Troppe forzature nelle interpretazioni delle Direttive Ue
Il diritto comunitario viene spesso invocato, quando si tratta di applicare o interpretare il diritto del lavoro, ma purtroppo questa invocazione molte volte finisce per essere alquanto generica e imprecisa.
Nascono, così, veri e propri “luoghi comuni\comunitari”: la causale del contratto a termine sarebbe imposta dal diritto comunitario, il lavoro in somministrazione dovrebbe essere regolato come quello a termine, il part time dovrebbe essere per forza rigido e subordinato al consenso del lavoratore, e così via.
Questi luoghi comuni, quando finiscono di fronte alla Corte di giustizia europea, vengono spesso clamorosamente smentiti, con un effetto alquanto curioso anche dal punto di vista mediatico: fa notizia quella che è la semplice applicazione delle regole delle direttive.
E' quello che è successo con la sentenza di ieri in materia di part time: in nessuna parte della Direttiva 97/81 sta scritto che uno Stato membro deve per forza subordinare al consenso del lavoratore la conversione dell'orario da tempo parziale a tempo. Una legge nazionale lo può fare, sia chiaro, ma non è obbligatorio: bastava leggere la direttiva per arrivare a questo assunto, eppure la sentenza fa notizia perché, secondo l'opinione maggioritaria, era vero il contrario.
Un fenomeno analogo si è verificato per la causale dei contratti a termine (diverse sentenze hanno legittimato le regole acausali) oppure per tanti altri argomenti: speriamo che queste sentenze stimolino tutti gli operatori ad una lettura più attenta delle direttive, evitando forzature interpretative spesso poco giustificate.
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