venivano integralmente respinte in primo grado mentre la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza emessa dal giudice di prime cure, sosteneva da una parte che il lavoratore non avesse offerto sufficienti elementi per ritenere provata l'interposizione illecita di manodopera, ritenendo peraltro non sufficiente a tal fine il fatto che i dipendenti del subappaltatore utilizzassero strumenti di proprietà della committente o dell'appaltatore, dall'altra che il contratto a progetto stipulato dal lavoratore con la società datrice di lavoro fosse nullo e ne dichiarava dunque la conversione (in rapporto di lavoro subordinato).
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, sulla base di vari motivi, sostanzialmente consistenti – per quanto qui interessa – nell'essere la Corte d'Appello incorsa nell'errore di considerare l'appalto intercorso come genuino pur in assenza di qualsiasi attività di direzione da parte della società datrice (che ne aveva soltanto la gestione amministrativa, a detta dello stesso lavoratore) e nonostante le modalità di svolgimento della prestazione in concreto fossero incompatibili con un appalto genuino (con particolare riferimento al fatto che gli interventi fossero effettuati su richiesta della committente).
La Suprema Corte ha respinto le censure del lavoratore e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Cassazione ha ribadito un suo costante orientamento a mente del quale «la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore non è da sola sufficiente per configurare quell'esercizio di potere direttivo ed organizzativo che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato».
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha, nel caso di specie, fatto corretta applicazione di tale principio rilevando che, alla luce delle emergenze istruttorie, le direttive impartite dalla committente non fossero sufficienti, a fronte di altri profili di rilievo organizzativo e di gestione del rapporto di lavoro emersi, a far ritenere sussistente un rapporto di lavoro subordinato in capo alla committente medesima.
La subordinazione esistente e correttamente rilevata dalla Corte d'Appello era dunque esclusivamente quella nei confronti della società datrice di lavoro, vista la nullità del contratto di lavoro a progetto stipulato.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©