Rapporti di lavoro

Lo studio digitale aggiusta il tiro sui servizi ai clienti

di Dario Aquaro

Assistenza per finanziamenti e partecipazione ai bandi, supporto alla gestione finanziaria, conservazione digitale, analisi della concorrenza, conformità normativa dei processi lavorativi. Sono cinque servizi professionali in cui si riscontra un’offerta “in esubero” da parte degli studi: una proposta che supera (dal 10 al 19%) la domanda in arrivo dalle Pmi, secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio professionisti e innovazione digitale del Politecnico di Milano, realizzata insieme a Doxa.

Le risposte dei circa 4mila studi interpellati (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro e multidisciplinari) «evidenziano una variazione a livello aggregato, di mercato complessivo, e non di singolo portafoglio di studio», premette Claudio Rorato, responsabile scientifico dell’Osservatorio. E si tratta comunque di una differenza “nelle intenzioni”, perché riguarda i servizi che i professionisti ritengono necessario offrire alle imprese, ma che non trovano un’evidente corrispondenza.

Come superare il divario? «Sta nell’abilità dei professionisti stimolare la domanda, farla emergere, sviluppare una cultura manageriale e rendere le aziende consapevoli dell’utilità di certi servizi. Facendo leva sul digitale che – dice Rorato – ha l’immediato vantaggio della tangibilità».

Tangibile è il cruscotto digitale che consente di aumentare la velocità delle informazioni, organizzarle e renderle disponibili ai clienti. Tangibile è un mondo che va dall’archivio informatico alla business intelligence, dai software applicativi ai chatbot (intelligenza artificiale). Non a caso le prime tre caratteristiche desiderate dalle piccole e medie aziende sono la velocità delle risposte, l’esaustività e l’affidabilità.

Investimenti in aumento

Sul versante dell’innovazione, la ricerca dell’ateneo milanese (che sarà presentata mercoledì 8 maggio) sottolinea il crescente impegno delle professioni giuridico-economiche: nel 2018 gli investimenti in tecnologie informatiche sono aumentati ancora, a quota 1,26 miliardi di euro (+ 7,9% rispetto al 2017); e si stima che quest’anno potranno superare 1,3 miliardi (+6,8%). Anzi, i valori percentuali esprimono una propensione superiore a quella delle stesse aziende, ferme nel 2018 a una crescita dello 0,7 per cento.

In media gli studi non investono grandi cifre in Ict: la maggioranza (tre su quattro) si colloca nella fascia di spesa tra 3mila e 10mila euro. Una fascia che, tuttavia, è più che raddoppiata in confronto al 2017 (quando era al 36%). Sintesi del Politecnico: si sta formando una sorta di “media borghesia” di studi che, pur non destinando ingenti somme all’Ict, manifesta una crescente consapevolezza sull’efficacia delle tecnologie. «E questa presa di coscienza non è solo indotta dagli obblighi normativi, dall’urgenza dell’adempimento», commenta il direttore dell’Osservatorio, Elisa Santorsola.

In altri termini, non si tratta di un semplice e fisiologico impegno law driven, dettato dalle regole in materia di fatturazione elettronica o di tutela della privacy (Gdpr), per fare due esempi recenti. «Il grado di alfabetizzazione informatica di base è generalmente aumentato – prosegue Santorsola – e la sfida è ora quella di “vendere” le proprie capacità: gli studi professionali devono passare da un atteggiamento reattivo a uno proattivo, traghettarsi dal law driven al market oriented». Si torna lì: alla cultura manageriale.

Una miniera di dati

Il quadro è composto anche di timori, naturalmente. La preoccupazione di non avere adeguate competenze e dotazioni informatiche (soprattutto tra gli avvocati), e di non riuscire a procurarsi lavoro sufficiente per mantenere o ingrandire lo studio. «Ma la maggior complessità dell’agone competitivo, in cui oltretutto si sovrappongono le attività di altri soggetti, come le softwarehouse nel caso della formazione, deve spingere i professionisti a fornire servizi che siano meno “commodity” – precisa ancora Claudio Rorato –. E sfruttare la miniera rappresentata dai dati».

Sui dati si gioca infatti il grosso della partita. Per il momento solo un terzo degli studi fornisce servizi di controllo di gestione e circa il 3% usa software di business intelligence per organizzare servizi data based. Ma valorizzare l’asset dei dati è cruciale per costruire rapporti di partnership con le imprese. Perché i professionisti devono saper restituire valore informativo e diventare così parte integrata del processo decisionale dell’azienda. Chi si sta attrezzando in questo senso, migliorando la redditività dei clienti, ha già un vantaggio competitivo.

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