Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Dimissioni per facta concludentia di lavoratore assente

Sulla validità del patto di prova

Periodo di prova di lavoratore appartenente a categoria protetta

Licenziamento e obbligo di fedeltà

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Dimissioni per facta concludentia di lavoratore assente

Cass. Sez. Lav. 21 gennaio 2015, n. 1025

Pres. Macioce; Rel. Amoroso; P.M. Matera; Ric. S.; Controric. SA.;

Risoluzione del rapporto - Dimissioni per facta concludentia - Volontà effettiva di dimettersi - Necessità

Non è consentito alle parti di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria, giacchè in tal caso la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, inammissibile nell'attuale assetto della disciplina legale della risoluzione del rapporto di lavoro.

Nota - La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore il quale si era assentato ingiustificatamente dal lavoro nel periodo dal 26 aprile al 4 luglio 2006, ritenendo inapplicabile alla specie l'art. 68 del Regolamento del personale - posto a fondamento del licenziamento impugnato -, a norma del quale doveva considerarsi dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si fosse assentato senza giustificato motivo per un periodo superiore a dieci giorni lavorativi consecutivi.

In particolare, la Corte territoriale ha escluso che, nella specie, il dipendente potesse considerarsi dimissionario, tenuto conto che lo stesso, prima di assentarsi dal lavoro, aveva comunicato alla società di trovarsi in malattia, sia pure solo telefonicamente e senza documentare l'impedimento, e che la società aveva pure ritenuto la sussistenza della predetta malattia, tanto che aveva provveduto ad erogare il relativo trattamento economico per tutta la durata dell'assenza. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso la società con un unico motivo.

Sosteneva la ricorrente che la Corte territoriale non aveva considerato che il rapporto di lavoro si era risolto per dimissioni del lavoratore, espresse per fatti concludenti, in ragione della protratta assenza ingiustificata del medesimo dal posto di lavoro per un periodo superiore a dieci giorni, e non già in virtù di un provvedimento di licenziamento intimato dall'azienda, così come ritenuto dai giudici di appello.

La Suprema Corte, dopo aver ribadito il principio di diritto secondo cui "alle parti non è consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria...", ha ritenuto che correttamente la Corte di appello avesse escluso nella specie la sussistenza di una effettiva volontà del lavoratore di dimettersi, atteso che lo stesso aveva comunicato alla società di trovarsi in malattia, pur non avendo documentato il suddetto impedimento (in senso conforme cfr. Cass. 20 maggio 2000, n. 6604; Cass. 2 luglio 2013, n. 16507). In mancanza di idonea documentazione che comprovasse l'asserito stato di malattia, ha osservato la Corte, si versava, pertanto, in una situazione di prolungata assenza ingiustificata, la quale avrebbe potuto essere posta a fondamento di un licenziamento disciplinare, nel rispetto delle garanzie prescritte dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, ma che non poteva essere affatto ritenuta di per sé significativa di una volontà del lavoratore di dimettersi. Per tali ragioni, la comunicazione da parte della società di risoluzione del rapporto per intervenute dimissioni, ai sensi del regolamento negoziale, doveva essere considerata quale atto di licenziamento illegittimo perché intimato senza il rispetto delle garanzie difensive previste dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970.




Sulla validità del patto di prova

Cass. Sez. Lav. 16 gennaio 2015, n. 665

Pres. Roselli; Rel. Roselli; P.M. Servello; Ric. D.C.; Controric. E. S.r.l.;

Patto di prova - Validità - Specificità - Rinvio alla categoria prevista nel contratto collettivo - Sufficienza

Il patto di prova è valido in quanto specifico anche se è determinato solo attraverso il rinvio alla categoria prevista nel contratto collettivo.

Nota - La sentenza in commento conferma la decisione del giudice del merito che aveva rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere la dichiarazione di nullità del patto di prova apposto al suo contratto di lavoro. In particolare, il lavoratore aveva sostenuto che il predetto patto di prova fosse nullo perché generico, posto che esso si riferiva a mansioni previste dal contratto collettivo applicato per gli operai di una determinata categoria, senza alcuna specificazione circa il profilo di assegnazione fra i sei compresi in quella categoria. Tanto più che all'inizio del rapporto il lavoratore era stato assegnato a mansioni proprie di una categoria superiore.

Sia il giudice del merito che la Suprema Corte con la sentenza in esame hanno ritenuto che il patto di prova de quo dovesse ritenersi sufficientemente determinato attraverso il rinvio alla categoria del contratto collettivo. Infatti, contrariamente a quanto lamentato dal lavoratore, non contrasta con la necessaria specificità del patto di prova il riferimento alla sola categoria prevista nel contratto collettivo, senza l'indicazione di uno dei profili ivi rientranti; peraltro, ciò permette al datore di lavoro di assegnare il lavoratore ad uno dei tanti profili rientranti nella categoria richiamata nel contratto, con una conseguente maggiore tutela del lavoratore stesso, che trova maggiori opportunità di utilizzazione in azienda.

Inoltre, prosegue la Suprema Corte, la temporanea assegnazione al lavoratore di mansioni proprie di una categoria superiore non assume alcun rilievo circa la determinazione della nullità o meno del patto di prova, se, come nel caso di specie, ciò non ha avuto alcuna influenza sul giudizio sfavorevole, emesso dal datore di lavoro, all'esito della prova per giustificare il recesso dal rapporto di lavoro; infatti, nel caso di specie la temporanea assegnazione al lavoratore di mansioni proprie di una categoria superiore non aveva alterato sostanzialmente l'oggetto complessivo della prestazione pattuita e il predetto giudizio negativo era stato espresso dal datore di lavoro all'esito del periodo di prova soltanto con riferimento alle mansioni originariamente pattuite proprie della categoria richiamata nel contratto.




Periodo di prova di lavoratore appartenente a categoria protetta

Cass. Sez. Lav. 14 gennaio 2015, n. 469

Pres. Vidiri; Rel. De Renzis; P.M. Matera; Ric. M.F.P.; Controric. U.C.S.C.;

Lavoro subordinato - Lavoratore appartenente a categoria protetta - Periodo di prova - Recesso - Obbligo di motivazione - Esclusione - Asserita nullità del recesso - Onere della prova a carico del lavoratore

Nell'ipotesi di patto di prova, legittimamente stipulato con uno dei soggetti protetti assunti in base alla legge 2 aprile 1968 n. 482, il recesso dell'imprenditore durante il periodo di prova è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale per quanto riguarda l'onere dell'adozione della forma scritta e non richiede pertanto una formale comunicazione delle ragioni del recesso.

Nota - Una lavoratrice conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro avanti al Tribunale di Roma, al fine di sentire accertare l'illegittimità del recesso intimatole per mancato superamento della prova. La ricorrente deduceva di essere stata selezionata, in quanto appartenente a categoria protetta ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482 (disciplinante le assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private, ora abrogata dalla legge 12 marzo 1999, n. 68), per un corso di tirocinio come ausiliario specializzato, all'esito del quale era stata assunta a tempo indeterminato, con un periodo di prova di sei mesi.

Il Tribunale di Roma rigettava il ricorso, ritenendo legittimo il recesso in prova esercitato dal datore di lavoro senza specificazione dei motivi, considerato che la lavoratrice non ne aveva nemmeno fatto richiesta.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva la lavoratrice; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in applicazione del principio di diritto (già espresso in Cass. 14 ottobre 2009, n. 21784) secondo cui il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso, incombendo solo sul lavoratore licenziato l'onere di provare il positivo superamento del periodo di prova ovvero che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova. In sostanza, ad avviso della Corte di Cassazione, la manifestazione di volontà del datore di lavoro, in quanto riferita all'esperimento della prova, si qualifica come valutazione negativa della prova stessa e comporta, senza necessità di ulteriori indicazioni, la definitiva e vincolante identificazione della ragione che giustifica l'esercizio del potere di recesso. Valutazione che, tuttavia, può essere contestata dal lavoratore che, deducendo l'illegittimità dell'atto, attribuisce al giudice il potere-dovere di accertare, anche d'ufficio, la nullità o meno del recesso, in esito alla prova che risulti determinata o comunque influenzata dalle condizioni cui la legge n. 482 del 1968 collega l'obbligo di assunzione.




Licenziamento e obbligo di fedeltà

Cass. Sez. Lav. 9 gennaio 2015, n. 144

Pres. Vidiri; Rel. Napoletano; P.M. Celeste; Ric. N.P.S.; Controric. S.H. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del prestatore di lavoro - Violazione dell'obbligo di fedeltà ex art. 2105 cod. civ. - In genere - Contenuto - Integrazione con i principi di correttezza e buona fede - Comportamenti extralavorativi - Rilevanza – Fattispecie

Dal collegamento dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Torino, che aveva rigettato la domanda del lavoratore d'impugnazione del licenziamento intimatogli per aver svolto attività sportiva compromettente il recupero delle sue energie fisiche e della sua capacità lavorativa.

La Corte territoriale, infatti, aveva ritenuto ampiamente dimostrato il fatto che il lavoratore, senza riferire alcunché al datore di lavoro, avesse continuato a svolgere una pratica sportiva del tutto incompatibile con le sue condizioni fisiche, creando le condizioni per il rischio di aggravamento delle condizioni stesse; quanto al profilo della proporzionalità del provvedimento disciplinare, la Corte osservava che tale comportamento appariva grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l'azienda, posto che proprio in ragione delle condizioni di salute il datore di lavoro aveva assegnato al lavoratore mansioni ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte, sopportando un inevitabile danno dal punto di vista dell'efficienza produttiva ed organizzativa.

Con diversi motivi di ricorso il lavoratore ha criticato la sentenza impugnata per aver ritenuto sussistente, al di fuori dei periodi di assenza per malattia, un dovere generale del lavoratore di adeguare la propria vita privata a standards salutistici particolari; inoltre, a detta del ricorrente, l'obbligo di buona fede non può trasformarsi, per una sola delle parti del contratto, nel dovere di organizzare la propria vita in funzione della massimizzazione delle proprie capacità di rendimento lavorativo.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato innanzitutto che l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 c.c., dovendo integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro (cfr. sul punto Cass. 14176/2009) e che, in tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno. Nello specifico, ha aggiunto la Corte di Cassazione, la Corte territoriale si è sostanzialmente attenuta alla citata regula iuris, poiché, dopo aver accertato che l'attività sportiva svolta dal lavoratore non era compatibile con le sue condizioni fisiche (che avevano ridotto la sua capacità lavorativa), con rischio di aggravamento delle condizioni stesse, ha ritenuto che un tale comportamento fosse contrario ai doveri di buona fede e correttezza ed ha considerato sotto il profilo valutativo detto comportamento grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l'azienda. Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso del lavoratore.




Licenziamento per giustificato motivo soggettivo

Cass. Sez. Lav. 13 gennaio 2015, n. 344

Pres. Macioce; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. C.S.; Controric. e Ric Inc. C. s.p.a.;

Licenziamento - Giustificato motivo soggettivo - Assenza durante le fasce di reperibilità e abuso nell'utilizzo auto aziendale - Sussistenza - Conversione giudiziale da giusta causa a giustificato motivo soggettivo - Ammissibilità

L'assenza dall'abitazione durante le fasce orarie di reperibilità assume rilievo disciplinare sotto il profilo del notevole inadempimento agli obblighi contrattuali di buona fede e diligenza ai sensi degli artt. 2104 e 2110 c.c., indubbiamente sussistenti anche in riferimento al periodo di malattia, in cui il rapporto di lavoro deve ritenersi vigente, ancorché sospeso.
Costituisce uso abusivo del benefit l'utilizzo, sia pure da parte del coniuge, dell'autovettura concessa in uso promiscuo, in modo abnorme per lunghe percorrenze in periodi di sospensione del rapporto per malattia.

Nota - La Corte d'Appello di Milano ha riformato la sentenza di primo grado dichiarativa dell'illegittimità di un licenziamento per giusta causa ritenendo sussistente il giustificato motivo soggettivo di recesso. Conseguentemente la Corte ha condannato la società al pagamento del preavviso in favore del lavoratore che, a sua volta, è stato condannato a restituire al datore tutto quanto percepito per retribuzioni sino alla data di reintegrazione. In particolare, diversamente dal primo giudice, la Corte territoriale ha ritenuto che la sottrazione del lavoratore alla reperibilità durante la malattia, ostativa dei controlli della società sull'effettività del suo stato di salute, nonché l'uso abnorme dell'auto aziendale concessagli in uso promiscuo per lunghe percorrenze durante la malattia, seppur da parte del coniuge, integrassero giustificato motivo soggettivo, in cui andava, pertanto, convertita la giusta causa di recesso.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi e la società ha resistito con controricorso proponendo ricorso incidentale parimenti affidato a due motivi.

In sintesi il lavoratore ha censurato la decisione lamentando che essa si sia fondata su circostanze in parte incerte ed in parte non contestate, sottolineando, in particolare, l'inesistenza della richiesta datoriale di visite di controllo e l'inidoneità del solo uso promiscuo dell'auto aziendale ad integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi ritenendo che la Corte territoriale abbia, seppur succintamente, adeguatamente motivato la sua decisione laddove ha affermato i principi di cui alle massime riportate. In particolare, con riferimento all'assenza durante le fasce di reperibilità la Cassazione ha richiamato un suo specifico precedente ove si afferma che "la violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo entro le fasce di reperibilità assume rilevanza disciplinare di per sè, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia, essendo tale obbligo significativa espressione degli obblighi contrattuali di buona fede e diligenza. (Cass. 24 luglio 2000, n. 9709). In merito all'utilizzo abusivo dell'auto aziendale, la Suprema Corte chiarisce anche che l'abnormità del numero di km percorsi durante la sospensione del rapporto per malattia rende irrilevante l'eccezione del lavoratore inerente la concessione in "uso promiscuo" del benefit, dando atto di un suo "uso esclusivo" per ragioni non di ufficio, peraltro in aperta contraddizione con l'obbligo del lavoratore di non allontanarsi dall'abitazione durante la sospensione.

Infine la Corte ribadisce l'ammissibilità della conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, costituendo le causali del recesso datoriale mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto. (Cass. 9 giugno 2014 n. 12884).

La Cassazione dichiara, invece, inammissibili entrambi i motivi del ricorso incidentale rilevandone la genericità e non decisività.

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